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Il REI è un passo avanti ma molto resta da fare

Sbilanciamo le elezioni/Complessivamente, lo spazio delle politiche contro la povertà nell’architettura complessiva della politica sociale è ancora insufficiente. L’universalismo dovrebbe esserne il principio cardine

Adombrato dalla legge 208 del 28 dicembre 2015, delineato nella legge delega 33 del 15 marzo 2017 e specificato dal decreto legislativo 147 del 15 settembre 2017, il Reddito d’Inclusione è entrato in vigore il 1 gennaio del 2018. Molto si è già scritto su tale misura, anche su Sbilanciamoci (E. Monticelli, Reddito d’inclusione arriva il via libera). In questa sede, vorrei a) brevemente riprenderne gli aspetti salienti, concentrando l’attenzione su alcuni elementi più trascurati e sulle ultime modifiche apportate dalla legge di Stabilità per il 2018; b) presentare quelli che mi paiono i limiti principali e c) proporre alcuni interventi migliorativi.

Vediamo innanzitutto cosa è il REI. Dal 1 gennaio 2018 l’Italia ha finalmente un programma nazionale e strutturale di contrasto alla povertà, il Reddito d’Inclusione (REI) che le permette di abbandonare la posizione di eccezionalità che aveva in sede europea. Da febbraio 2017, la stessa Grecia, paese con cui condividevamo l’eccezionalità, ha, infatti, introdotto uno schema nazionale di sostegno al reddito dei più poveri.

Il REI è inserito nei livelli essenziali delle prestazioni che, ai sensi dell’art. 117 della Costituzione, dovrebbero essere garantite a tutti. A oggi, è ancora confinato ad alcune categorie di poveri (i nuclei familiari con minori, donne in gravidanza, disabili e disoccupati ultra cinquantacinquenni). E’ delle ultime settimane l’annuncio dell’estensione a tutti i poveri dal prossimo 1 luglio. Le risorse disponibili, seppure aumentate di 300 milioni dalla legge di stabilità per il 2018, che ha portato a 2,059 miliardi di euro la dotazione del Fondo contro la Povertà, appaiono, tuttavia, del tutto insufficienti allo scopo.

Poveri, per il REI, sono i nuclei con reddito personale non superiore a 3000 euro, un ISEE non superiore a 6000, un patrimonio immobiliare diverso dalla casa di abitazione non superiore a 20.000 e un reddito mobiliare non superiore a 6000. Il reddito personale è rilevato dalla componente reddituale dell’ISEE, l’Indicatore della Situazione Reddituale (IRS): è al netto delle spese per l’affitto (fino ad un massimo di 7.000 euro, aumentabile di 500 euro per ogni figlio convivente dopo il secondo) e del 20% del reddito da lavoro dipendente. È, altresì, riparametrato sulla base delle scale di equivalenza ISEE per tenere conto della diversa numerosità familiare (i pesi sono 1,57; 2,04; 2,46 e 2,85 per nuclei rispettivamente di due, tre, quattro e cinque persone). Ciò significa, ad esempio, che la soglia di 3000 euro per una persona sola corrisponde a una soglia di 6120 euro per una famiglia di tre persone e a una di 8550 euro per una famiglia di cinque persone. Il valore del patrimonio immobiliare è, invece, lo stesso per tutti i nuclei, mentre quello del patrimonio sale a 8.000 per la coppia e 10.000 per nuclei familiari più numerosi.

Il beneficio è composto di due parti: un’erogazione monetaria e un’erogazione di servizi. L’erogazione monetaria dovrebbe portare alla soglia, equivalendo alla differenza fra soglia e redditi detenuti. A oggi, per i vincoli di bilancio, la soglia è ridotta del 25%: tornando agli esempi sopra fatti, il trasferimento massimo (in presenza di reddito zero) è 187,5 euro al mese per una persona sola e 382,5 euro, sempre al mese, per un nucleo di tre persone. La recente legge di stabilità ha innalzato il valore massimo, per nuclei di cinque o più persone, a 534,37. In precedenza, coincideva con il valore dell’assegno sociale, ossia, 485,41 euro.

