Top menu

L’asse del mondo si va spostando in silenzio

L’asse economico, politico, tecnologico, del globo si va spostando verso Oriente: negli ultimi anni sono i paesi emergenti a contribuire per circa i tre quarti alla crescita globale e così per i consumi.

Un cambiamento d’epoca 

Viviamo in un’epoca che registra almeno tre grandissime trasformazioni: la prima riguarda la crisi ambientale, che potrebbe portare alla stessa fine dell’umanità, la seconda le grandi conseguenze sulla economia, la società, la politica, la stessa condizione umana, portate dalle innovazioni tecnologiche, in particolare da quella digitale e da quella biologica, nonché dalle loro interazioni, la terza, infine, il quasi repentino spostamento in atto degli equilibri di potere tra le grandi regioni del globo. I tre eventi sono poi in qualche modo anche tra loro, almeno in parte, collegati.

Tra l’altro, vista la portata di tali mutamenti, a nostro parere qualsiasi discorso politico di una qualche ampiezza che non parta oggi dalla presa in carico adeguata di tale realtà  è per necessità largamente monco.

Per quanto riguarda l’ultima questione tra le tre sopra citate, bisogna sottolineare che dopo che l’Occidente è stato alla guida della storia mondiale per un paio di secoli e più, ora apparentemente l’asse economico, politico, tecnologico, del globo si va spostando  verso Oriente, tornando, per altri versi, alla posizione sostanzialmente “naturale” che esso aveva mantenuto  per alcuni millenni. 

Ma, a questo punto, siamo di fronte ad un paradosso: chi cercasse informazioni sul grandioso fenomeno in atto oggi nel mondo scoprirebbe come sui media occidentali il silenzio sia a questo proposito quasi totale, interrotto soltanto da qualche casuale e confuso flash. L’ordine è apparentemente quello di tacere il più possibile.

Alcune cifre

Eppure le informazioni sulla questione pubblicate dai centri di analisi più noti non mancano. 

Così il Fondo monetario internazionale certifica che, utilizzando almeno il criterio della parità dei poteri di acquisto, nel 2018 il Pil dei Paesi emergenti si colloca intorno al 60% di quello totale, dopo aver superato quello dei Paesi occidentali già da diversi anni; sempre  nel 2018, il Pil cinese era pari a 25,3 trilioni di dollari  e quello statunitense a 20,4 trilioni (il sorpasso è avvenuto nel 2014). Al terzo posto di questa classifica troviamo ormai l’India, con circa 10,4 trilioni. Le previsioni  per il 2019 sono rispettivamente  di 27,4, di 21,5 e di 11,4 trilioni.

Intanto i Paesi del cosiddetto G-7, considerati a suo tempo come quelli più ricchi del mondo, già nel 2015 pesavano soltanto per il 31,5% del Pil mondiale, mentre i primi sette Paesi emergenti avevano il 36,3% del totale.  

Ricordiamo, infine, come negli ultimi anni gli stessi paesi emergenti contribuiscano ormai per circa i tre quarti alla crescita globale e che, inoltre, dei circa 30 trilioni di dollari di incremento dei consumi previsti per il periodo 2015-2030 un solo trilione dovrebbe venire dai Paesi occidentali (Khanna, 2019; si veda più avanti), anche se tale previsione può forse apparire troppo pessimistica.

Certo, non bastano i dati economici per certificare un cambiamento d’epoca, ma da una parte essi ne sono una parte fondamentale, dall’altra i segni percepibili anche su altri fronti, come quello tecnologico, appaiono coerenti. 

La Cina sta, in particolare, colmando rapidamente il suo ritardo tecnologico con l’Occidente e in un numero crescente di settori si sta ponendo anche all’avanguardia. Il numero dei laureati ed in particolare  di quelli scientifici prodotti ogni anno dalle università cinesi è ormai largamente superiore a quello statunitense e così per quanto riguarda il numero degli articoli scientifici pubblicati nelle riviste qualificate e per quello della domanda di brevetti depositati negli appositi uffici internazionali.

Un mutamento profondo si sta certamente svolgendo sotto i nostri occhi distratti, anche se non va peraltro mai dimenticato che la Storia ha a volte delle giravolte improvvise.

Per altro verso, bisogna ricordare che tale processo non è esente da problemi e contraddizioni, ma questo sarebbe un altro discorso.

Il dibattito sulle tendenze in atto

-premessa

Si è aperto da qualche tempo un dibattito abbastanza ampio tra gli studiosi sulle prospettive geopolitiche del mondo alla luce delle nuove tendenze sopra ricordate. 

