Intervista a Luciana Castellina, estratta dall’e-book “Europa a mano armata”, sulla questione della difesa e della sicurezza europee, il rapporto storico con gli Stati Uniti e le mobilitazioni dal basso che spesso riguardano anche la politica estera e il no al riarmo.
Luciana Castellina, 96 anni, ha dedicato una vita alla politica e ai movimenti, è stata deputata in Italia e in Europa, è stata una figura di spicco del pacifismo dagli anni ’80 a oggi. Le chiediamo di parlarci dell’Europa che abbiamo e di quella che vorremmo.
L’Europa che conosciamo non ha poteri sulle questioni militari e di sicurezza, che nei Trattati europei sono lasciate alla sovranità degli Stati membri, ed è stata la NATO ad avere un ruolo dominante in questo campo, con gli Stati Uniti che decidevano tutto. Se vogliamo un’Europa che abbia poteri sulla sicurezza e la pace – anche in alternativa al dominio della NATO – i governi, i parlamenti e le democrazie nazionali avrebbero meno peso. Come si risolve questo dilemma?
Il problema è che l’Europa non solo non ha trovato un modo di risolvere la questione della difesa, ma ha portato avanti una politica che mira alla guerra, contando sul fatto che la NATO l’avrebbe difesa.
Pensiamo a come è avvenuto l’allargamento dell’Unione europea e della NATO negli anni ’90: non poteva che essere percepito come una minaccia da parte della Russia, che si è trovata circondata dalle basi militari NATO. La stessa adesione dei paesi dell’Est Europa è stata raccontata come un successo, ma non è così. La divisione e l’ingiustizia sociale ed economica al loro interno ad oggi è enorme perché la condizione che è stata loro imposta per l’adesione alla UE è stata la rapida trasformazione in un’economia di mercato con la privatizzazione di tutto quanto – a beneficio di un ceto che un tempo avremmo definito “compratore”– facendo perdere a molti casa, lavoro e servizi pubblici. Tutto questo ha preparato il terreno per le tensioni sociali, il risveglio di identità etniche, nazionalismi e separatismi. Il reddito procapite dell’Ucraina oggi è più basso, in termini reali, di quando era parte dell’Unione Sovietica. Quindi non è solo dalle questioni militari che dobbiamo partire, ma è la politica degli Stati europei a dover cambiare.
Quindi l’Europa è da reinventare, quella che abbiamo vissuto nei decenni dell’allargamento forzato non funziona più. Allora la domanda è: di quale Europa parliamo? Come immagini un’Europa capace di contrastare queste tendenze e che sappia parlare soprattutto ai giovani?
Non si può creare un’Europa di Stati se non c’è una società europea. Il merito del pacifismo degli anni ‘80 è di aver creato proprio una società europea e lo ha fatto grazie alle lotte comuni e alle reti che ha è stata in grado di creare. Finita quell’esperienza, non c’è stato nient’altro.
Le società dei diversi paesi europei sono andate ciascuna per la sua strada, pensiamo alla Brexit, alle spinte vero l’estrema destra. Non ci sono state relazioni forti capaci di costruire una società europea. Una piccola cosa che ha funzionato bene è stato il programma Erasmus per gli studenti universitari, quantomeno per quelli che avevano i mezzi per poterne usufruire. È un modello che andrebbe generalizzato a tanti altri gruppi sociali, tutti avrebbero da imparare da scambi internazionali come quelli. Perfino i gemellaggi tra le città potrebbero riavere un ruolo in questa direzione. Per ricostruire una società europea non bastano i Trattati.
Quindi non ha senso domandarsi di quale Europa parliamo solo dal punto di vista della difesa e della sicurezza perché l’Europa in questi campi non è un attore e su questo terreno non è in grado di costruirsi un’identità. L’Europa – tu dici – esisteva davvero negli anni del pacifismo, nella visione di un’Europa senza missili, senza blocchi, indipendente, autonoma.
Penso che l’Europa abbia un ruolo da svolgere in questo momento storico, ma deve caratterizzarsi come attore globale e contribuire a dar vita a un mondo in cui la guerra non sia più un’opzione.
Ci sono radici lontane, fin dagli anni ’60 quando la società europea si è impegnata moltissimo contro la guerra degli Stati Uniti in Vietnam, è stato un altro momento importante per la costruzione di una società europea. E quelle spinte sono state poi riprese dal pacifismo degli anni ’80. La guerra del Vietnam ci ha fatto capire che il mondo era più grande della sola Europa e che non possiamo continuare a pensare che esistiamo solo noi e gli Stati Uniti.
In quegli anni l’Europa del premier svedese Olof Palme e del cancelliere tedesco Willy Brandt si è allontanata dagli Stati Uniti, ha pensato a un’idea diversa del mondo, ha costruito la distensione Est-Ovest e gli accordi di Helsinki del ’75, da cui è nata poi l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE).
Negli anni ’80 c’è stata un po’ dappertutto una socialdemocrazia di forte connotato di sinistra che ha cercato di dar vita ad una Europa autonoma dai blocchi. Non solo Olaf Palme, ma Michael Foot in Inghilterra, Kraiksky in Austria, Papandreu in Grecia, in Germania Brandt e così in Olanda, Danimarca e Finlandia. Sarebbe stato possibile portare avanti l’obiettivo di una autonomia, e invece non si è fatto. Oggi l’Europa dovrebbe ripensare la propria collocazione nel mondo, impegno reso tanto più imperativo in una fase di crisi del modello capitalista ,come quella che viviamo, in cui rischiano di emergere solo violenza sociale e guerre.
