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Trump, Biden e il decoupling

Gli Stati Uniti hanno scatenato una vera e propria guerra economica contro la Cina sul fronte delle tecnologie. In particolare sui chip. Biden chiede agli alleati riluttanti di seguire la stessa linea. Ma si scopre che neanche gli Usa possono fare a meno della Cina, persino per mandare avanti la sua industria bellica.

Gli Stati Uniti hanno di recente scatenato, prima con Trump, ora ancora più fortemente con Biden, una lotta su tutti i fronti per tentare di mantenere l’egemonia mondiale nei confronti della Cina, che sta conquistando posizioni sui fronti dell’economia, della tecnologia, degli armamenti. Tale lotta per l’egemonia è oggi il fatto più importante rilevabile sulla scena geopolitica internazionale e lo dovrebbe presumibilmente rimanere ancora a lungo. Quindi sembra importante mantenere accesi i riflettori sui vari aspetti della contesa. In questo quadro, vogliamo segnalare alcuni aspetti di un più o meno possibile decoupling o dei tentativi al riguardo tra le due economie, riprendendo nella sostanza alcune notizie apparse di recente sulla stampa internazionale. 

Ricordiamo che abbiamo già affrontato il tema in passato e più recentemente in un articolo apparso su questo stesso sito il 14 novembre 2022 e relativo al caso tedesco, scritto nel quale indichiamo come il paese teutonico e le sue grandi imprese si mostrino piuttosto ostili al decoupling di Biden, anche se all’interno del paese non manca certo un partito americano a livello politico ed economico. Ma l’ostilità tedesca non appare la sola questione che si oppone alla strategia Usa. 

Il commercio Usa-Cina dopo Trump

Negli ultimi decenni il commercio internazionale ha mostrato una forte dinamica, crescendo normalmente ogni anno all’incirca il doppio dell’aumento del Pil. Più di recente, tale crescita ha teso a rallentare e l’aumento del commercio si è mosso più o meno in sintonia con quello del Pil, sia pure con oscillazioni anche forti di anno in anno, a causa in particolare dell’effetto della pandemia da Covid-19. Il rallentamento recente e di fondo degli scambi appare collegato, più in generale, ad un insieme di fattori sui quali non insistiamo. 

Va sottolineato come la dinamica di crescita del commercio estero della Cina sia sostanzialmente sempre stata maggiore o molto maggiore di quella mondiale e quindi come la sua quota di mercato sul totale sia cresciuta costantemente sino ad oggi, sino a farne il primo paese a livello mondiale in tale campo, prima degli Stati Uniti e della Germania, che seguono subito dopo nella classifica degli ultimi anni. 

Così, se guardiamo al comparto delle sole merci, la quota controllata del paese asiatico si collocava ormai nel 2021 intorno al 15% del totale mondiale. Ancora nei primi nove mesi del 2022 l’insieme del commercio cinese con l’estero è cresciuto dell’8,7%, anche se si notano ormai chiaramente i segni di un rallentamento nella sua espansione. 

Tale rallentamento appare legato a molteplici fattori, quali l’influenza della politica di stretto controllo del Covid nel paese, il rallentamento della crescita del suo Pil – crescita che appare in genere avere un andamento simile a quella del commercio – la progressiva internalizzazione delle catene di fornitura relative alle produzioni da parte del paese asiatico, i tentativi di decoupling, infine, da parte statunitense.

A proposito di quest’ultimo tema può essere utile esaminare un poco più da vicino i risultati degli sforzi compiuti da Trump e poi da Biden per frenare l’espansione commerciale cinese. Lo fa ad esempio The Economist in un articolo recente (The Economist, 2022, a). 

La rivista riporta i dati ufficiali statunitensi pubblicati nel novembre 2022 che riferiscono come la quota cinese delle importazioni statunitensi sia scesa tra il 2018 e il 2021 di quattro punti, dal 21% al 17%. La Cina rappresentava circa la metà delle esportazioni asiatiche nel paese, mentre ora rappresenta soltanto poco più di circa un terzo. Il calo si è fatto sentire in particolare per le merci maggiormente colpite dalle tariffe di Trump, mentre in quelle non toccate dai provvedimenti si registra ancora una rilevante espansione. Parallelamente, d’altro canto, la Cina importa meno merci dagli Stati Uniti. 

