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L’Europa davanti a un’Asia post-americana

Entro fine anno Ue e Cina, prima dell’ingresso di Biden alla Casa Bianca, sembrano chiamate a siglare un accordo sugli investimenti. Intanto a metà novembre è stato firmato uno storico patto commerciale nel Pacifico del Sud a cui, ribaltando i giochi di Trump, ha aderito anche la Cina.

I patti commerciali in Asia e in Europa 

I tentativi statunitensi di contrasto all’ascesa della Cina non sono veramente cominciati con Trump, già Obama, in particolare nel suo secondo mandato, aveva tentato di muoversi con una certa decisione su tale tema. 

Ricordiamo, a tale proposito, la sua strategia del cosiddetto “pivot to Asia”, l’intenzione cioè di concentrare gli sforzi anche militari del Paese verso tale continente per bloccare in qualche modo l’ascesa cinese; in tale quadro, poi, va sottolineata la conclusione (l’accordo relativo fu siglato dai Paesi partecipanti nell’ottobre 2015) del progetto della creazione di un’area di libero scambio (noto come TPP, ovvero Trans Pacific Partnership) tra gli stessi Usa ed alcuni Paesi dell’America latina e dell’Asia, per un totale di 12 partecipanti. Da tale progetto fu ovviamente esclusa la stessa Cina; esso avrebbe, tra l’altro, permesso agli Stati Uniti di fissare sostanzialmente le regole degli scambi commerciali e di molto altro per l’Asia. 

Si sa che poi Trump nel 2017 ha fatto saltare tale patto chiamandosene fuori, anche se gli 11 paesi rimasti, sotto la spinta in particolare del Giappone, hanno deciso di andare avanti da soli, varando nel 2018 un nuovo accordo un poco più ridotto come ambizioni, il cosiddetto CPTPP (“Cooperative and Progressive Agreement for Trans Pacific Partnership”).

In queste settimane abbiamo assistito alla firma di un altro grande patto commerciale, il RCEP (“Regional Comprensive Economic Partnership”), pomposamente definito come il più grande della storia, tra i paesi dell’ASEAN, l’Australia, la Nuova Zelanda, il Giappone, la Corea del Sud e questa volta la Cina. La stessa Cina, poi, qualche giorno dopo, con un paradossale ribaltamento totale della scena rispetto agli anni precedenti, ha deciso di chiedere l’ingresso nello stesso CPTPP, patto che all’origine doveva proprio servire ad isolarla. Va incidentalmente ricordato che 7 paesi, tra i quali il Giappone e l’Australia, partecipano ad ambedue gli accordi citati (Peng Wensheng ed altri, 2020). 

La richiesta cinese ha peraltro destato meraviglia, visto anche che alcune delle clausole del trattato (da quelle che toccano la tutela della proprietà intellettuale, il controllo del flusso dei dati, gli standard per il lavoro, la protezione ambientale, sino a quelle che riguardano il ruolo delle imprese statali), in ogni caso un documento più completo ed impegnativo di quello già citato, apparirebbero in contrasto con la linee guida secondo le quali opera l’economia cinese. In particolare, non appare chiaro come conciliare le previsioni del CPTPP che proibiscono un trattamento di favore alle imprese statali con le recenti dichiarazioni cinesi secondo le quali le imprese pubbliche del paese devono diventare più forti, migliori e più grandi. Ma tutto si può forse negoziare e su queste questioni Pechino manda segnali incoraggianti di apertura (Wang Huiyao, 2020). 

Appare invece abbastanza probabile che gli Stati Uniti non siano in grado di rientrare ora nello stesso CPTPP, o di riuscire a farlo presto, vista anche la forte opposizione interna, legata, tra l’altro, ad una ondata nazionalistica suscitata certo da Trump, ma comunque su di un fondo di contestazione preesistente.  

Tutto questo ha portato molti commentatori a mettere in rilievo un sostanziale trionfo per la stessa Cina, partita da un posizione di svantaggio, sulle questioni commerciali e non solo in Asia.

Tanto più che sembrano andare avanti abbastanza spediti i colloqui tra Cina, Giappone e Corea del Sud per la messa in opera di un patto di libero scambio a tre. 

Il probabile patto tra Cina ed Unione Europea

Intanto, cosa che ci interessa più da vicino, sembra (anche se la cosa non appare del tutto sicura) che, entro la fine dell’anno, possa essere portato a compimento un accordo sugli investimenti (BIA, Bilateral Investment Agreement) preparato tra alti e bassi con colloqui che vanno avanti da circa sette anni tra la stessa Cina e l’Unione Europea.