Si può accedere al REI per un massimo di diciotto mesi. Dopo una pausa, senza copertura, di sei mesi, il REI può essere rinnovato per un altro anno.

L’accompagnamento dell’erogazione monetaria a quello di servizi rappresenta uno dei punti qualificanti della misura. Come affermato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, “il sostegno economico può generare “trappole della povertà”: per evitarle è importante agire sulle cause della povertà con una progettazione personalizzata che individui i bisogni della famiglia, predisponga interventi appropriati, l’accompagni verso l’autonomia”. In entrambi i casi, comunque, sono centrali la presa in carico da parte dell’amministrazione e la disponibilità di servizi in rete – i servizi sociali, quelli socio-sanitari, i centri per l’impiego e la scuola –. È dovere dell’amministrazione pubblica, con l’aiuto del terzo settore, assicurare presa in carico e servizi ed è dovere dei percettori del REI (di tutti i membri del nucleo) assolvere i compiti assegnati, pena sanzioni nella forma della riduzione/cancellazione del trasferimento. Qualora la povertà sia imputabile a sola carenza di lavoro, anziché a condizioni più complessive di marginalizzazione, il progetto personalizzato è sostituito dal patto di servizio contemplato dal Decreto Legislativo 150/2015, attuativo del Jobs Act. Anche in tal caso, lo schema di attivazione resta lo stesso. I Servizi per l’Impiego sono responsabili della presa in carico, e con essa della fornitura di servizi, e i beneficiari devono soddisfare gli impegni previsti nel percorso di attivazione. L’unica differenza è l’estensione dell’ambito di applicazione, che è limitata all’accesso al lavoro. Tornando alle parole del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, il REI “non è quindi una misura assistenzialistica, un beneficio economico «passivo», ma una concreta opportunità di riscatto”.

Al potenziamento dei servizi il REI vincola almeno il 15% delle risorse complessive: circa 300 milioni di euro nel 2018. Ad esse, va aggiunto, per i prossimi anni, 1 miliardo circa di euro del PON Inclusione (2014-2020): 750 milioni destinati al rafforzamento dei servizi sociali per la presa in carico, i restanti a interventi diretti all’inserimento lavorativo (risorse ulteriori potranno pervenire dai POR). I Centri per l’impiego dovrebbero ricevere 600 nuovi assunti specificamente dedicati ai beneficiari del REI.

Procediamo ora con l’individuazione di tre rilievi critici che riguardano il Rei.

L’inadeguatezza dei trasferimenti monetari. Il REI non raggiunge tutti i poveri e, anche qualora li raggiungesse, eroga importi largamente inferiori a quanto necessario al contrasto della povertà assoluta (e relativa). Contribuisce, dunque, alla riduzione dell’intensità della povertà svantaggio piuttosto che a quella dell’incidenza.

Si consideri un individuo singolo. Secondo l’ISTAT, la sua soglia di povertà assoluta oscilla fra 554,03 e 817,56 euro (secondo il luogo di residenza). Il REI assicura solo 187,5 euro. Si consideri poi una famiglia con più di cinque persone: appare difficile giustificare che essa riceva un beneficio uguale a quello di famiglie di cinque persone. Peraltro, a queste tipologie di famiglie il REI offre 534,37, quando la soglia di povertà assoluta per una famiglia di cinque persone può arrivare a quasi 2000 euro (a seconda, di nuovo, del luogo di residenza e dell’età dei figli). Certamente, le soglie Istat potrebbero essere insoddisfacenti. Ma, allora occorre una discussione pubblica su quanto dovrebbe essere assicurato, la quale è del tutto mancata nella fase di definizione del REI. Ricordo come persino un paese povero come la Grecia ha, per le famiglie numerose, un tetto massimo superiore: 900 euro. Il REI, poi, neppure prevede meccanismi d’indicizzazione delle soglie. La mancata indicizzazione ha rappresentato una delle cause principali in Europa dell’erosione, negli scorsi decenni, della protezione fornita dai redditi minimi esistenti.