Esso aveva avuto in qualche modo dei precursori nei decenni scorsi, con gli studi di alcuni autori peraltro relativamente isolati. Ricordiamo da questo punto di vista, ad esempio, Paul Kennedy con il suo testo The rise and fall of the great powers, la cui prima edizione è del 1987 e di cui conosciamo un’edizione italiana del 1999;  si tratta peraltro di un testo di analisi di tipo generale, che sottolinea come ad un certo punto i Paesi egemoni per qualche ragione entrano in crisi e lasciano il posto a qualcun altro. Più in specifico, in relazione a quanto sta ora avvenendo, si può poi fare riferimento ad un volume “profetico” di Martin Jacques, China rules the world, la cui prima edizione è del 2009 e che prefigura la tendenziale preminenza economica della Cina sugli altri Paesi.

Ma negli ultimi anni i testi sui mutamenti  in atto si vanno moltiplicando ed essi possono essere classificati, con alcune forzature, in due categorie, quelli che partono da una presa d’atto della situazione e quelli che in qualche modo tentano di esorcizzarla. 

-la prima categoria 

Alla prima categoria fanno riferimento soprattutto studiosi di origine dei Paesi orientali, anche se vivono e lavorano in Occidente, nonché anche studiosi occidentali che hanno però fatto dei soggiorni piuttosto prolungati in Oriente. 

Si potrebbero citare, a questo proposito, tra gli altri, quattro volumi, di diverse dimensioni e consistenza scientifica: 1) Gideon Rachman, Easternisation: war and peace in the asian century, Bodley Head, Londra, 2016; 2) Parag Khanna, The future is asian, Simon & Schuster, New York, 2019; 3) Bruno Macaes, The Dawn of Eurasia, Allen Lane, Londra, 2018; 4) Kishore Mahbubani, Has the West lost it?, Allen Lane, Londra, 2018.  

Questi libri, come altri che non citiamo, considerano sostanzialmente scontata la grande e progressiva perdita di potere e di influenza da parte dell’area  occidentale del mondo; essi  si interrogano dunque,  in particolare, non tanto se nel complesso il mondo emergente supererà sul piano, economico, politico, militare, quello occidentale, ma come si configurerà in concreto il mondo nuovo, con degli inediti padroni, nei prossimi decenni. 

C’è chi, a questo proposito, ipotizza una generica prevalenza dell’Oriente, chi in specifico pensa ad un dominio dell’Asia, chi, pur in tale quadro di preminenza asiatica, introduce la variante di un’Europa incorporata nella sostanza nell’altro più vasto continente, chi scommette invece soprattutto, infine, su di un’egemonia cinese. 

Chi scrive è convinto che la Cina acquisirà e di gran lunga lo stato di prima potenza economica e anche il primato tecnologico del globo, ma che su un piano politico più generale si arriverà in realtà ad una forte prevalenza del mondo asiatico nel suo complesso sul resto del mondo (già oggi il continente ospita circa 5 miliardi di abitanti), mentre la Cina non aspirerà al tipo di egemonia della quale sino a ieri e per qualche decennio avevano goduto gli Stati Uniti e che comunque le altre potenze asiatiche sarebbero in ogni caso probabilmente restie a concederle. 

Per quanto riguarda l’Europa, ci sembra che le tendenze in atto vadano in direzione di una sua sostanziale progressiva irrilevanza.   

-La seconda categoria e la trappola di Tucidide

Per la verità, negli ultimi anni si va anche configurando una qualche analisi di tipo differente da quella sopra descritta, da parte in particolare di molti saggisti di origine e di cultura soprattutto anglosassone. Le loro analisi ci sembrano peccare in generale, almeno a nostro parere, di una fede eccessiva nella capacità del mondo occidentale di pesare ancora molto ampiamente nelle vicende future; questo sia pure attraverso la messa in opera di una serie di accorte politiche, che andrebbero da un’azione coordinata tra Usa ed Europa, alla messa in contrasto di alcuni Paesi asiatici contro altri ed altre mosse sulle quali non insistiamo. 

Alcuni  arrivano a pensare che si possa intravedere un mondo pluricentrico, in cui Stati Uniti e Europa abbiano comunque ancora un ruolo fondamentale, se non determinante, da giocare, cosa di cui si può anche peraltro dubitare, in particolare per quanto riguarda l’Europa.

Su di un altro piano,  segnaliamo infine che uno studioso come Graham Allison, nel suo testo Destined to war: can America and China escape the Thucidide’s  trap?, pubblicato nel 2017 (esiste una traduzione italiana del 2018),  partendo dalla considerazione che poche volte nella storia i Paesi già egemoni hanno ceduto pacificamente il governo del mondo alle potenze incombenti, suscita la possibilità di un conflitto militare tra Usa e Cina per il dominio del mondo.

Le ipotesi di Allison, per quanto suggestive, sono state peraltro criticate da molti su vari piani. Comunque, certamente il futuro del mondo dipende oggi e sempre più dipenderà nel prossimo futuro dalla configurazione della relazione tra queste due potenze; in questo ha, almeno in parte, ragione Allison. Siamo in particolare, a questo proposito, di fronte alla scarsissima voglia della potenza sino a ieri dominante di accettare il fatto che ci sia un altro paese in grado di raggiungere e magari superare presto i suoi livelli tecnologici ed economici. 

