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Alcuni aspetti trascurati dello sviluppo economico cinese

Lo strabiliante sviluppo della Cina contemporanea viene comunemente fatto risalire alle riforme di Deng Tsiao Ping nel 1979 ma a ben vedere senza i programmi sociali precedenti questo sviluppo non avrebbe attecchito.

La Cina ha da poco festeggiato il 70 ° anniversario della nascita della repubblica popolare. In questi settanta anni abbiamo assistito ad uno degli eventi più importanti della storia contemporanea. Il Paese più popoloso del mondo, che si trovava in  una situazione di grande povertà e arretratezza economica, tecnologica, sociale, è arrivato alla prima posizione in classifica nel settore industriale, poi in quello commerciale ed infine in quello del Pil (calcolando almeno questo indicatore con il criterio della parità dei poteri di acquisto), mentre ora esso sta cercando di raggiungere anche la posizione di comando nelle tecnologie. E sembrano esserci molte probabilità che ci arrivi abbastanza presto. 

Con queste note vogliamo sottolineare alcuni aspetti di tale crescita che sono messi quasi sempre poco in rilievo nei numerosi commenti che possiamo leggere e ascoltare in queste settimane di  commemorazione dell’anniversario, ma che, nondimeno, ci appaiono molto importanti per capire meglio il processo di sviluppo del Paese.

Prima del 1979

Tutti fanno riferimento al grande salto in avanti compiuto dall’economia cinese a partire dal 1979, sotto l’impulso in particolare delle nuove politiche avviate in quell’anno da Deng Tsiao Ping; in effetti, a tale data la Cina era ancora uno degli Stati più demuniti del mondo, con il 60% circa della popolazione che viveva sotto la soglia della povertà, mentre ancora i tre quarti degli abitanti erano concentrati in campagna.

Ma pochi si soffermano sul fatto che fondamentali premesse allo sviluppo successivo erano state poste nei decenni precedenti al 1979 attraverso i programmi sociali del nuovo governo rivoluzionario. 

In effetti in tale periodo (dal 1949 al 1979, in 30 anni) la speranza di vita media della popolazione era già passata dai 35 ai 66 anni, mentre oggi essa si colloca intorno ai 77 e appare ancora in crescita. Parallelamente il tasso di analfabetismo era passato tra gli adulti dall’80% dal 1949 al 23% del 1979 (Daokui Li, 2019), mentre nel 2015 esso era ormai pari al 3,6% e mentre si era già raggiunta alla fine degli anni Settanta del Novecento l’eguaglianza di genere nella scuola.  

Importanti trasformazioni avevano già toccato, prima del 1979, anche l’agricoltura: dalla grande estensione delle colture irrigue, alla larga estensione nei campi del riso ad alta resa. Anche il tentativo di industrializzazione delle campagne, pur tra tanti problemi, aveva lasciato preziose e diffuse conoscenze sul piano dello sviluppo dell’imprenditoria locale. Senza tali premesse difficilmente le riforme di Deng avrebbero avuto tanto successo, come ricorda anche un recente articolo del Financial Times (Daokui Li, 2019), ma come avevano sottolineato già diverso tempo fa alcuni studiosi (Arrighi, 2007).

Il ritorno alla normalità del mondo, ovvero ancora una volta il trionfo della lunga durata

Né i media, né i politici occidentali ricordano di solito alcunché in proposito, ma la spettacolare crescita della Cina è solo  l’aspetto più evidente del passaggio in atto, a grandi passi, del centro di gravità del mondo da Occidente ad Oriente, sia sul piano economico e finanziario che su quello tecnologico e politico, sia pure con tempi e modalità diverse sui vari fronti citati. 

Dopo che l’Occidente ha esercitato la sua egemonia sul globo in sostanza per un paio di secoli, si è arrivati ormai alla fine di tale periodo, periodo che ha costituito nei fatti solo una parentesi tutto sommato breve nella storia dell’umanità rispetto invece all’andamento “naturale” delle cose, se si potesse usare tale termine nel campo delle scienze sociali. 

In effetti, per limitarci agli ultimi duemila anni, anche prendendo in considerazione soltanto Cina e India, secondo le ricostruzioni naturalmente approssimate degli storici e degli economisti, i due Paesi hanno costituito dai primi anni della nostra era sino al 1700 circa il 60% del Pil mondiale mentre nel 1820 eravamo ancora a circa il 50% (Maddison, 2007). 

Seguendo le piste di uno storico come Fernand Braudel, ne dovremmo concludere che ci troviamo di fronte ad un altro trionfo del fenomeno della “lunga durata”, con una tendenza al primato dell’Oriente che riemerge in maniera prepotente dopo un momento di stanchezza. Così i Paesi europei hanno riempito nella storia sostanzialmente un ruolo abbastanza marginale per la gran parte del tempo. 

