L’Europa “a più velocità” auspicata da Angela Merkel porterebbe a un ulteriore indebolimento della UE: può infatti voler dire un’Europa “à la carte”, in cui ognuno decide di volta in volta su cosa collaborare
Dopo le dichiarazioni di Frau Merkel al Vertice europeo informale alla Valletta sulla necessità di assicurare più velocità di integrazione, è iniziato un proficuo dibattito su che cosa questo significhi davvero per la UE e per l’Italia in particolare e se questo, a poche settimane dalla celebrazione del 60° anniversario della firma dei Trattati di Roma, costituisca un cambio di rotta promettente.
La prima cosa da fare è intendersi sulle parole. Angela Merkel infatti ha detto: “Abbiamo imparato dalla storia degli ultimi che ci potrebbe essere un’Europa a differenti velocità e che non tutti parteciperanno ai vari passaggi dell’integrazione europea”. Considerando che dopo il referendum sulla Brexit la prima priorità dei tedeschi, governo e gran parte dell’opposizione pro-europea inclusa, era di tenere tutti insieme ed evitare altre defezioni, questo può parere un cambio di linea notevole. Ma è proprio cosi? E questa linea è davvero così positiva come molti sembrano pensare?
Nel dibattito italiano, si parla per lo più di “due velocità” e non di “differenti” velocità, come invece si legge sulla stampa tedesca, inglese o francese. La differenza è enorme e le parole della Signora Merkel favoriscono come spesso succede varie letture: in Germania hanno addirittura inventato una parola, “Merkeln”, che è sinonimo di incapacità di prendere decisioni forti e nette. Invece, noi dobbiamo essere molto chiari.
Tanto per cominciare, l’Europa “a più velocità” può preludere a un ulteriore indebolimento della UE: può infatti voler dire fare un’Europa “à la carte”, nella quale ognuno decide di volta in volta su cosa collaborare. Trionfo della cooperazione volontaria fra governi, fine dell’idea di una democrazia sovranazionale e ulteriore depotenziamento delle istituzioni comuni: già oggi in questioni che fanno parte delle competenze europee molti stati membri sono sempre più insofferenti del “giogo” europeo, anche se hanno approvato in sede legislativa le disposizioni che poi contestano. Oltre agli esempi di Schengen e dell’euro, il Trattato prevede la possibilità di fare delle “cooperazioni rafforzate”, ma la procedura è complessa ed è stata usata raramente. Peraltro, nella logica della ri-nazionalizzazione delle competenze europee in atto oggi, non ci sono dubbi che il modello verso il quale si rischia di andare sarebbe quello di cooperazioni ad hoc, anche al di fuori delle strutture comuni del trattato e dunque al di fuori del controllo della Corte di Giustizia e del PE, in particolare in temi come quello della difesa o dell’immigrazione. Non dimentichiamoci che anche il Fiscal Compact è stato un Trattato negoziato ed approvato al di fuori delle strutture comunitarie, e quindi dal controllo e ruolo del Parlamento.
Altra possibile interpretazione dell’integrazione a più livelli da combattere duramente è poi quella della “Kern-Europa” proposta da Schauble e Lemmers nel lontano 1994, ma che ancora resiste nella testa del potente e deleterio (per l’Europa) Ministro delle finanze tedesco, che è a suo modo un vero federalista. Si tratta dell’idea di una UE fondata sulla sua visione della disciplina di bilancio assurta a dogma assoluto, lo stesso che oggi gli fa preferire negare investimenti pubblici necessari anche in Germania per potere avere zero debito pubblico. Schauble non esclude di per sé unione fiscale o meccanismi di solidarietà o una vera Unione Bancaria o una maggiore integrazione: ma tutto questo può avvenire solo e soltanto se tutti sono non solo finanziariamente, ma anche “moralmente” a posto. Il punto di partenza è naturalmente l’Eurozona: ma se non tutti ce la fanno se ne può espellere qualcuno, e magari inventarsi un euro a due classi e continuare la propria austera strada in compagnia dei più virtuosi.