La visione dell’attivazione. Promuovere l’accesso al lavoro e alle più complessive opportunità fondamentali è certamente condivisibile com’è condivisibile l’attenzione posta dal REI ai servizi quali strumento di attivazione. L’Italia soffre, poi, di un forte squilibrio nella spesa sociale a danno dei servizi: solo ¼ della spesa sociale è a essi destinata, contro una media UE che si aggira attorno a 1/3 (in Danimarca raggiunge il 40% e in Germania il 38%). Dunque, ben venga un’attenzione all’attivazione e, con essa, ai servizi.

Il REI, però, aggiunge alcuni tasselli nella declinazione dell’attivazione, che inducono perplessità. In primo luogo, la connessione postulata fra progettazione personalizzata e raggiungimento dell’attivazione trascura il ruolo dirimente del contesto esterno. Certo, la necessità di servizi è riconosciuta. Rimane, tuttavia, sottovalutata la questione della domanda di lavoro, come se l’accesso al lavoro dipendesse unicamente dalle qualifiche personali. Trascura, altresì, le difficoltà di attivazione per soggetti cresciuti in condizioni di deprivazione. Non a caso, le percentuali di uscita dagli schemi di reddito minimo in Europa si attestano attorno al 25% anche in paesi con economie e sistemi di welfare dei servizi più sviluppati dei nostri. Al contrario, le situazioni più diffuse sono cicli di uscite temporanee e ricadute. Peraltro, neppure uscire stabilmente dal REI permetterebbe l’uscita dalla povertà, data la bassezza delle soglie.

In secondo luogo, genera perplessità la connessione fra attivazione e autonomia. Prescindo dall’ambiguità del riferimento all’autonomia. L’autonomia concerne l’indipendenza e l’autenticità dei desideri, le quali possono essere presenti in qualsiasi contesto, addirittura in prigione, come nel noto caso di Socrate. Nel REI, il riferimento è soprattutto alla cessazione della dipendenza dagli altri.

Anche utilizzando il riferimento alla dipendenza dagli altri, il problema sta esattamente nella connessione. Da un lato, anche il mercato è regno della dipendenza e, con essa, degli accidenti della domanda e dell’offerta. I rapporti di lavoro dipendente, come denota la qualificazione stessa, sanciscono poi una dipendenza ulteriore, che è ancora più drammatizzata nei lavori disponibili a chi è meno specializzato, come sono molti poveri. Uscire dai trasferimenti non ci porta, dunque, nel regno dell’indipendenza. Al contempo, perché valutare negativamente la dipendenza dai trasferimenti? La reciproca dipendenza è al cuore delle assicurazioni private, dove i meno fortunati dipendono dai premi pagati dai più fortunati. Ancora, la dipendenza dai trasferimenti potrebbe essa stessa favorire l’attivazione. Non siamo forse disposti a rischiare di più se abbiamo un reddito o a cooperare di più se ci sentiamo ben trattati? E, ancora, avere reddito stimola la domanda e, con essa, la crescita.

In terzo luogo, all’attivazione come opportunità il REI aggiunge l’attivazione come obbligo, imponendo la riduzione/sospensione del trasferimento monetario in presenza di violazione dei doveri sanciti nel progetto personalizzato o nel patto di servizio. L’aggiunta non è di poco conto. Il reddito è de facto posto fuori dai diritti fondamentali. Diventa la contropartita di un comportamento, questione di do ut des. I diritti fondamentali, invece, rappresentano uno status di non contrattabilità, a prescindere dai comportamenti. L’obbligo riflette, altresì, una visione del povero come cittadino di seconda classe, che va obbligato a lavorare (a differenza di “noi”), nella sottovalutazione delle responsabilità sociali nella creazione della povertà, riguardino esse l’uguaglianza di opportunità intergenerazionale e/o la disponibilità di lavoro decente. Al riguardo, va ricordata la responsabilità anche di datori di lavoro che pagano poco (esattamente, in opposizione alla visione del povero irresponsabile). L’obbligo al lavoro potrebbe altresì danneggiare il potere di contrattazione dei poveri che già lavorano, aumentando l’offerta dei lavoratori con i quali competere. Il che vale anche per l’imposizione di lavori di utilità sociale non remunerati che potrebbero spiazzare lavori simili remunerati. Ancora, i progetti di personalizzazione e i patti di servizio sanciscono un rapporto asimmetrico fra operatori sociali e beneficiari (diversamente dal patto ugualitario al cuore della prospettiva del contratto sociale). Certo, il ruolo degli operatori sociali è oggi spesso mortificato. Essi hanno comunque l’ultima parola nei confronti dei poveri. Il che implica rischi d’interferenza, di abuso di potere o di mera discrezionalità.

