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Le acque molto agitate intorno al Def

La manovra si iscrive in un panorama economico complesso, dalla guerra valutaria, ai dazi, dai vincoli europei e dalla Brexit alla possibile incapacità della Ue di far fronte a una possibile nuova bolla finanziaria. E non è ancora chiaro quante siano le risorse disponibili.

La nota di aggiornamento del DEF (Documento Economico e Finanziaria) del 27 settembre cade in un periodo economico estremamente incerto. I più importanti istituti economici e finanziari internazionali e nazionali (FMI, Commissione Europea, ISTAT, S&P, OCSE) stimano per il 2019 una crescita economica inferiore alle proiezioni di inizio anno: le stime passano dall’1,6-1,5% all’1,1% per il 2018, dall’1,4% all’1% per il 2019.

Inoltre, cominciano ad affacciarsi le prime avvisaglie di una bolla finanziaria che, con la minore crescita del PIL mondiale, potrebbe innescare un effetto moltiplicatore ben più grave del 2008 (Morya Longo, agosto 2018, il sole 24 ore).

In effetti, la guerra valutaria, i dazi, i vincoli europei e la Brexit, sono fenomeni sociali ed economici che amplificano le difficoltà dei singoli Paesi, i quali sarebbero indifesi se dovesse esplodere una nuova crisi. Inoltre, sebbene molti consiglieri economici dei paesi più importanti ritengano imminente una crisi, una parte di essi pensa che non vi sia nulla da fare.

Isabel Schnabel, consigliera economica del governo tedesco, sostiene che l’Eurozona deve prepararsi a gestire la prossima crisi senza poter contare sulla Bce, che potrebbe avere le armi spuntate (il sole 24 ore del 28 settembre). In aggiunta, sempre secondo la consigliera del gabinetto tedesco, le banche detengono troppi titoli di Stato e dovrebbero diversificare il loro portafoglio. La narrazione è quella dello stolto che cerca le chiavi di casa sotto il lampione illuminato sebbene non sappia se le chiavi siano state perse in quel posto: “Se dovesse scoppiare una crisi in un Paese, il rischio di default si concentrerebbe nel sistema bancario di quel Paese e poi ci sarebbe un effetto domino sulle altre banche e Stati europei”. Sfugge che, a quel punto, non ci sarebbe né l’Europa, né l’euro. Inoltre, gli effetti finanziari europei e mondiali comprometterebbero anche la Germania che non avrebbe più mercati di sbocco per le sue merci, senza contare la guerra valutaria e dei dazi statunitense che si farebbe ancora più aggressiva.

Le prospettive economiche sono, quindi, fragili per molti Paesi e soprattutto europei che hanno sperimentato la così detta austerità espansiva che ha compromesso e ridotto il potenziale di crescita e di occupazione come e quanto una guerra; la crisi del 2007 è stata più lunga e profonda di quella del ventinove, almeno per l’Italia.

Se lo scenario economico e finanziario è incerto, rimanere all’interno dei vincoli strutturali imposti dal Fiscal Compact è una camicia di forza che è meglio rimuovere al fine di mettere del fieno in cascina prima che la tempesta esploda. La Francia ha già annunciato un deficit al 2,8%, l’Italia al 2,4%, e altri Paesi europei sembrano andare nella stessa direzione.

Inoltre, la fine del mandato della Commissione e l’esito elettorale di molti Paesi, proiettato in Europa, delineano uno scenario inedito e ancora tutto da decifrare. Sotto traccia, le misure economiche e di bilancio di molti Paesi europei suggeriscono che è giunto il momento di interpretare i Trattati i europei in modo da evitare e scongiurare un altro 2011. Inoltre, la procedura d’infrazione scatterebbe a metà del prossimo anno, ma i nuovi assetti politici europei e la nuova Commissione con difficoltà potrebbe combinare le sanzioni.

Rimane il tema della politica economica. Sebbene in troppi si ostinano a sostenere la necessità di un maggior intervento pubblico anche in deficit, con buone ragioni, le politiche in deficit adottate dai Paesi e non da ultimo dall’attuale governo italiano, sono neo-reaganiane e non certamente keynesiane.

In altri termini, il deficit è utile nella misura in cui è coerente con una politica economica che governa i processi di trasformazione del capitale e riequilibri le coppie capitale-lavoro, capitale-Stato e lavoro-Stato; diversamente sarebbe solo un’ulteriore declinazione delle politiche liberiste, condite con un po’ di apparente umanità. Restando all’Italia, sebbene il reddito di cittadinanza ai più suoni come una misura di buon senso, la flat tax dei redditi da capitale si amplia sfuggendo più o meno integralmente dall’imposta sui redditi, mentre la flat tax legata all’Irpef assegnerebbe ai redditi più alti un vantaggio che si cumula a quello dei redditi da capitale.

Quanto è grande la manovra economica? Circolano molti numeri, ma sottraendo dal deficit del governo per il 2019 (2,4%) le previsioni della Commissione (1,7%), le risorse finanziarie disponibili sarebbero pari alla differenza tra 2,4 meno 1,7, ovvero 13,6 mld di euro. Se invece delle previsioni della Commissione usassimo il quadro programmatico del DEF (0,8%), le risorse disponibili sarebbero 27,2 mld di euro. Vera la prima ipotesi o vera la seconda ipotesi? La prima sembra più credibile, ma renderebbe le misure da adottare più stringenti e meno programmabili. In altri termini la flessibilità del governo in carica sarebbe gestibile con l’Unione Europea perché devia dallo scenario previsto, ma non auspicato, per un valore abbastanza modesto.