Anche se teoricamente attraenti, sono convinta che alla prova della realtà, nessuna di queste due versioni dell’Europa a differenti velocità potrà funzionare e rilancerà l’UE.
La prima, l’Europa “a la carte” perché saltellare da una politica all’altra (la difesa con francesi, tedeschi, spagnoli; l’ambiente coi nordici; le tasse con chi ci sta) non è semplice come si crede e la storia di questi 60 anni ha chiaramente dimostrato che o ci sono norme e regole comuni, con istituzioni comuni che le decidono una Corte che ne controlla la legalità, o ci si blocca. Alla base della crisi di legittimità della UE non sta tanto l’invadenza della Commissione o l’eccessivo potere grigio di Bruxelles: stanno la mancanza di risultati positivi in campo economico e sociale, scarsità e cattivo uso di strumenti comuni, procedure che facilitano il blocco reciproco fra gli Stati più che favorire l’azione comune e una devastante ideologia allo stesso tempo rigorista nei confronti della spesa pubblica – non importa quale – e liberista nello spingere alla deregulation, in particolare in campo finanziario, sociale e ambientale. Se non supereremo questi quattro ostacoli allo stesso tempo, puntando su una radicale modifica delle politiche economiche e fiscali della UE e su riforme istituzionali volte a eliminare l’obbligo di unanimità e a riequilibrare i poteri del PE e della Commissione rispetto a quella dei governi, non ci sarà modo di venire fuori dallo stallo attuale. Insomma, l’illusione di una cooperazione ad hoc su questo o quel tema non terrà insieme l’Unione.
E poi come gestire il patrimonio comune di regole e spezzettarlo fra chi vuole mantenerlo e chi no? Andare verso l’Europa “à la carte” è accelerare la disgregazione della UE e tornare alla logica della Società delle Nazioni.
D’altra parte, una Kern-Europa fondata sulla dottrina dell’austerity non può certo essere alla base del rilancio della UE e dà segni di cedimento importanti anche nella sua patria, la Germania. È interessante notare come il discorso ideologico sul rigore di bilancio evolve in due modi: da un lato, in molti paesi si parla dell’“austerità per gli altri, ma non per noi” e si è sempre più insofferenti per gli interventi della Commissione come guardiana delle regole comuni. Il premier olandese, ad esempio, vuole rispondere alla sfida dell’estrema destra che ne insidia le posizioni nelle elezioni di marzo rifiutando ogni forma di solidarietà europea, ma rilanciando la spesa pubblica per gli olandesi. Dall’altro, come professato da Stefano Fassina nel suo articolo su Huffington Post e dalla sinistra nazionalista di Melenchon, si usano i fallimenti della politica del rigore per giustificare l’idea di uscire dall’euro, accusando la moneta di essere “intrinsecamente” liberista e dunque da archiviare; senza considerare minimamente che l’effetto di buttare giù l’euro sarà semplicemente quello di buttare giù l’UE, come Le Pen e Salvini sanno benissimo.
Inoltre, l’insistenza sui temi dei tagli e la presenza ingombrante dei rigoristi, rende ogni discussione sulle riforme molto complicata, anche quando invece varrebbe la pena di affrontarla. La recente polemica italiana sulla correzione dello 0,2% del bilancio è parte di una campagna anti-UE che è molto popolare, ma che non è del tutto giustificata (e lo dice una che aborre il Patto di stabilità), perché è un fatto che il governo Renzi-Padoan abbia buttato via svariati miliardi in mance e regali vari per vincere il referendum ed è normale che dati i risultati NULLI su crescita e debito ora la Commissione ci chieda il conto, austerity o no.
