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Una ipotesi di riformismo rivoluzionario per l’Europa

Sbilanciamo le elezioni/Fino a quando l’UE non avrà una politica fiscale propria, un bilancio adeguato alla dimensione economica dell’Unione, sarà difficile parlare di politica economica europea

L’Unione Europea ha mostrato nel corso della sua storia una serie di vincoli politici, istituzionali ed economici che ne hanno limitato lo sviluppo; questi limiti sono diventati manifesti soprattutto con la crisi economica del 2007. Nel tempo l’Europa, purtroppo, è diventata una istituzione burocratica impegnata – al limite – a coordinare o indirizzare le politiche economiche e sociali, con obiettivi sempre meno credibili in assenza di una politica pubblica nel senso stretto del termine.

La discussione che l’Europa e i Paesi aderenti devono affrontare nel 2018 non è legata alla sola trasformazione del Fiscal Compact in diritto comunitario, quanto piuttosto alle implicazioni istituzionali e socio-economiche dei trattati europei che sono entrate in crisi nel 2007, e che sono poi degenerate nel 2011-12.

La discussione dovrebbe (potrebbe) tracciare un altro orizzonte europeo. Usando una metafora di Paolo Leon, “il potere ignorante” (l’Europa) ha un’occasione pubblica e progettuale come non accadeva da tempo. L’Italia sottovaluta la portata “storica” della discussione.

Il position paper dell’Italia sulle riforme europee è persino più arretrato rispetto alle posizioni del MEF a proposito del modello di calcolo dell’output-gap utilizzato dalla Commissione, che tende a far coincidere il PIL potenziale con il PIL reale. L’idea di tagliare le tasse per far crescere il PIL, che è il prodotto del modello Reagan-Thatcher, domina ancora la discussione nazionale.

In questo contesto, il cosiddetto “Rapporto dei 5 Presidenti”, intitolato Completing Europe’s Economic and Monetary Union (22 giugno 2015), è un documento molto importante nel panorama europeo. Al suo interno si delinea un percorso di integrazione delle politiche economiche riconoscendo che qualcosa nell’impalcatura comunitaria non ha funzionato. In realtà non solo il progetto dei 5 Presidenti è piegato esclusivamente al controllo delle finanze pubbliche, ma l’analisi sull’esito economico e sociale dei Trattati europei è sostanzialmente positiva.

Sulla scorta di questo, a dicembre 2017 la Commissione ha rilasciato un ulteriore documento – Further Steps towards Completing Europe’s Economic and Monetary Union: a Roadmap – in cui vengono delineati alcuni punti programmatici nodali:

  • il nuovo Fondo Monetario Europeo – che includerebbe anche l’attuale European Stability Mechanism (ESM) –, da inserire nei Trattati europei, dovrebbe completare l’Unione bancaria e integrare i meccanismi di risoluzione delle crisi bancarie, oltre a fornire assistenza finanziaria agli Stati membri in caso di emergenza. Il meccanismo diventerebbe parte integrante del Sistema Europeo delle Banche Centrali e della Commissione Europea. Se consideriamo che l’ESM ha una dote di 400 miliardi di euro inutilizzati, necessari a rilanciare gli investimenti che a livello europeo sono calati di circa 2.300 miliardi[1], la proposta appare complessa e inefficace;
  • l’integrazione nei Trattati europei del Fiscal Compact, pur riconoscendo le flessibilità di bilancio introdotte nel 2015, è un aspetto non solo critico[2], ma fondamentale nell’architettura della Roadmap. Il punto è sempre lo stesso: mettere sotto controllo il debito pubblico e l’indebitamento degli Stati. Se consideriamo le flessibilità del 2015 alla luce dei propositi di riforma del bilancio europeo – ovvero il supporto alle riforme strutturali degli Stati e la creazione di un fondo a sostegno di queste riforme (con problemi giuridici non banali sull’integrità e l’unitarietà del bilancio europeo) –, le flessibilità diventano una “camicia di forza” che mal si concilia con la necessità, almeno, di scorporare dalle procedure del MIP (Macroeconomic Imbalance Procedure) i nuovi investimenti, oppure di traguardare gli obiettivi del cosiddetto “European Pillar of Social Rights”[3]. La creazione di un Ministro dell’Economia europeo è importante, ma irrilevante se guardiamo all’impalcatura del progetto.

E l’Italia? Nonostante il Ministro Padoan abbia lavorato per stemperare i meccanismi di valutazione dei bilanci statali, in particolare quelli relativi al pareggio di bilancio strutturale[4], le proposte del governo non discutono i meccanismi di calcolo e del Fiscal Compact. L’Italia punta sull’allargamento delle flessibilità, al dimensionamento del Ministero delle Finanze europeo, alla creazione di un meccanismo anti-crisi per combattere la disoccupazione ciclica, al completamento dell’Unione bancaria.