L’accordo appare in qualche modo un passaggio obbligato, dal momento che, da una parte, la Cina è diventato negli ultimi mesi il più importante partner commerciale dei Paesi dell’UE, soppiantando gli Stati Uniti, anche se il deficit della bilancia commerciale della UE verso la Cina era pari nei primi dieci mesi del 2020 a circa 136 miliardi di euro, contro i circa 124 dell’intero 2019 e anche se non mancano su tale possibile patto i mal di pancia politici da parte di molti influencer del nostro continente; dall’altra, per la Cina l’intesa appare anche una via importante per evitare un suo possibile isolamento politico che verrebbe da un accordo economico e politico tra Stati Uniti ed Europa proprio in funzione anti cinese, anche se quest’ultimo sembra piuttosto complicato da raggiungere. Per l’Europa si tratta anche di un modo per arrivare ad una autonomia strategica almeno relativa del Vecchio continente, cercando di sganciarsi da una tutela troppo forte da parte degli Stati Uniti, senza certo abbandonare a mettere in discussione i legami politici tra le due aree. 

Sembra che Cine e UE vogliano cercare in ogni caso di firmare l’intesa prima dell’avvento alla presidenza di Joe Biden, avvento che potrebbe portare a delle possibili complicazioni; ma restano alcune partite ancora da risolvere.

Il raggiungimento probabile dell’accordo è stato reso possibile da alcune concessioni reciproche delle due parti; tra l’altro, la Cina ha allargato il numero dei settori in cui le aziende europee possono operare nel Paese a pieno titolo, mentre lo stesso ha fatto l’UE, autorizzando l’ingresso delle aziende cinesi in alcune aree di attività prima precluse. Sulla portata reale dell’accordo si potrà comunque veder meglio nel prossimo futuro.   

Potrebbe poi seguire nei prossimi anni, in ogni caso, un accordo di libero scambio. 

Le caratteristiche di base del RCEP

Dunque, il 15 novembre del 2020, dopo otto anni di complicati negoziati, avviati a suo tempo su iniziativa dei paesi dell’Asean e non della Cina o del Giappone, è stato firmato, come già accennato, il RCEP. Adesso i singoli Stati dovranno ratificare l’intesa, cosa che dovrebbe avvenire entro il gennaio 2022. 

Il patto tocca circa un terzo della popolazione mondiale e sempre un terzo del pil. Vengono eliminate più del 90% delle tariffe su molte merci, ma soltanto gradualmente, entro 20 anni dal suo avvio (Zeeshan, 2020). L’accordo ha anche l’obiettivo di combattere il protezionismo, aumentare gli investimenti e permettere un più facile movimento delle merci. 

Esso rappresenta anche il primo caso di libero scambio tra Cina, Giappone e Corea del Sud, ossia tra la prima, la seconda e la quarta economia del continente. Per altro verso, tale accordo sembra in qualche modo andare verso il superamento di alcuni tristi episodi delle guerre recenti, dall’invasione a suo tempo della Manciuria da parte del Giappone, alla susseguente guerra del Pacifico e alla colonizzazione della Corea sempre da parte del Giappone (Mok, 2020), sino alla guerra di Corea, che hanno tra l’altro lasciato delle forti animosità di Cina e Corea del Sud verso l’impero del Sol Levante.  

Peraltro si tratta di un’intesa meno vasta di quella che era originariamente prevista nel TPP. Essa riguarda infatti i beni industriali, ma solo una parte dei servizi e non l’agricoltura; non tocca altri problemi spinosi, quali la tutela della proprietà intellettuale. Sarà varata una regola di origine comune uniformandola, rendendo il commercio tra i paesi dell’accordo semplici e meno costosi.

Ricordiamo che, di recente, l’Asean ha superato l’Unione Europea diventando il più importante partner commerciale della Cina, mentre la stessa Cina è diventata sempre di recente la più importante controparte commerciale dell’UE, superando gli Stati Uniti. 

In ogni caso il patto aiuterà a formare delle catene di fornitura interne molto importanti. Così, ad esempio, nel settore del tessile-abbigliamento le risorse naturali di Australia e Nuova Zelanda, i cluster industriali cinesi, i costi di produzione ridotti dell’Asia del Sud Est, la forte domanda di beni e servizi di Giappone e Corea del Sud dovrebbero produrre delle sinergie molto significative (Peng Wensheng ed altri, 2020).