Il fatto è che a quasi dieci anni dall’inizio della crisi, all’UE non è stato permesso giocare il ruolo auspicato da Padoa-Schioppa quando diceva “il rigore agli Stati, la crescita all’Europa”, nel senso che se gli Stati hanno l’obbligo di risanare i conti, la UE deve accompagnare questo risanamento con politiche comuni espansive e capaci di spingere attività economiche di futuro, dalla green economy all’educazione, e di garantire la protezione delle fasce più deboli della popolazione; è folle rendere tali sforzi ancora più difficili, attraverso il taglio indiscriminato del bilancio della UE e l’applicazione dei criteri di Maastricht in modo “stupido”, per riprendere un’espressione di Prodi quando era presidente della Commissione.
Io preferisco parlare di Europa a due velocità. E a quanto pare lo pensava pure la Merkel nel 2012, quando diceva: “And most of all we need a political union – which means we need to gradually cede powers to Europe and give Europe control.”
La definizione delle “velocità” di integrazione non deve essere stabilita sulla base delle voglie passeggere dei governi o dei temi. Ma deve essere il frutto di un patto federativo, dello stesso valore di quello firmato a Roma nel 1957, ma più avanzato sulla strada della messa in comune della sovranità e delle strutture democratiche. Il gruppo di testa, tra i quali ci deve essere l’Italia, deve essere definito non sulla base di calcoli matematici, ma sulla volontà di proseguire sulla strada dell’unione politica: deve essere quello intenzionato a rilanciare un’Unione nella quale non ci sia più potere di veto di questo e di quello e dove, come negli USA, si è obbligati ad essere solidali. Nella quale se uno viola le libertà e le regole dello stato di diritto e uno qualsiasi dei nobili obiettivi definiti nell’art. 3 viene invitato a cambiare strada, attraverso regole precise e applicabili; e anche sanzioni, obbligatorie come quelle che si impongono per le ragioni sbagliate ai pensionati greci; un’UE che dispone di un bilancio serio, finanziato attraverso tasse comuni, per esempio una tassa sulle transazioni finanziare o una carbon tax e che non dipende da contributi nazionali negoziati attraverso penose trattative, finalizzate a dare il meno possibile e ad annunciare alle proprie opinioni pubbliche di aver ripreso due soldi; e che ha un Parlamento eletto almeno in parte sulla base di liste trans-europee, per non dipendere, come è spesso è oggi il caso, dagli umori dei partiti nazionali e dei governi. Un Parlamento per il quale potranno correre naturalmente anche Le Pen e Salvini, tutti uniti verso il baratro, dove speriamo di farli presto cadere.
Siamo chiari: l’Unione politica non è la panacea di tutti i mali. È lo spazio comune per fare politica e per esercitare una vera sovranità, capace di rispondere alle minacce di Isis, Putin o Trump, di organizzare l’integrazione e l’assistenza di chi ha diritto a richiederla, di battere i cambiamenti climatici. Ma se le forze progressiste, ecologiste, libertarie, non convincono quella metà del corpo elettorale che se ne sta di solito a casa invece di andare a votare alle elezioni europee, saremo sempre nelle mani di Juncker e Tusk, Merkel e Rajoy. Perché checché se ne dica, anche in Europa vige la regolina facile facile delle maggioranze politiche. Anche se ci fosse un’UE veloce, unita, governata da istituzioni espressione del popolo, potrebbe continuare a fare stupidate.
Insomma, l’UE è un progetto da riconquistare. Contrariamente all’amico Fassina, io non mi ritengo già sconfitta. Considero molto più fattibile e possibile conquistare l’Unione politicamente che disfarla sulla base di un atto rivoluzionario e di una catarsi rifondatrice, che favorirebbe solo le forze xenofobe e nazionaliste e rafforzerebbe l’illusione che sia possibile riappropriarsi della sovranità perduta da parte di staterelli insignificanti per taglia e impatto economico. No.
Come diceva Altiero Spinelli, “La malattia che porta al totalitarismo non è mai di quelle malattie che si chiamano incurabili, contro le quali l’organismo colpito non può nulla. È una malattia di cui muore l’organismo che vuole veramente morire, e che rinunzia perciò a difendersi”.