Per ricostruire un insediamento sociale, identità collettive – alternative a quelle illusorie offerte da M5S e Lega agli elettori in fuga dalla sinistra – e una rappresentanza politica dei ‘perdenti’: quel 90% di italiani che sta peggio di 20 fa.
Il mio articolo “Le macerie della sinistra”, del 22 marzo scorso sull’Huffington Post e su www.sbilanciamoci.info ha provocato critiche, richieste di chiarimenti e domande su come andare avanti. Le proposte su come continuare sono già nelle conclusioni di quell’articolo: rinnovare la cultura politica, lavorare nella società, praticare la politica dal basso, continuare nella “lunga marcia nelle istituzioni”. Sì, ma in pratica che potremmo fare?
“LeU politicamente finita, a meno di innovazioni radicali”. Viene chiesto: ma quali sono, quali dovrebbero essere? Bisogna cambiare campo di gioco, obiettivi della partita e pratiche sul terreno. Il gioco dev’essere radicalmente diverso dalle dinamiche politiciste, autoreferenziali e conservatrici di questi mesi. Gli obiettivi devono essere quelli di ricostruire un insediamento sociale, identità collettive – alternative a quelle illusorie offerte da M5S e Lega agli elettori in fuga dalla sinistra – e una rappresentanza politica dei ‘perdenti’: quel 90% di italiani che stanno peggio di vent’anni fa. L’obiettivo è ricostruire un blocco sociale post-liberista e post-populista che riprenda la via della democrazia e di una politica del cambiamento. Le pratiche devono ridare voce e protagonismo alle persone, devono aprire una nuova grande partecipazione diretta – non quella fasulla sulle piattaforme digitali –, organizzare conflitti che esprimano i valori, gli interessi sociali e i bisogni concreti di chi sta peggio. Un tuffo nella società, nella vita concreta delle persone, nella ricostruzione di una politica dal basso. È una svolta urgente: presto gli effetti dell’instabilità politica, i colpi di una nuova stretta economica, la delusione per le promesse mancate di Cinque stelle e Lega potrebbero aggravare il disagio materiale, la disgregazione sociale e la deriva autoritaria della politica.
E’ un lavoro di lungo periodo, e ci serve una discussione collettiva di ampio respiro su come realizzarlo. Ma già oggi le scelte sul terreno della politica e delle iniziative delle forze in campo devono essere funzionali a quell’orizzonte di impegno. Vediamo cinque cose che quello che resta di LeU e altre forze della sinistra – in parlamento e fuori – potrebbero fare subito per avviare questo cambiamento.
Primo. La politica. Serve una carta d’identità della sinistra, una proposta di cambiamento vero dopo trent’anni di neoliberismo, un “programma minimo” – come quelli dei socialisti di un secolo fa – di cinque proposte radicali e di mobilitazione politica: rovesciare le disuguaglianze, creare lavoro stabile, rilanciare il welfare, prevenire il cambiamento climatico, assicurare pace e disarmo. Bisogna archiviare il programma elettorale ambiguo e contraddittorio con cui LeU si è presentata alle elezioni all’insegna del: “ci vorrebbe un po’ più di lavoro, di giustizia, di diritti” e “ci vorrebbe un po’ meno precarietà”. Si devono dimenticare le mediazioni del passato in un centro-sinistra che è morto non nel 2018, ma nel 2013. Non si possono inseguire spazi in un “governo del presidente” che potrebbe emergere dall’instabilità politica attuale.