Lo spazio perso dalla Cina non è stato coperto da produttori statunitensi, ma è stato subito occupato da altri paesi asiatici, in particolare da Vietnam, Bangladesh, Tailandia, India, Indonesia. Si potrebbe quindi concluderne che la strategia di Trump abbia pagato. Ma in realtà molte merci cinesi che prima arrivavano direttamente negli Stati Uniti ora compiono un doppio viaggio, passando per altri paesi prima di sbarcare nella loro destinazione finale e quindi queste non figurano come provenienti dalla Cina. Bisogna sottolineare, come fa l’Economist, che molti dei componenti utilizzati in Vietnam o in India e negli altri paesi asiatici per produrre dei beni poi esportati negli Usa provengano sempre dalla Cina, compensando quindi quanto ufficialmente perduto dal paese, anche se Pechino vede ridursi un poco il suo valore aggiunto a favore dei paesi di transito (The Economist, 2022, a). 

Biden e i chip

Con i suoi Chip and Science Act e Inflation Reduction Act gli Stati Uniti hanno scatenato una vera e propria pesantissima guerra economica contro la Cina, in particolare sul fronte delle tecnologie. Nella sostanza verrebbe proibita ogni collaborazione con il paese asiatico sul fronte dei chip, delle vetture elettriche e delle relative batterie, nonché delle energie rinnovabili, mentre si rinnovano le pressioni sugli alleati perché seguano la linea di Washington.  

Ma appare diffuso un certo scetticismo sul successo di tali iniziative. Nel campo delle vetture elettriche e delle batterie la Cina controlla il 60% del mercato mondiale e su quello dei pannelli solari il 70%, per cui appare molto difficile portare avanti i piani ambientali senza la Cina. Un decoupling di successo richiederebbe forse una decina di anni e grandi investimenti (Escande, 2022).

Il cuore della lotta riguarda i chip. Un biglietto di presentazione come risposta cinese al recente blocco Usa è stato l’annuncio di qualche settimana fa da parte della cinese YTMC che un suo nuovo chip di memoria sarebbe più avanzato di quelli della migliore concorrenza coreana che domina ad oggi il settore. Peraltro, bisogna immaginare che qualche difficoltà le nuove disposizioni porranno al paese asiatico, anche se nel lungo termine esse tenderanno a spronare le imprese e i politici del paese ad accelerare gli sforzi in vista del raggiungimento di una rilevante autonomia nel settore.

Biden ha cercato il sostegno dei suoi alleati in questa guerra, ma essi, da Singapore al Giappone, dalla Corea del Sud a Taiwan, sia pure con diverse sfumature, sono piuttosto riluttanti a seguire. In diversi, pur essendo fedeli alleati degli Stati Uniti, non hanno alcun desiderio, al contrario degli Usa, di una guerra manichea delle superpotenze; per altro verso, hanno dei legami economici profondi con la Cina che non avrebbero nessuna intenzione di rompere (The Economist, 2022, b). Così ad esempio il 60% dei chip che Taiwan produce sono venduti alla Cina. 

La Olandese ASML, che controlla il mercato mondiale delle macchine più sofisticate esistenti al mondo per la produzione dei chip, non accetta la richiesta di Biden di bloccare la vendita di quelle meno sofisticate alla Cina, sostenuta in questo dal suo governo; un atteggiamento per molti aspetti simile mantiene il governo giapponese, appoggiando in questo l’orientamento dei suoi produttori di macchinario per chip, che vendono un terzo dei loro prodotti in Cina, mentre quelli statunitensi stanno individuando delle vie per in qualche modo circonvenire le regole del governo e comunque stanno cercando di spingere il governo a modificarle. Si calcola in effetti che se le imprese americane del settore smettessero del tutto di vendere i loro prodotti in Cina, il loro fatturato si ridurrebbe del 37%. Il governo Usa ha dovuto concedere alle imprese coreane un anno di respiro sulle restrizioni alla Cina; e così i coreani hanno promesso di vendere ai cinesi anche i chip più avanzati (Goldman, 2022). 