Sebbene la proposta italiana si dica favorevole a un’ulteriore cessione di sovranità per la valutazione del debito, questa è subordinata all’istituzione di un organismo politico e non tecnico. In qualche misura si conviene che ci sono decisioni che non possono essere legate all’applicazione tecnica, e l’Italia insiste sul fatto che alcune misure non possono essere valutate anno per anno, ma dovrebbero considerare un periodo di tempo più ampio. La proposta di un fondo per combattere la disoccupazione ciclica è la brutta copia del cosiddetto Dossier Prodi.

Molto più interessante è la proposta di mettere sotto esame i titoli illiquidi delle banche Level 3, cioè i derivati e gli altri strumenti sintetici che si concentrano nei bilanci di alcune grandi banche sistemiche tedesche e francesi. È una proposta di buon senso. Infatti, questo patrimonio è certamente più rischioso dei titoli pubblici, come invece continua a sostenere la Germania che intende ridurre la quota di questi posseduti dal sistema creditizio.

Sebbene Romano Prodi abbia messo al centro del suo Dossier l’idea di un New Deal sociale, con degli interventi legati al modello sociale europeo a favore delle scuole[5], delle strutture sanitarie[6], dell’edilizia sociale[7], la proposta non prende in esame uno dei principali moniti avanzati da Atkinson[8].

Indiscutibilmente il Dossier declina un New Deal sociale da 170 miliardi l’anno, mentre ne servirebbero altri 100-150 – per un impegno complessivo di 1.500 miliardi entro il 2030 – al fine di contrastare le diseguaglianze e la crescente divergenza tra regioni europee, mai così ampie negli ultimi trent’anni[9].

Tuttavia, gli interventi suggeriti sono a valle degli effetti del mercato. Probabilmente, l’elaborazione del piano affidata a una task force promossa dall’associazione delle banche pubbliche europee ha pesato nella sua elaborazione. Il gap degli investimenti tra prima della crisi e durante (dopo) la crisi ha certamente acuito le differenze infrastrutturali tra gli Stati e persino all’interno degli Stati, ma resta abbastanza discutibile l’affermazione secondo cui le istituzioni nazionali non avrebbero le risorse e le competenze per realizzare questi investimenti[10].

I meccanismi di finanziamento sono legati all’istituzione di un Fondo europeo che dovrebbe sostenere gli investimenti sociali, e sarebbe aperto al capitale pubblico e privato. La principale missione è quella di fornire agli enti locali l’assistenza tecnica e finanziaria, mentre il suo finanziamento è legato all’emissione di social bond, ovvero obbligazioni a scopo sociale per finanziare la costruzione di ospedali, scuole e case popolari. Le obbligazioni, secondo Prodi, non solo avrebbero un alto rating, ma sarebbero anche appetibili per gli investitori di lungo termine, per esempio fondi pensione e assicurazioni.

Sebbene la proposta sia significativamente più avanzata della Roadmap della Commissione Europea di cui abbiamo detto in precedenza, è altrettanto vero che la principale diseguaglianza che l’Unione Europea dovrebbe affrontare è nel mercato e nella distribuzione del potere.

Che fare?

  1. Il primo e non banale aspetto è legato ai vincoli di bilancio e debito sottesi al Trattato di Maastricht, diventati ancor più stringenti con il Fiscal Compact e l’introduzione del pareggio di bilancio strutturale. Sebbene fossero già poco credibili i vincoli del 1992[11], la crisi intervenuta nel 2007 suggerirebbe almeno una loro ri-storicizzazione. Mentre all’inizio degli anni Novanta il debito pubblico europeo era più o meno pari al 60% del PIL, il valore nel 2013 è prossimo al 90%, comunque inferiore rispetto a Paesi non meno importanti: il rapporto debito/PIL degli Stati Uniti è al 122,8%, quello del Regno Unito è prossimo al 93%, quello del Giappone al 236%. Sono valori che suggeriscono una revisione dei criteri sottesi al Trattato di Maastricht e, ancor di più, al Fiscal Compact, che li ha di fatto esacerbati.
  2. Il secondo aspetto richiama le regole d’ingaggio legate al Fiscal Compact, che devono essere riscritte. Quando l’Unione Europa sollecita misure più o meno restrittive verso i Paesi membri dell’area euro, in realtà non è interessata al rapporto indebitamento/PIL del 3% o al rapporto debito/PIL del 60%. Essa, in realtà, è interessata all’indebitamento strutturale legato all’output gap. Il modello della Commissione Europea è particolarmente rigido e non considera alcune variabili chiave. Per quanto riguarda i diversi metodi di stima dell’output gap, la Commissione utilizza infatti il Nawru (Non-Accelering Wage Rate of Unemployment), mentre l’Ocse il Nairu (Non-Accelering Inflation Rate of Unemployment). Non solo l’utilizzo dei due modelli conduce a risultati significativamente diversi in termini di crescita potenziale, ma, per come è costruito il modello europeo, l’utilizzo di un diverso orizzonte temporale rende le stime dell’output gap meno ampie e più conservative rispetto a quelle dei paesi membri (che, invece, si basano su proiezioni macroeconomiche che si estendono per tre anni).
  3. In terzo luogo, fino a quando l’Unione Europea non avrà una politica fiscale propria, un bilancio adeguato alla sua dimensione economica, una politica di spesa e di entrata, la possibilità di realizzare politiche “funzionali” oppure investimenti per far crescere l’economia nel suo insieme, sarà difficile parlare di politica economica europea. La necessità di una politica simile, con la disponibilità di risorse finanziarie autonome e “calibrate” al ruolo che l’Unione dovrebbe poter svolgere, è stata invece solo abbozzata in anni passati, e non è stata tratteggiata in nessun Trattato europeo – tanto meno nella Roadmap.
  4. Il quarto aspetto è legato alla sostenibilità del progetto europeo. Il Social Pillar ed Europa 2020 dovrebbero diventare l’orizzonte su cui piegare l’intero progetto europeo. Roosevelt immaginò un bilancio “normale” federale che doveva essere messo in pareggio, e un “bilancio di emergenza” che serviva per sconfiggere la depressione. In tal senso, il bilancio (europeo) d’emergenza potrebbe essere legato al perseguimento degli obiettivi di Europa 2020 e del Social Pillar, attraverso l’esclusione di questi investimenti dal computo del bilancio dello Stato o, meglio ancora, attraverso un intervento tramite il bilancio europeo che nel frattempo dovrebbe crescere al 5% del PIL ed essere finanziato attraverso un proprio e autonomo sistema di tasse.