Appendice

Alcune date

Nel quadro delle trasformazioni in atto ci è sembrato opportuno ricordare alcune delle principali date che hanno nel tempo configurato l’evoluzione del rapporto Oriente-Occidente ed in particolare quello Asia-Europa.

Premettiamo che, nell’ambito dei rivolgimenti a cui stiamo assistendo, cominciano a fiorire i libri di storia che ritracciano sotto qualche angolo visuale tali rapporti. Prova ne sia, ad esempio, il successo che ha arriso al testo di Peter Frankopan, The silk roads: a new history of the world, nonostante la sua mole (500 pagine nell’edizione inglese, che è del 2015; c’è anche una traduzione italiana). Per lo storico la via della seta è stata nella storia praticamente la spina dorsale del mondo.

Cominciamo con il ricordare, sulla base dei dati di Angus Maddison, come la Cina e l’India, insieme, rappresentassero, già al principio della nostra era (nell’anno 1 della nostra era), circa il 60% del Pil mondiale (ma esse erano certamente le due economie di gran lunga prevalenti anche prima) e, facendo un salto temporale rilevante, come alla fine del 1700 tale cifra si aggirasse ancora intorno al 50% del totale. 

Un cambiamento nella dinamica delle cose sopra descritte può essere segnalato alla lontana da due avvenimenti.

Il primo fa riferimento alla morte di Tamerlano nel 1405; tramonta così la speranza di ricreare quell’ impero mongolo che era stato, come dimensione geografica e quantità di popolazione, il più grande della storia, mentre le truppe mongole erano anche giunte alla porte di Vienna nel 1271. Esso copriva in particolare gran parte dell’Asia e teneva aperti e sicuri, attraverso la via della seta, i canali di trasmissione di merci, idee, tecniche, religioni, tra Oriente ed Occidente e anche tra le varie aree asiatiche. La morte del capo mongolo segna anche idealmente l’abbandono della dinamica mondializzatrice dell’Oriente a favore della sua periferia occidentale (si veda in proposito di Vincent Capdepuy, 50 histoires de mondialisations, Alma, Parigi, 2018).

Il secondo si collega, un po’ più tardi, nel 1492, alla scoperta dell’America e poi ai primi viaggi verso l’Asia, eventi con i quali  si apre un processo di lenta, ma progressiva, avanzata occidentale, che porterà al trionfo dell’Europa, con “le vele e i cannoni” (Carlo M. Cipolla), nonché con la rivoluzione industriale e la  conquista imperialista del mondo.

Facciamo a questo punto un salto di qualche secolo. Nel 1905 va registrato un evento che segna una pietra miliare nell’avvio sostanziale del processo di decolonizzazione del mondo orientale: la flotta giapponese sconfigge quella russa a Tsushima.

Questo fatto suscita una grande ondata di emozione nei paesi “coloniali”, perché esso dimostra per la prima volta che i bianchi possono essere sconfitti. Persone come Ghandi e Tagore in India, Ho Chi Min in Vietnam, Ataturk in Turchia ed altri futuri grandi leader asiatici festeggiano l’avvenimento con grande entusiasmo. Mao, ancora troppo giovane all’epoca, qualche anno dopo imparerà a memoria, a ricordo dell’evento, delle poesie giapponesi. Si rafforzano da allora in poi i movimenti politici antimperialisti di vario colore e sfumatura, compresi quelli musulmani estremisti.

Alla fine della seconda guerra mondiale prende poi l’avvio concreto il processo di decolonizzazione del mondo: l’indipendenza indiana è già del 1947, mentre i comunisti conquistano il potere in Cina nel 1949. 

Si pongono le basi politiche di una nuova partenza dei paesi orientali.

Nel 1978  Teng Tsiao Ping pronuncia il ben noto discorso che darà l’avvio al Grande balzo in avanti dell’economia cinese, salto che è ancora in corso. Una tappa fondamentale in tale percorso è, nel 2001, l’accessione del paese al WTO, adesione che farà esplodere le esportazioni del Paese.

La crisi del 2008 poi segna una grande perdita di credibilità in tutto il mondo emergente rispetto alla capacità dei paesi occidentali di gestire l’economia, sino ad allora data quasi per scontata. Si tratta, in un certo senso, dell’equivalente economico della battaglia di Tsushima. 

Negli ultimi anni abbiamo poi assistito alla acquisizione del primato commerciale della Cina, poi a quello del suo pil, mentre si attende per i prossimi anni il sorpasso tecnologico. 

Nel maggio del 2017, infine, 68 paesi, che rappresentavano i due terzi della popolazione mondiale, si sono riuniti per la prima volta a Pechino per il primo summit della “Belt and Road Initiative”, il più grande progetto infrastrutturale della storia. Ci sarà poi un altro summit nell’aprile del 2019. Ma la storia non finisce a questo punto.