Vorrei che l’Europa capisse che ha un ruolo politico, non militare, molto importante, e che il suo obiettivo deve essere quello di scongiurare la guerra. Ma per prima cosa deve perdere l’arrogante pretesa di essere il punto più alto della civiltà mondiale. Abbiamo fatto tante rivoluzioni in Europa – quella francese, quella sovietica – e se vogliamo avere un’Europa diversa dobbiamo ritrovare la forza innovativa di una nuova rivoluzione.
Solo così avremo un’Europa capace di contribuire a dare ordine a un mondo che è dominato dal disordine. Ma non dev’essere un’Europa “occidentalocentrica”, dev’essere un’Europa capace di accogliere i migranti, prendendo atto che se possono liberamente circolare i capitali debbono poter fare altrettanto gli umani e che dunque si tratta di un fenomeno inarrestabile. Eppure di fronte a tutte le sfide che abbiamo davanti a noi, le spinte dominanti in Europa vanno nella direzione opposta, verso la chiusura dei confini, le politiche reazionarie e la corsa al riarmo. L’abbiamo visto nel Parlamento Europeo, nella Commissione, ma anche a livello di governi nazionali.
Cose possono fare i movimenti per riaprire un conflitto su questi temi dentro la società europea?
Oggi non c’è un soggetto politico con la forza necessaria per farlo, per questo bisogna ricominciare a ricostruire l’Europa attraverso la società. Non ricostruiremo la democrazia a partire o dal Parlamento, ma dal basso, dalle mobilitazioni, e per farlo serve che i giovani partecipino e si sentano protagonisti. A partire magari da iniziative locali, dai comitati di quartiere. Anche da lì si può fare politica estera, iniziative di scambio, di solidarietà internazionale. L’esperienza del quartiere romano del Quarticciolo sta diventando un modello di riferimento, c’è una grande partecipazione dei giovanissimi – e non solo – si riscopre la democrazia diretta.
Che rapporto ci dev’essere tra i movimenti, la rappresentanza politica le istituzioni internazionali?
Il valore dei movimenti sta nel progettare il futuro, proporre idee che vanno al di là delle possibilità di realizzazione immediata. È a queste spinte dal basso che la politica deve rispondere.
Il movimento della pace ha intuito che può esistere un mondo diverso, è stato innovativo anche nel far politica. Questo elemento di innovazione deve essere mantenuto. Ma serve anche ripensare il modo di fare politica: non possiamo affidarci alle vecchie istituzioni nazionali ed europee, non basta delegare, è un sistema che, una volta che i canali di comunicazione fra società e istituzioni costituiti dai grandi partiti di massa si sono rinsecchiti non funziona più, che non è più credibile. I movimenti dovrebbero prendere d’assedio le istituzioni, esercitare la loro egemonia, ottenere dei risultati, spingere per cambiamenti anche negli assetti istituzionali, trovare interlocutori possibili. Pensiamo al Segretario delle Nazioni Unite, António Guterres. Se ci fosse stato un movimento più forte, forse avrebbe potuto fare di più per la pace, dall’Ucraina alla Palestina. Dovremmo valorizzare le esperienze di istituzioni che possono avere un ruolo positivo, pensiamo alla Corte Penale Internazionale su Gaza.
E in Europa?
In Europa potremmo ripartire dal processo di Helsinki e dall’OSCE per ricostruire un ordine europeo che non sia quello militare della NATO, o quello del mercato. Dentro il Parlamento europeo si potrebbe ripartire dall’esperienza degli intergruppi tematici, perché hanno un riconoscimento istituzionale nel Parlamento e permettono di mettere insieme eurodeputati appartenenti a partiti diversi, con tutti i loro contatti con organizzaizoni sociali e movimenti. Negli anni ’80 sono stati un canale privilegiato per stabilire rapporto tra i movimenti pacifisti e le istituzioni europee. E comunque dobbiamo ripartire dalla società e dalla capacità di costruire reti attraverso i confini nazionali che diano concretezza alle azioni dal basso. Gli obiettivi sono costruire un ordine di pace, reinventare la politica e nuove forme di solidarietà.
Che cosa manca ai movimenti pacifisti di oggi che c’era invece negli anni 80?
Manca un quadro di riferimento comune che sia il motore delle mobilitazioni. Allora c’era il rischio di guerra nucleare e l’installazione di nuovi missili in Europa ci univa tutti. Oggi le reazioni alle guerre in Ucraina e in Palestina sono state diverse, frammentate.
Manca un dialogo tra paesi, manca un coordinamento organizzativo. In Germania ci sono state centinaia di “marce di Pasqua” il mese scorso, ma non ne sappiamo niente in Italia, non
sappiamo bene chi sono i tedeschi che stanno scendendo in piazza in questo momento. Così come è assurdo che non siamo in contatto con i giovani che in Serbia manifestano contro il governo.
Dovremmo poterci incontrare. È quello che mi chiedono tutti quelli che vogliono fare qualche cosa. Bisogna ricucire questi rapporti, ricostruire legami, unire le nostre campagne.