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Il teatro nucleare di Trump e Putin

Prima di stracciare il trattato Inf, il 2 febbraio, gli Usa hanno avviato la costruzione del missile W76-2 nel Pantex Plant in Texas. Putin non è da meno: ha lanciato missili a Idlib in Siria. Ordigni più piccoli e utilizzabili.

È strano come le follie di un dittatore, per quanto folli e quindi anche poco verosimili, riescano a colpire l’immaginario molto più di un piano studiato e discusso dagli esiti però altrettanto pazzeschi. Così mentre un anno fa serpeggiava un’ondata di paura sui roboanti proclami del giovane leader nordcoreano Kim Jong-un rispetto a ipotetici piani di riarmo nucleare, oggi non ha avuto molta eco la notizia – ben più hard – che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, cioè della maggiore potenza militare al mondo, abbia mandato in soffitta uno dei pochi strumenti per rendere almeno illegale un disastroso, esiziale, confronto armato con missili nucleari assolutamente veri, esistenti, pronti per l’uso. 

Neanche la risposta del collega russo Vladimir Putin, che ha rigettato a sua volta il trattato firmato da Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov nel 1987, ha generato alcuna reazione. Anzi, l’unica reazione in Europa è stata quella polacca: Varsavia, finora unico Paese dell’Unione, si è accodata alla decisione di Trump. Eppure adesso, come ha fatto notare Daryl Kimball di ControlArms, se si dovesse lasciar scadere anche il trattato Start del 1991 – la data prevista è il 2021 – il mondo si ritroverebbe completamente in balia delle dinamiche dell’escalation militare, come mai lo è stato dal 1972, quando i movimenti per la pace hanno iniziato a ottenere i primi segnali di distensione almeno dal punto di vista nucleare.

Il trattato che ai primi di febbraio di quest’anno è stato stracciato dalle due maggiori potenze atomiche e militari si chiamava Intermediate range nuclear force treaty, più comunemente noto come Inf, e metteva al bando la proliferazione di sistemi d’arma con basi terrestri con testate termonucleari di medio raggio, con un raggio d’azione dai 500 ai 5.500 kilometri. Missili tristemente noti come euromissili: i Persing 2, o dall’altra parte della Cortina di ferro i brezneviani Ss20, che fino agli anni Ottanta erano dispiegati anche in Italia, nella base Usa di Comiso. Mentre i vari trattati Start, in epoca Bush senior, mettevano nel congelatore i missili balistici intercontinentali, che probabilmente, in un’epoca diversa dalla guerra fredda per blocchi contrapposti, resteranno inutilizzabili o come dicono gli esperti “too big to use”. 

La novità più inquietante del nuovo scenario di riarmo bellico è l’appannamento della logica, già pericolosa, della deterrenza. Russia e Stati Uniti d’America in effetti da anni si rimpallavano accuse di violazioni del trattato Inf perché in effetti da anni stavano ammodernando i loro arsenali nucleari a corto e medio raggio, con il dichiarato intento di utilizzarli. Trump lo ha dichiarato ufficialmente esattamente un anno fa dando alle stampe la sua storica revisione della strategia nucleare americana, il Nuclear Posture Review. E la Russia avrebbe già utilizzato missili balistici ipersonici a corto raggio Iskander, equivalenti a Tornado, per bombardare dal mare o dalla piattaforma di lancio di Kaliningrad le postazioni dell’Isis in Siria, a Idlib, e l’Ossezia del Nord.

Gli americani non sono neanche loro stinchi di santo. Hanno implementato nel 2016 il cosiddetto “scudo antimissile” Aegis Ashore con basi a Deveselu in Romania, a Redzikowo nel nord della Polonia e sulla costa baltica, in funzione antirussa. E soprattutto, non più tardi di una decina di giorni prima della denuncia del trattato Inf, che scadeva il 2 febbraio 2019 e avrebbe pertanto dovuto essere rinnovato, hanno avviato la costruzione del nuovo missile a corto raggio W76-2 nel grande complesso ora ultra blindato di Pantex Plant a sedici miglia da Amarillo, in Texas, nel cuore trumpiano del Paese, dove prima un grosso stabilimento della Procter & Gamble produceva più innocenti saponi impiegando oltre 5 mila operai, in gran parte donne.

Il missile W76-2 è stato pensato come “ammodernamento” dei vecchi e ingombranti W76-1 del sistema Trident, pesanti 164 chilogrammi ciascuno e con una potenza singola di addirittura 100 kilotoni. Disassemblandoli si dovrebbero ottenere ordigni più maneggevoli, e soprattuto “usable” – nei piani utilizzabili già dal 2020 – da 5-6 kilotoni l’uno, per armare navi e sottomarini della Us Navy. Bombe capaci di una completa devastazione anche se con una potenza molto più bassa dalla Little boy da 16 kilotoni che ridusse in cenere Hiroshima.

Il tutto a un prezzo non eccessivo e senza un grande investimento tecnologico. Tanto per iniziare. Perché nel prossimo decennio l’Ufficio di bilancio del Congresso in pieno “shut down” ha comunque previsto un aumento addirittura del 23% rispetto alle previsioni di soli due anni fa delle spese per ammodernamento dell’arsenale nucleare a stelle e strisce fino a quasi mezzo miliardo di dollari.

L’industria degli armamenti deve essere foraggiata. Il primato americano, in base alle analisi  dello Stockolm International Peace Research Institute (Sipri), la Lockeed Martin è ancora la compagnia leader nel settore della vendita (e il primo committente è la Difesa Usa) ma il predominio è incalzato dai russi che già nel 2017 hanno scalzato i britannici dal secondo posto nel podio dei paesi esportatori di armamenti, con quattro compagnie nella top 100: la statale Almaz Antey e le private United Engine Corp, High Precision Systems e Tactical Missiles Corp. Al riarmo russo negli ultimi due anni si è poi aggiunto un crescente riarmo cinese, sia per quanto riguarda la costruzione di sottomarini, missili, droni, a forte innovazione tecnologica.
Con questa carrellata viene quasi da pensare con nostalgia a quando la paura sembrava venire soltanto dai pomposi esperimenti, spesso abortiti, delle testate nucleari nordcoreane.