Secondo. L’Europa. Tra un anno ci sono le elezioni europee e saranno una nuova messinscena dello scontro illusorio tra tecnocrazia europea e populismo nazionalista. Quello che manca è una discussione politica sull’Europa, e lo si vede anche nel fatto che tutte le ‘famiglie’ politiche europee sono a pezzi. I Cinque stelle potrebbero trovarsi insieme ai renziani nel gruppo di Macron. I Socialisti europei sono decimati dalle sconfitte in Francia, Germania, Grecia, Spagna, Italia e non riescono a liberarsi di figure come il socialista olandese e questurino dell’austerità Jeroen Dijsselbloem. A sinistra il GUE è paralizzato dallo scontro interno tra chi vuole cambiare l’Europa e l’euro e chi vuole uscirne. L’unica novità è la proposta di una lista transnazionale avanzata da Yanis Varoufakis e dal suo gruppo Diem25 per cambiare l’Europa antidemocratica e neoliberista, ma c’è molto lavoro da fare per trasformare un’operazione mediatica di vertice in una vera forza politica europea. Forse ci potremmo provare.
Terzo. Il partito. Si vuole costruire un partito di sinistra? Si cambi registro. Le forze politiche (o quello che ne è rimasto) invece di continuare a bearsi della propria autosufficienza sempre più inesistente siano il lievito di qualcosa di rdicalmente nuovo: facciano un passo di lato e si mettano a disposizione per favorire una costituente dal basso, estesa, inclusiva, con un gruppo dirigente e regole del tutto nuove, il 50% dei componenti siano persone senza partito, esponenti dei movimenti, delle realtà locali, delle associazioni, sia assicurata la parità di genere, siano aperte le porte agli immigrati e alle seconde generazioni. Lo stesso avvenga nella scrittura del programma e poi nelle candidature alle prossime elezioni.
Bisogna rivoluzionare le sedi, le procedure, le forme dell’organizzazione e della decisione politica. I gruppi sclerotizzati si sciolgano in un lavoro comune. Un partito davvero ‘nuovo’ deve cambiare radicalmente il modo di selezionare i gruppi dirigenti, di prendere decisioni, di spendere i soldi, di comunicare, di coinvolgere e ascoltare sostenitori e elettori. È necessario prevedere l’incompatibilità tra cariche di partito, parlamentari e istituzionali, sperimentare – perché no – il sorteggio per alcune cariche, scardinare i meccanismi consociativi e spartitori della scelta “dall’alto”, prevedere obbligatoriamente referendum tra gli iscrittti per le scelte “cruciali” su elezioni, programmi e alleanze.
Quarto. La società civile, i movimenti. La questione dovrebbe essere semplice: si fa politica in tanti modi, nei partiti, nel sindacato, nei movimenti, nella società civile. Ma negli ultimi anni si è allargata la distanza tra mobilitazioni sociali più deboli e una politica più distante. È importante riaprire spazi di conflitto, organizzare mobilitazioni e scendere sul terreno della politica. Non solo con pressioni ‘dall’esterno’ ma con una partecipazione ‘dall’interno’. Reti sociali, strutture sindacali, esperienze dal basso devono avere spazio a pieno titolo nell’azione politica – e nel ‘partito’ se lo si vuole costruire davvero – con un riconoscimento della politicità del loro ruolo. E, a loro volta, queste realtà sociali devono contribuire a costruire identità politica e consenso elettorale: senza questo doppio impegno non si ferma la deriva che abbiamo subìto il 4 marzo. Il problema non è cooptare qualche persona delle associazioni nelle liste elettorali, ma riconoscere la pari dignità delle diverse forme della politica. Si tratta di praticare l’articolo 49 della Costituzione: si concorre a determinare la volontà generale non solo con i partiti, ma anche con gli altri soggetti della politica.
Quinto. La leadership. Pietro Grasso è stato un magistrato straordinario, un riferimento essenziale nella lotta alla mafia e un buon presidente del Senato. Ma non si può essere bravi in tutto. Oggi abbiamo bisogno di uno scarto, di voltare pagina. Vediamo se ci sarannonuove disponibilità, se emergeranno nuove figure capaci di guidare il processo. Ma intanto si chiuda questa fase, si prenda atto dall’inadeguatezza delle leadership di questi mesi e la si smetta con i “caminetti” (non ci sono solo nel Pd). Un piccolo gruppo di persone nuove potrebbe amministrare – da qui alle elezioni europee – questa fase costituente con collegialità e trasparenza.
Su queste cinque cose, aspettiamo risposte.