Una riflessione sulle vecchie e sulle nuove alienazioni, sulle vecchie e sulle nuove fabbriche di alienazione nel libro di Lelio Demichelis: “La grande alienazione. Narciso, Pigmalione, Prometeo e il tecno-capitalismo”, fresco di stampa.
Il 13 settembre è uscito il nuovo libro di Lelio Demichelis: La grande alienazione. Narciso, Pigmalione, Prometeo e il tecno-capitalismo (Jaca Book). Una riflessione sulle vecchie e sulle nuove alienazioni, sulle vecchie e sulle nuove fabbriche di alienazione (la rete/piattaforme/social, lo spettacolare integrato, l’industria culturale 2.0, ecc.). La tecnica e il neoliberalismo offrono una affascinante illusione di individualità, libertà e creatività e se tutti si credono imprenditori di se stessi nessuno si sente/percepisce come alienato. In realtà l’alienazione non è scomparsa, anzi, ma è ben mascherata dal sistema stesso che la produce. Scopo del volume è quello di provare a togliere la maschera al sistema e svelare le molte forme di alienazione oggi esistenti: molte alienazioni che vanno appunto a comporre la grande alienazione.
Di seguito, alcuni estratti dall’Introduzione.
Il nuovo avanza a grandi passi, inarrestabile, magnifico, democratico, libertario, individualista, postcapitalista, moltitudinario, soprattutto tecnologico. Questo dicono le retoriche – lo storytelling, la propaganda, il determinismo tecnico e neoliberale – di questi ultimi trent’anni. In verità i processi tecnologici e capitalistici in corso producono effetti totalmente opposti rispetto alle promesse, allo storytelling e alla propaganda.
Ma è sbagliato credere – per le macerie sociali, culturali, antropologiche e politiche (compreso il populismo) che tecnica e neoliberalismo lasciano dietro di sé – che ciò che abbiamo definito come tecno-capitalismo (2015) sia in crisi o al tramonto. Continua infatti a produrre egemonia e dominio per sé, contro la società, l’individuo e l’ambiente. Ma il tutto è ben mascherato dal sistema stesso, posto che nessuno si ribella, nessuno cerca alternative – e anche il populismo è una merce politica funzionale al tecno-capitalismo – e tutti si adattano alle dinamiche del sistema e alle molte e apparentemente diverse forme di alienazione che il tecno-capitalismo produce. Ma che appunto abilmente maschera per sostenere e promuovere la propria infinita ri-producibilità.
Alienazioni che verranno analizzate in queste pagine grazie alle riflessioni di Michel Foucault e rileggendo e aggiornando la Teoria critica francofortese, ritornando nuovamente sui modi con cui il tecno-capitalismo ha costruito la propria egemonia e il proprio dominio.
Nessuna tecnofobia; ma un doveroso e necessario pensiero critico applicato al capitalismo e soprattutto alla tecnica. Perché in verità avremmo (abbiamo) un disperato bisogno di fare innovazione etica, sociale, ambientale e politica; di recuperare la capacità e le possibilità umane di immaginare altro dal tecno-capitalismo. E invece siamo chiusi in una gabbia d’acciaio di weberiana memoria, oggi divenuta virtuale ma concretissima nei suoi effetti antropologici. O, altrimenti, rinchiusi in una caverna platonica dove le ombre sulla parete sono la realtà virtuale (tecnologica e capitalistica) che il sistema crea per gli uomini. Che ha fatto perdere agli stessi uomini il rapporto con la realtà naturale, con il concetto di limite, con se stessi, con una idea di insorgenza o almeno di resistenza rispetto al potere tecno-capitalista.
Una gabbia/caverna che impedisce ogni progettualità di-versa da quella che impone di assecondare invece un determinismo tecnologico e un sincretismo/animismo uomo-tecnica per il quale solo l’innovazione tecnica ha valore e produce risultati – e tutti devono quindi essere innovativi in termini di tecnica e tecnologia e nessuno deve esserlo in termini politici e sociali, etici e di responsabilità ambientale e sociale. (…) Siamo confinati e limitati – individualmente e collettivamente – in un nuovo (e in un nuovismo tecno-entusiasta, a prescindere) che produce un discorso/immaginario collettivo ormai ricorsivo e tautologico: efficace perché retorico e autoreferenziale, accattivante e motivante perché individualizzante e attivante nel profondo la psiche umana. È la nuova grande narrazione, più potente di tutte quelle del passato – o il dispositivo tecno-capitalista per portare l’uomo felicemente verso l’asservimento totalitario alla tecnica e verso il post-umano. Il massimo di (apparente) libertà e creatività individuale, per il massimo di (concretissima) alienazione/reificazione e mercificazione dell’individuo: è l’esproprio tecno-capitalistico della vita dell’uomo, delle sue emozioni, relazioni, socialità, responsabilità, progettualità. (…)
Parole come new, smart, sharing, like, social, start-up sono ormai costitutive di una neo-lingua che avevamo definito come Lingua Internet Imperii necessaria a legittimare – ne produce la pedagogia sociale e i meccanismi di veridizione, per dirla con Foucault – l’imper(i)o della tecnica e del capitalismo neoliberale (Demichelis, 2015: 52 ss.) e a creare e a far accettare una totale dipendenza di ciascuno dalla tecnica e la sua delega totale alla tecnica e al discorso/immaginario collettivo che essa produce (così come gli abitanti di Siviglia avevano delegato se stessi all’Inquisitore). Delega alla tecnica che nasce da una tecnofilia antica e necessaria all’uomo per sopravvivere (ieri), ma oggi divenuta tecnopatia. Nel trionfo non dell’Antropocene (la nuova era in cui sarebbe l’uomo la forza che determina l’ambiente), ma del Tecnocene, dove è cioè la tecnica a produrre l’ambiente in cui l’uomo viene portato sempre più a vivere integrato e connesso, illudendolo di essere un libero soggetto e non un oggetto ingegnerizzato da tecnica e neoliberalismo. E a delegare appunto alla tecnica (Ippolita, 2013) ogni suo pensiero, comportamento, decisione e azione (è l’internet-centrismo secondo Evgeny Morozov; è il totalitarismo cibernetico secondo Paolo Zellini). La delega essendo la forma massima di (auto)alienazione dell’uomo (…).