Naturalmente, potrebbero non mancare degli incidenti di percorso; l’attuale querelle commerciale tra Cina e Australia ci ricorda che le tensioni tra i vari paesi firmatari non sono scomparse. Peraltro, esse non dovrebbero riuscire a far saltare la costruzione in atto.

Lo sguardo su tre paesi 

Può essere a questo punto di qualche utilità analizzare la posizione in relazione all’accordo di tre grandi paesi, Cina, Giappone, India, anche se quest’ultima non vi partecipa. 

Lo sguardo sulla Cina

Il patto permette alla Cina di sviluppare meglio i suoi rapporti economici con Giappone e Corea del Sud, Paesi con i quali essa spera comunque di firmare presto un accordo triangolare di libero scambio. Più in generale, la Cina sta cercando di sviluppare al massimo i rapporti con i due paesi anche perché adesso con Biden teme l’emergere di una coalizione ostile tra Washington, Seul, Tokyo; con l’accordo ed altre mosse essa cerca di indebolire in ogni caso e più in generale i legami tra i tre Paesi. 

Le cose sono complicate per quanto riguarda i rapporti con il Giappone per l’esistenza di una controversia tra i due paesi sulla sovranità delle isole Senkaku (nome giapponese) /Diaoyu (nome cinese), questione che costituisce la più forte barriera ad un miglioramento sostanziale delle relazioni; con la Corea del Sud ci sono molti meno problemi. Quest’ultimo paese ha a sua volta delle controversie con il Giappone. 

Più in generale, l’Asia-Pacifico tende a diventare sempre più una zona commerciale integrata, come l’Unione Europea o gli Stati Uniti, ma su di una scala più grande. Da un altro punto di vista, l’accordo potrebbe segnare una tappa nella possibile tendenza in atto alla costruzione di grandi blocchi continentali, da quello dell’Asia-Pacifico a quello dell’Unione Europea, a quello nord-americano (Usa, Messico, Canada) e tendenzialmente anche a quello africano, continente dove è stato da poco varato un accordo di libero scambio che include un numero molto grande di paesi. 

Ma si tratterà probabilmente di blocchi certo privilegiati, ma comunque molto aperti agli scambi con l’esterno.

Lo sguardo sul Giappone

Presentato come una vittoria per la Cina, l’accordo è comunque, per molti aspetti, molto positivo anche per il Giappone, rappresentando esso una tappa importante nello sviluppo della politica commerciale di Tokyo (Messmer, 2020).

In un momento in cui l’economia del paese, da tanto tempo esangue, mostra dei segni di rivitalizzazione importanti, grazie anche ad un’incidenza molto ridotta del virus sul territorio, la firma del patto aiuterà le sue esportazioni verso la Cina ed i paesi dell’Asean. 

Da sottolineare a questo proposito che i paesi signatari del patto rappresentano già oggi il 46% delle sue esportazioni, percentuale che potrebbe nei prossimi anni aumentare. Il Giappone ha poi da tempo forti livelli di investimenti infrastrutturali nell’area dell’Asean, per un importo complessivo anche maggiore di quello cinese. 

Ma, con la firma dell’accordo, il paese si trova ora a dover giocare una partita difficile di equilibrismi tra Usa, Cina e India (paese con cui, proprio in questo periodo, sta intensificando i rapporti anche in funzione anticinese). Sembra proprio che anche Biden voglia portare avanti delle intese con il Giappone sempre in funzione anticinese.

La creazione di legami economici più forti tra Cina, Corea del Sud e Giappone potrà poi significare che la prima, dopo la rottura dei legami di importazione dagli Stati Uniti almeno nel settore delle tecnologie avanzate, sposterà la domanda di tali beni, domanda che è molto rilevante (si pensi soltanto che nel 2019 il paese ha importato chip per 301 miliardi di dollari, più dei 238 miliardi spesi per comprare petrolio greggio), verso le nazioni asiatiche e ovviamente Giappone, Corea e anche Taiwan (Yeung, 2020). 

D’altro canto, il Giappone vede l’accordo come anche un modo di avvicinarsi alle nuove vie della seta, progetto cui non ha mai formalmente aderito (Messmer, 2020).

Lo sguardo sull’India

L’India, pur sollecitata con insistenza da più parti, in particolare dal Giappone, per l’ingresso nel patto, ha preferito non aderire. 

Le possibili motivazioni di questa decisione potrebbero essere, da una parte, quella che l’India teme l’ingresso nel paese di manufatti industriali cinesi e di prodotti agricoli australiani e neozelandesi a prezzi troppo concorrenziali, mentre il trattato avrebbe portato pochi vantaggi al paese nel settore dei servizi, settore nel quale l’India ha qualche vantaggio competitivo; dall’altra, tale decisione potrebbe avere origine nella sua ostilità più generale e crescente verso il Paese di Mezzo. Comunque i sottoscrittori del patto hanno lasciato la porta aperta all’India per una futura adesione.