Per altro verso, la via della seta ha costituito, secondo l’espressione di uno storico (Frankopan, 2015), la “spina dorsale dell’umanità” per moltissimi secoli, sia pure con andamenti variabili delle sue dinamiche nel tempo; per tale strada passavano non solo le merci, ma anche le idee, le religioni, le migrazioni dei popoli. 

Come già accennato, oggi la Cina, adottando almeno il criterio della parità dei poteri di acquisto, è la prima economia del mondo, rappresentando circa il 18,6% del totale nel 2018 (si prevede tra l’altro che nel 2025 essa acquisirà lo stato di high income country), mentre l’insieme dei Paesi emergenti pesano già nel 2018 per circa il 60% del totale, con tendenza ad una crescita ulteriore. Per gli Stati Uniti siamo nello stesso anno al 15,0%.

Da un altro punto di vista ricordiamo che oggi la popolazione del continente asiatico è di circa 5 miliardi di abitanti, quella dell’Europa di circa 500 milioni e quella degli Stati Uniti di 320 milioni. Non sembra ormai esserci più una grande possibilità di resistenza sul piano dei risultati economici, avendo i Paesi emergenti, chi più chi meno, imparato come si fa. 

Ma in Occidente quasi nessuno accetta (o fa anche soltanto riferimento a) quello che sembra sempre più inevitabile; speriamo soltanto che questo rifiuto della realtà non porti a conseguenze negative per la pace del mondo.

Va comunque sottolineato come la Cina non sarà necessariamente la potenza politicamente dominante del mondo allo stesso modo con cui lo sono state a suo tempo la Gran Bretagna e più recentemente gli Stati Uniti. E questo sia guardando a tutta la storia del Paese, che mostra come esso abbia sempre rifuggito da tendenze imperialistiche marcate, sia dal fatto che oggi in Asia ci sono realtà statali importanti, rappresentate da Paesi quali Giappone, India, Vietnam, Indonesia che non accetterebbero, per varie ragioni, di sottostare agli eventuale diktat politici della stessa (Khanna, 2019).  

Sviluppo economico, democrazia, intervento pubblico

Tra i dogmi largamente diffusi, oltre che nei media occidentali anche tra la gran parte degli economisti più accreditati, ce n’è uno secondo il quale non è possibile per un Paese portare avanti un processo di sviluppo economico senza godere di un regime politico democratico e poi, per giunta e contemporaneamente, in presenza di un forte intervento dello Stato nell’economia (e questo sia con un’invadenza marcata dei pubblici poteri sulle attività delle imprese private, sia con l’intervento diretto di un numero importante di aziende pubbliche in vari settori). 

Il caso dello sviluppo e poi del crollo del sistema sovietico aveva fatto modificare solo molto parzialmente tale paradigma, nel senso che da allora in poi si è cominciato a concedere che un governo autoritario e con una forte impronta statalista sarebbe forse stato in grado di far crescere l’economia nella fase dell’accumulazione primitiva, ma che tale tendenza si sarebbe poi bloccata nella fase successiva, di fronte alla necessità di una crescita più qualitativa e più avanzata. 

Un corollario a tali idee fa riferimento alla affermazione che in un regime autoritario e con una forte presenza dello Stato in economia non si  potrebbero sviluppare degli importanti processi di innovazione tecnologica; la ricerca, si diceva, ha bisogno di libertà di opinioni, di dibattito aperto e continuo, cosa molto difficile in un regime non democratico.    

Così, ancora sino a non moltissimi anni fa diversi studiosi dichiaravano la loro maggiore fiducia nel modello indiano, Paese democratico, rispetto a quello cinese, anche se raccomandavano allo stesso Paese del sud asiatico di ridurre la presenza dello Stato nell’economia. 

In realtà, mentre il Pil dei due Paesi risultava sostanzialmente uguale alla fine degli anni Settanta del Novecento, nel 2018 l’economia cinese era grande ormai circa sei volte quella indiana utilizzando per la stima il criterio dei prezzi di mercato e circa tre volte, invece, impiegando quello della parità dei poteri di acquisto. E non sembra che almeno nel breve-medio termine si possa manifestare una tendenza ad un mutamento rilevante in tali rapporti. Anche tutti gli indicatori sociali e demografici mostrano oggi un netto distacco tra i due Paesi a favore della Cina.

E’ anche sulla base della sfiducia in un regime autoritario e nel vasto intervento pubblico nell’economia che già pochi anni dopo le prime riforme di Deng sono cominciate ad apparire e poi a farsi sempre più numerose e insistenti le previsioni degli esperti occidentali che si attendevano un rapido crollo dell’economia cinese: ma dopo quaranta anni stiamo ancora aspettando che si manifesti tale evento. 