Complessivamente, lo spazio delle politiche contro la povertà nell’architettura complessiva della politica sociale è ancora insufficiente. Sentiamo spesso affermare dai difensori del REI che la vera sfida oggi è sconfiggere la povertà, affinché nessuno resti indietro. Vero. Nessuna soglia ancorché più elevata di quelle attuali sarà, tuttavia, mai in grado di includere tutti i poveri. Qualcuno sempre non rientrerà perché ha un euro in più e magari un bisogno non osservato, con la produzione conseguente di iniquità orizzontali e di rischi di insostenibilità politica di misure selettive adeguate. L’universalismo, funge, dunque, da rete, oltre alle altre importanti funzioni di strumento di star bene per tutti, date le tante carenze dei mercati assicurativi privati, e di cittadinanza.

Che Fare?

Dai rilievi critici espressi derivano le tre proposte seguenti.

  • Assicurare un finanziamento del REI adeguato a superare la categorialità dei beneficiari, portare le soglie almeno a livelli europei e assicurare retribuzioni decenti per gli operatori sociali, oggi penalizzati dalla forte discrepanza fra valore del lavoro prodotto e remunerazione. Certo, esistono vincoli di bilancio. Si sono, tuttavia, destinati quasi 9 miliardi al bonus 80 euro. Si tratta di definire le priorità.
  • Adottare una nuova visione dell’attivazione basata sull’indebolimento della dimensione di obbligo e sul potenziamento dell’offerta strutturale di opportunità. Contro la visione dei trasferimenti monetari come misure passive, il reddito va difeso quale oggetto di diritto fondamentale. Se si è in grado di lavorare si lavora; altrimenti, si ha diritto al reddito senza richieste di pagare pegno e senza interruzioni, alla luce anche delle (ir-)responsabilità collettive nella produzione di povertà.Al contempo, vanno potenziati non solo la dimensione di opportunità dell’attivazione, ma gli interventi strutturali a favore di tale obiettivo. Occorre, in altri termini, spostare il focus dalla personalizzazione delle politiche al contesto socio-economico produttore di povertà. Oltre al potenziamento dei servizi, ciò comporta il raccordo con politiche del lavoro capaci di assicurare occupazioni decenti. Il che non implica disattenzione alle differenze fra soggetti. L’attenzione alla persona non può, tuttavia, prescindere dall’attenzione all’offerta strutturale di opportunità.
  • Alleggerire i compiti del REI attraverso un rilancio dell’universalismo. Date le difficoltà dei trasferimenti selettivi, il REI dovrebbe rappresentare il tassello finale a integrazione di politiche il più possibile universali (targeting within universalism). In questa prospettiva, diventa centrale la realizzazione a) di una misura universale (quasi-universale) di sostegno al costo dei figli, che oltre a poggiare su molte altre ragioni, ridurrebbe la povertà e, con essa, i compiti del REI e b) di un’organizzazione dei servizi universali essa stessa più attenta all’uguaglianza di opportunità di tutti, compresi i più svantaggiati. Detto in altri termini, l’attenzione agli svantaggiati deve essa stessa essere perseguita all’interno dei servizi universali.