In ogni caso, il giorno dopo la firma dell’accordo tra i 15 paesi, il ministro degli affari esteri indiano scatenava un violento attacco contro i commerci internazionali e la globalizzazione e prometteva che il paese avrebbe continuato a portare avanti una strategia che punta sostanzialmente sull’autosufficienza (Zeeshan, 2020). Peraltro, va sottolineato che il paese in passato si è tenuto a debita distanza da molti altri accordi commerciali, a cominciare dallo stesso TPP, trattato da cui pure la Cina era esclusa.

Eppure il suo ingresso nel patto avrebbe, tra l’altro, permesso all’India di avere un posto in una tribuna dalla quale avrebbe avuto l’opportunità di esercitare in qualche modo un contrappeso nei confronti dell’egemonia cinese in Asia (Zeeshan, 2020).

Ora il Paese si trova isolato e ha probabilmente compromesso parecchio il suo potere di influenza, almeno per un certo numero di anni, in una regione nella quale l’integrazione economica è diventata una grande priorità per tutti. 

Conclusioni

La rete di relazioni economiche che si va mettendo in piedi in Asia, intorno, anche se non solo, alla Cina, rafforza la tendenza del centro del mondo per quanto riguarda i commerci e l’economia più in generale a spostarsi verso quella regione. 

Questa tendenza è anche correlata con il fatto che la guerra dei diritti di dogana di Trump nei confronti della Cina è sostanzialmente fallita. Ma più in generale, nonostante che da parte statunitense e di altri vengano messi in discussione i benefici del commercio e della globalizzazione, tali processi vanno comunque avanti, anche se con qualche mutamento nelle loro caratteristiche; non è apparentemente chiudendosi in se stessi, come fa l’India, che si potrà far fronte a tale realtà (Le Boucher, 2020). 

Né l’UE né gli Stati Uniti, le tradizionali superpotenze mondiali nel commercio internazionale, avranno alcuna voce in capitolo quando l’Asia fisserà le sue regole commerciali (Harding, Reed, 2020). Si assiste in particolare ad una riduzione dell’influenza statunitense nella regione, tanto più che anche i suoi più stretti alleati in Asia partecipano all’accordo. 

Su di un altro piano, se le divisioni politiche non metteranno un freno all’integrazione economica dei tre paesi chiave, essi tenderanno a conquistare ancora di più la scena del mondo anche sul piano tecnologico. 

D’altro canto, il grande sviluppo economico cinese non è stato sino ad ora accompagnato da un parallelo aumento nella sua influenza nel determinare le regole del gioco nei settori del commercio, della finanza, degli investimenti: questo sta ora cambiando (Rowley, 2020), mentre sino a ieri erano gli Stati Uniti che fissavano gli standard in tali aree. 

Il gioco cinese avanza in varie direzioni, dal varo qualche anno fa della Asian Infrastructure International Bank (AIIB), a quella della Belt and Road Initiative (BRI), ora in via di ripensamento, alla progressiva messa in campo della moneta elettronica pubblica, tutti pezzi di un tassello complessivo che si va con il tempo completando.  

  

Testi citati nell’articolo

-Le Boucher E., Demondialisation? Non, remondialisation, Les Echos, 4 dicembre 2020 

-Messmer P., Commerce: victoire d’étape pour le Japon, Le Monde, 20 novembre 2020

-Peng Wensheng ed altri, Opinion: RCEP trade pact’s strategic significance for China, www.caixinglobal.com, 20 novembre 2020

Harding R., Reed J., Asia-Pacific countries sign one of the largest free trade deals in history, www.ft.com, 15 novembre 2020 

-Mok W., Asia’s future as a global tech powerhouse hinge on China-Japan relations, www.scmp.com, 9 dicembre 2020

-Rowley A., With the RCEP, China finally has a seat at the trade policy table, www.scmp.com, 22 novembre 2020

-Wang Huiyao, CTPP marks a higher level of free trade, www.chinadaily.com, 30 novembre 2020 

-Zeeshan M., India’s rejection of RCEP and free trade will make it poorer and less relevant, www.scmp.com, 23 novembre 2020

-Yeung K., China’s trade pivot from US could be a boon for South Corea, Japan and   Taiwan, www.scmp.com, 1 dicembre 2020