Ancora oggi, per altro verso, in un Paese come gli Stati Uniti si raccolgono con incredulità le notizie relative ai progressi tecnologi della Cina, o li si attribuisce esclusivamente al fatto che il Paese copierebbe il know-how delle imprese occidentali, tra l’altro anche con mezzi discutibili e fraudolenti. Ci si dimentica che il Paese asiatico è stato alla testa dei processi di innovazione mondiali per alcuni millenni e che anche la dinamica dello sviluppo industriale di molti altri Paesi, a cominciare da quella del caso statunitense, è stata a suo tempo innescata dal furto delle tecnologie altrui. 

La realtà dei fatti mostra, alla fine, che non sembra esserci alcun nesso marcato tra democrazia e sviluppo economico, né tra invadenza dello Stato nell’economia e crescita del pil e che bisogna considerare nel quadro, per spiegare il processo di sviluppo di una nazione,  la dinamica di altri fattori.

Naturalmente sarebbe invece azzardato affermare che un regime autoritario porti necessariamente a risultati migliori rispetto ad uno di tipo democratico per quanto riguarda sempre lo sviluppo economico.

Per altro verso, in un regime autoritario e con una forte presenza dello Stato nell’economia possono non mancare degli inconvenienti, come ad esempio quello, segnalato con insistenza catastrofista da molti per il caso della Cina, di un possibile spreco rilevante di risorse; ma importanti inconvenienti, sia pure, se vogliamo, magari di tipo diverso, si possono manifestare anche in un’economia con il più largo spazio possibile lasciato all’iniziativa privata e con un regime democratico.

Ricordiamo infine, in questo contesto, come la quasi totalità dei media e dei politici occidentali abbiano costantemente sottovalutato nel tempo, o anche tenuto sotto silenzio, lo sviluppo cinese e quello degli altri Paesi emergenti. Molti quotidiani sottolineano ogni giorno quasi esclusivamente le vicende negative del Paese asiatico (non si capisce quindi come abbia fatto a svilupparsi così fortemente, con tutti i guai messi in evidenza nelle cronache dei più o meno brillanti ed esperti giornalisti accreditati) e, nella sostanza, cercano di instillare un sentimento di paura, o almeno di grande diffidenza, nei suoi confronti, obiettivo che sembra almeno per il momento, in parte raggiunto, visto il sentimento largamente prevalente nei confronti del Paese di Mezzo nell’opinione pubblica dei nostri Paesi.

Accentramento e decentramento

Nell’immaginario dell’opinione pubblica occidentale è certamente presente l’idea di una Cina come di un Paese in cui ci si ritrova con un forte accentramento sia del potere economico che di quello politico. La realtà sembra peraltro abbastanza distante da tale ipotesi.

A livello territoriale si mantiene nella sostanza una tradizione millenaria che vede le varie regioni e le varie città in cui è diviso il Paese godere di una larga autonomia decisionale anche sul piano finanziario. A questo proposito si può  ricordare un vecchio detto cinese che recita più o meno così: “la capitale è lontana e le montagne sono alte”. 

Certo, oggi è il potere centrale a fissare periodicamente i grandi obiettivi da portare avanti e a controllare in qualche modo la loro esecuzione, ma la pratica indica che a livello periferico entrano in gioco interessi anche molto differenziati, mentre i vari dirigenti periferici cercano spesso di andare per loro conto; così il risultato finale potrà essere molto diverso da quanto sperato.

Indubbiamente Pechino ha il diritto di nominare e destituire i quadri periferici a tutti i livelli, ma anche i processi sanzionatori sono complessi, flessibili, spesso lenti e soggetti a molte variabili.

Per quanto riguarda in specifico il fronte economico, da una parte troviamo un centro che, oltre a mettere in campo un vasto sistema di imprese pubbliche, controlla apparentemente in modo abbastanza stretto il comportamento di quelle private. D’altro canto ci troviamo anche di fronte ad una grande e frenetica impresa privata, in un mercato spesso caratterizzato da una concorrenza selvaggia e senza regole, solo raramente messa a freno dalle decisioni del centro. 

Come si possano conciliare due spinte così contrapposte sia sul piano economico che su quello politico non appare del tutto chiaro, ma sino ad oggi i risultati, sia pure con qualche sbavatura, non hanno mancato di manifestarsi.

Testi citati nell’articolo

-Arrighi G., Adam Smith in Beijing, Verso, Londra-New York, 2007, trad. it. Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano, 2008

-Daokui Li D., Lessons from the first 70 years of the People’s Republic of China, www.ft.com, 1 ottobre 2019

-Frankopan P., The silk roads, Bloomsbury, Londra, 2015,    trad. it., Le vie della seta, Mondadori, Milano, 2017 

-Khanna P., The future is asian, Simon & Schuster, New York, 2019,  trad. it. Il secolo asiatico?, Fazi editore,  Roma, 2019

-Maddison A., Contours of the world economy, 1-2030 AD, Oxford University Press, New York, 2007