L’atteggiamento cinese appare, almeno ufficialmente, molto pragmatico. Così un dirigente di Baidu, mentre da una parte afferma che le misure Usa avranno un impatto limitato sulle operazioni dell’azienda, dichiara che tali misure offrono delle buone opportunità di crescita alla imprese cinesi del settore. Il manager di un’altra impresa cinese dichiara che le tecnologie per le applicazioni avanzate tipiche della quarta rivoluzione industriale non hanno bisogno dei chip più sofisticati (Goldman, 2022).

I problemi del settore militare Usa

Nella caccia agli untori cinesi sembra che si pongano problemi di forniture tecnologiche anche in ambito militare (Honrada, 2022).  Il Pentagono ha scoperto che nei suoi caccia F-35 erano inseriti dei magneti prodotti nel paese asiatico; ma non si tratta del solo caso di infiltrazione nelle apparecchiature militari statunitensi. Sempre di recente si è rilevato in effetti che la Cina produce l’80% del cobalto mondiale, che viene utilizzato negli Stati Uniti nella tecnologia stealth, nella guerra elettronica e in certe munizioni. Un discorso analogo si può fare per un altro materiale sensibile: il samario. Persino dei microchip cinesi si ritrovano in alcune applicazioni sensibili. Per altro verso, appare praticamente impossibile controllare tutti i componenti inseriti nelle miriadi di catene di fornitura cui fa riferimento il sistema militare statunitense. Si sta ora cercando di correre ai ripari.

Conclusioni

Il tentativo Usa di bloccare a livello economico e politico l’ascesa della Cina, in particolare sul fronte tecnologico, anche se registra qualche successo, appare complessivamente pieno di difficoltà. L’esito del conflitto appare per alcuni versi incerto, ma pensiamo, e non siamo i soli, che mentre l’offensiva di Biden può creare qualche difficoltà alla Cina nel breve termine, nel medio-lungo periodo il paese è per molti aspetti in grado di sormontarle ed uscire rafforzato dal conflitto. Peraltro bisogna immaginare che tra qualche tempo Biden cercherà di appesantire le misure esercitando maggiori pressioni sui suoi alleati.  

Intanto si delinea un altro ed imprevisto tipo di decoupling: Biden, in particolare con il suo Inflation Reduction Act che stanzia 738 miliardi di dollari per un vasto piano economico, ripaga in maniera esemplare gli alleati europei del loro sostegno alla politica statunitense sulla guerra in Ucraina. In effetti solo le auto elettriche e le relative batterie, come i prodotti per l’energia eolica e solare e per il nucleare prodotte negli Usa hanno diritto ai sussidi (Escande, 2022). Gli europei stanno protestando debolmente e al momento non riescono a mettersi d’accordo per una risposta adeguata agli statunitensi.

Questo sviluppo, unito al forte aumento dei prezzi dell’energia e alla difficoltà di approvvigionamento nel nostro continente (tra l’altro Biden ci vende il gas Usa ad un prezzo di quattro volte tanto quello prevalente negli Stati Uniti) sta spingendo i grandi gruppi europei a delocalizzare i loro investimenti verso gli Stati Uniti, dove trovano sussidi e bassi prezzi dell’energia e/o verso la Cina, dove è presente un enorme mercato nella gran parte dei settori industriali e dove di nuovo sono facilmente reperibili e a costi moderati tutti i tipi di energia.   

Testi citati nell’articolo

-Escande P., Transition ou industrie, le dilemme, Le Monde, 3 dicembre 2022

– Goldman D. P., US tech war shows signs of crumbling, www.asiatimes.com, 27 novembre 2022 

-Honrada G., China decoupling could shoot Pentagon in the foot, www.asiatimes.com, 21 settembre 2022 

The Economist, Fresh factories, 12 novembre 2022, a

The Economist, When the chips are down, 3 dicembre 2022, b