 

[1] Si veda A. Q. Curzio (2017), “Da Bruxelles un progetto troppo fragile”, in Il Sole 24 Ore, 10 dicembre.

[2] Si veda “The Appeal: Overcoming the Fiscal Compact for a new European development”, in Economia e Politica: http://www.economiaepolitica.it/politiche-economiche/europa-e-mondo/lappello-superare-il-fiscal-compact-per-un-nuovo-sviluppo-europeo/ e “Superare il Fiscal compact per un nuovo sviluppo europeo”, in Sbilanciamoci.info: https://sbilanciamoci.info/superare-fiscal-compact-un-sviluppo-europeo/

[3] Si veda il Concluding Report del “Social Summit for Fair Jobs and Growth”, 17 novembre 2017, Gothenburg, Sweden.

[4] Documento di Economia e Finanza 2017, La stima del prodotto potenziale, dell’output gap e del saldo strutturale con il modello alternativo alla metodologia concordata a livello europeo, pp. 77-83.

[5] Dai nidi alle materne, fino alle università che devono acquisire le necessarie dotazioni tecnologiche.

[6] Dai centri diagnostici a quelli per la cura, attrezzature e macchinari, laboratori di ricerca, programmi di prevenzione e cura, telemedicina, case di cura per gli anziani.

[7] Housing sociale, strutture semi-residenziali, centri servizi per piccole comunità urbane, programmi di ristrutturazione edilizia.

[8] Si veda A. B. Atkinson (2015), Disuguaglianza, cosa si può fare, Raffaello Cortina, Milano, prefazione all’edizione italiana di Chiara Saraceno. In particolare, a pagina 135: “La politica pubblica deve mirare a un equilibrio appropriato di poteri fra gli stakeholder, e a questo fine deve (a) introdurre una dimensione distributiva esplicita nelle regole della concorrenza; (b) garantire un quadro giuridico che consenta ai sindacati di rappresentare i lavoratori e pari diritti; e (c) formare, ove già non esista, un Consiglio sociale ed economico che coinvolga le parti sociali e altri organismi non governativi”.

[9] Dobbiamo sempre distinguere tra diseguaglianze prima e dopo l’intervento pubblico. Infatti, uno dei principali problemi della diseguaglianza risiede nei meccanismi di mercato. A questo proposito è importante il sopracitato libro di Atkinson, secondo il quale (p. 128) “i livelli attuali di disuguaglianza sono troppi elevati e (…) questo rispecchia in parte il fatto che la bilancia del potere pende a sfavore di consumatori e lavoratori”.

[10] La discussione sarebbe da approfondire. Le istituzioni locali sono incapaci, oppure con i tagli del bilancio pubblico non sono più in grado di garantire gli investimenti necessari?

[11] Rapporto tra deficit pubblico e PIL non superiore al 3%; Rapporto tra debito pubblico e PIL non superiore al 60% (Belgio e Italia furono esentati); Tasso d’inflazione non superiore dell’1,5% rispetto a quello dei tre Paesi più virtuosi; Tasso d’interesse a lungo termine non superiore al 2% del tasso medio degli stessi tre Paesi; permanenza negli ultimi 2 anni nello SME senza fluttuazioni della moneta nazionale.