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Usa, per il 90% reddito fermo da 40 anni

Il successo di candidati outsider rispetto ai partiti tradizionali, come Trump e Sanders, esprime la richiesta di cambiare la politica dominante fin dagli anni ’80 che ha esasperato le disuguaglianze

Secondo gli ultimi sondaggi Donald Trump avrebbe superato Hillary Clinton nelle intenzioni di voto. Non di molto, ma fino a poco tempo fa il distacco era di 10-13 punti a vantaggio della seconda, e quindi il clamoroso recupero mostra una tendenza molto preoccupante per il Partito democratico.

Sorprendente? Veramente no. Ciò che sta accadendo negli Usa non è poi molto diverso da quello che si vede in Europa. Il Vecchio continente si è messo ad imitare l’America nell’evoluzione dell’organizzazione sociale: più competizione, meno protezioni ai lavoratori, meno welfare e quello che c’è sempre più affidato ai privati, come i servizi pubblici; aumento della disuguaglianza. Difficile stupirsi se poi gli esiti politici si assomiglino.

Le classi dirigenti al di qua e al di là dell’Atlantico perseguono politiche uguali, quelle dettate dal neoliberismo. In America sono iniziate con Ronald Reagan negli anni ’80, e quello che è successo si può vedere in questi grafici tratti dalla Strategic Analysis di marzo del Levy Institute.

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Il primo mostra gli indici dei redditi delle famiglie in termini reali dal 1945 al 2014 per il 10% più ricco e il restante 90%. Come si vede, fino agli anni ’80 i due indici praticamente si sovrappongono, ma da quel periodo in poi i più ricchi diventano più ricchi, mentre gli altri nove decimi vedono i loro redditi fermarsi, e oggi sono al livello dei primi anni ’70: per loro, cioè per la stragrande maggioranza della popolazione, quasi mezzo secolo perduto. E come mai hanno aspettato mezzo secolo prima di arrabbiarsi? Lo dice l’altro grafico: hanno fatto sempre più debiti, favoriti da politiche dei governi che facilitavano questo comportamento. Poi, però, con la crisi del 2008 è arrivata la resa dei conti: molte banche sono saltate, il credito facile è finito. E quel 90% si è trovato non solo con i redditi di cinquant’anni prima, ma anche a dover restituire i prestiti, come si vede dalla curva che scende vertiginosamente. Ecco, che si siano arrabbiati non sembra poi tanto strano.

In Europa quelle politiche sono iniziate nello stesso periodo, prima con Margaret Thatcher (e infatti oggi le classifiche della disuguaglianza vedono in testa il Regno Unito), poi negli altri paesi con un certo ritardo. In Italia dopo la crisi del ’92 (inizio delle riforme delle pensioni, privatizzazioni massicce, poi nel ’97 con il “pacchetto Treu” la prima potente iniezione di “flessibilità” del lavoro); in Germania con le riforme Hartz dell’inizio del secolo. Dopo lo scoppio della crisi queste politiche si sono intensificate in tutta l’Unione.

I partiti socialdemocratici si sono tutti avviati sulla “terza via” di Tony Blair, che non era affatto la terza ma semplicemente la prima:

il capitalismo che voleva riprendersi le riforme che nel dopoguerra avevano costruito il “modello sociale europeo”, ossia una società meno competitiva al suo interno di quella americana, una protezione sociale più estesa, disuguaglianze meno stridenti. Con la crisi e il dominio dell’ordoliberismo tedesco trasferito nelle regole dell’Unione, per le parti meno abbienti della società la vita si è fatta dura. Lo sbocco politico non potevano essere più i partiti che una volta erano di sinistra, perché non promettevano – e non promettono – una politica diversa. E infatti tutti i partiti (ex) socialdemocratici stanno crollando, mentre emergono soggetti nuovi: M5S in Italia, Syriza in Grecia, Podemos e Ciudadanos in Spagna, il Front National in Francia, l’Ukip e i nazionalisti scozzesi nel Regno Unito e via dicendo in Ungheria, Polonia, Irlanda, Austria. Più a destra o più a sinistra, oppure qualcosaltro, ma comunque alternativi ai partiti che hanno governato finora, le cui “grandi coalizioni” hanno sempre meno margine e denunciano il fatto che la politica che perseguono è una sola.

Ma torniamo all’America. Gli americani arrabbiati sono tanti, e, come si è detto, con più di una ragione. Trump è un outsider, un modo di protestare contro i “soliti” politici. Così ad Hillary non basta il cognome del marito, sotto la cui presidenza l’economia andava a mille (a debito, ma allora nessuno ci faceva caso) e che aveva fatto molto per l’integrazione dei neri, che infatti in queste primarie si sono espressi in gran maggioranza per quel cognome, nonostante le foto di un giovane Bernie Sanders arrestato a una marcia per i diritti civili e da sempre ammiratore di Martin Luther King. Ma anche Sanders è un outsider, nonostante che faccia politica da sempre. Lo è perché è sempre stato un politico “contro”, anche contro il suo partito di riferimento, il Democratico (al quale peraltro non si è mai iscritto). E lo è perché dice cose “diverse” (è appena uscito da Castelvecchi un libro con le traduzioni dei discorsi di Sanders, a cura di Rosa Fioravante).

E così il “vecchio” Sanders ha conquistato i giovani, tanti di quelli che non andavano a votare perché lo ritenevano inutile. Una cosa simile si era già vista con il Labour inglese e il poco più giovane Jeremy Corbyn. Due leader che hanno rispolverato quelle che qui in Italia sono state definite “idee del secolo scorso”, e che però sembra che qualche presa ce l’abbiano ancora. Nessuno si sarebbe aspettato che Sanders potesse insidiare Clinton per la candidatura presidenziale.

Naturalmente l’establishment democratico non lo vuole. E però il sorpasso di Trump su Clinton apre uno scenario nuovo, anche perché gli stessi sondaggi dicono che a livello nazionale uno scontro diretto Trump-Sanders sarebbe vinto da quest’ultimo, addirittura con una decina di punti percentuali di margine. A questo punto le prossime primarie della California diventano più che importanti, quasi decisive. Se Sanders dovesse vincere (o persino pareggiare) la candidatura di Hillary diventerebbe assai più incerta. Il vantaggio della signora Clinton in termini di delegati già conquistati è tale anche perché i “superdelegati”, cioè i notabili del partito (ben 712), finora si sono espressi quasi tutti per lei. Ma quelli non sono voti sicuri, possono cambiare schieramento anche all’ultimo momento. Come si comporteranno se, con poca differenza nel numero di delegati conquistati alle primarie, i sondaggi continueranno a dire che l’esito di uno scontro Trump-Clinton è quantomeno a rischio, mentre in quello Trump-Sanders il secondo continua a prevalere largamente?

Finora sono solo “se” e le probabilità sono ancora a favore di Hillary. Il 7 giugno si vota in California.

(pubblicato su Repubblica.it il 26 mag 2016)