Molte alienazioni, in verità: da sé dell’uomo, dal suo ambiente sociale e naturale, dalla capacità di comprendere il meccanismo organizzativo tecno-capitalista in cui è stato inserito prima a forza (prima e seconda rivoluzione industriale) e poi in modalità soft/biopolitica; e alienazione dallo spazio e dal tempo, dall’immaginazione, dalla sovranità e dalla democrazia e dalla conoscenza, ormai trasformata in mera competenza e in un imparare facendo senza più progettualità e senza senso, senza razionalità e senza responsabilità verso il futuro. Perché alienati – nel senso di Marx, ma non solo – sono i lavoratori di Uber e quelli uberizzati nel capitalismo delle piattaforme, gli amici che vivono su Facebook e sui social, chi si è fatto attore-comparsa nell’industria culturale dello spettacolare pulsionale integrato, i cittadini non-più-cittadini perché desovranizzati da tecnica e neoliberalismo, l’uomo portato a vivere in uno stato di mobilitazione incessante e totale di se stesso in nome dell’innovazione tecnica e della competizione di mercato, seguendo un leader e/o vivendo in uno sciame-rete. (…).
E allora, non di prima, seconda, terza e oggi quarta rivoluzione industriale bisogna ragionare – la rivoluzione industriale è unica, sempre replicandosi il suo doppio movimento [prima suddividere e poi integrare/totalizzare le parti prima separate: dalla fabbrica degli spilli di Smith alla catena di montaggio alla rete come fabbrica il meccanismo è identico] – ma di fasi successive/accrescitive del tecno-capitalismo (…). Ieri (prima fase), il tecno-capitalismo si era basato essenzialmente sulla produzione (le prime manifatture, ma soprattutto il fordismo e il taylorismo – la sua fase disciplinare, per creare l’uomo nuovo di cui necessitava e la cui identità era appunto legata al produrre). Esso ha poi spostato (seconda fase) il suo baricentro e la potenza della sua volontà di potenza al consumo di massa e poi al consumismo (…). Infine, oggi esso si ri-costituisce come potenza del mondo e come volontà di potenza sul mondo (terza fase della biopolitica tecno-capitalista), nel passaggio alla socializzazione non solo della competizione ma dell’innovazione tecnica.
Simile a Calibano – riprendendo un Lewis Mumford degli anni ’50 (In nome della ragione, 2016: 100) – «questo bruto strisciante, questa sciocca creatura incapace di esprimersi in un linguaggio articolato, questo animale ringhioso, come Shakespeare lo descrive nella Tempesta». Che le società precedenti – essendo Calibano la rappresentazione delle facoltà inferiori dell’uomo – avevano cercato di domare facendolo prigioniero e gettandolo in carcere, ma che le società contemporanee hanno invece liberato, perché utile alla volontà di potenza del tecno-capitalismo. E ora Calibano «si rifiuta di riconoscere qualsiasi potere superiore al suo: in realtà, superiore e inferiore sono termini senza significato per lui, come pure buono e cattivo, creatore e distruttore; ma nella misura in cui il suo comportamento presuppone una differenza, egli sta dalla parte del distruttore. Di conseguenza, il problema della nostra epoca (…) è di riportare ancora una volta Calibano sotto il controllo di Prospero», che è, invece, l’incarnazione delle facoltà superiori dell’uomo. Sua è l’intelligenza che sa prevedere e distinguere, vigilando contro i ciechi istinti e l’automatismo assurdo. (…)
Lelio Demichelis: La grande alienazione. Narciso, Pigmalione, Prometeo e il tecno-capitalismo (Jaca Book, Collana Dissidenze, pag. 283, € 25)