Come restituire ai cittadini nazionali, che sono però già europei, il potere costituente. Questa è l’impasse che devono affrontare gli attori ed i movimenti della sinistra critica europea
Per la prima volta dalla firma del Trattato di Roma nel 1957, le spinte verso la disintegrazione prevalgono sulla costruzione di “una unione sempre più stretta fra i popoli europei”. Sessant’anni dopo, il famoso incipit del Trattato di Roma è messo a dura prova da una serie di fattori che, ormai, non sono più minoritari. Parlo della crisi economica e dell’incapacità comunitaria nella gestione dei flussi migratori, che hanno mostrato divisioni crescenti fra gli stati membri e fra i cittadini all’interno dei singoli paesi. I due referendum recenti sulla direzione dell’integrazione europea, quello inglese del 26 giugno 2016 e quello greco del 5 luglio 2015, hanno portato allo scoperto la posizione di cittadini e di paesi che, da destra e da sinistra, si sentono minacciati dal progetto europeo. A questo bisogna aggiungere la crescita costante dei partiti di destra estrema e nazionalisti in Europa, crescita che va di pari passo con il rafforzarsi delle posizioni islamofobe e razziste nelle società del vecchio continente. L’Europa è fragile e accerchiata, e l’ideologia liberale prima, neoliberale poi, che hanno dominato il progetto di integrazione, non sono più sufficienti a contrastare il ritorno dei nazionalismi e la protezione degli interessi di classe, di genere e di razza.
I Trattati raccontano un progresso inevitabile verso un futuro di prosperità economica, di pace, di stabilità e di eguaglianza tra i popoli europei. Oggi, questa narrazione teleologica non riesce più a creare un orizzonte politico per i cittadini europei. Tra gli obiettivi del Trattato del 1957, vi è quello di “rafforzare l’unità delle loro (dei paesi membri) economie e di assicurarne lo sviluppo armonioso riducendo le disparità fra le differenti regioni e il ritardo di quelle meno favorite”. Complice la globalizzazione neoliberale che ha preso piede dal 1989 in poi anche in Europa, le differenze fra le regioni e fra gli stati membri sono aumentate in modo vertiginoso. Per esempio, come riconosciuto dal Parlamento europeo in uno studio recente, dall’inizio della crisi nel 2008 ad oggi, il reddito dei cittadini greci è diminuito di circa un quarto (Parlamento europeo, 2016, Unemployment and poverty, Greece and Other (Post)Programme Countries). I programmi di aggiustamento strutturale imposti dalla Troika al paese hanno contribuito in modo significativo all’accrescersi delle diseguaglianze.
Di fronte a questa divergenza nelle condizioni di vita tra cittadini e tra stati membri, la narrazione ottimista dei Trattati appare oggi come un’utopia. Ecco perché il Presidente francese Francois Hollande dichiara che il modello dell’Europa a più velocità è l’unico in grado di offrire una prospettiva al progetto di integrazione. L’Europa non è più uno spazio uguale e ancor meno uno spazio in cui l’uguaglianza è una prospettiva essenziale. L’idea di un’Europa a diverse velocità potrebbe essere uno dei risultati del vertice che si terrà a Roma per commemorare l’anniversario dei Trattati, come auspicato da Angela Merkel. Tuttavia, questo progetto continua a non tenere conto del profondo malessere espresso dai cittadini europei nei confronti del progetto europeo almeno dal 2004 ad oggi. Il “no” francese ed olandese al Trattato costituzionale è stato il primo segno che qualcosa non funzionava più nella teleologia europea. Il “no” greco del luglio 2015 alle condizioni imposte dalla Commissione e dalla Banca centrale europea per gli aiuti europei è stato un altro segnale molto forte, anche questo ignorato da Bruxelles. Oggi sembra difficile assorbire anche lo shock della Brexit.
In mancanza di una risposta al disagio sociale e politico crescente, queste spinte sono catturate dai partiti di destra, euroscettici, e dai movimenti populisti.
Per capire il momento in cui siamo, bisogna partire da una considerazione: non è solo la crisi economica mondiale che ha portato ad una divaricazione delle ineguaglianze tra stati membri e all’interno di essi. Al contrario, la ristrutturazione dello spazio territoriale europeo ha portato ad una maggiore esposizione dell’Europa in generale e dell’eurozona in particolare alla crisi economica. I fattori di questo sviluppo diseguale dello spazio europeo sono da una parte da ricercarsi nel ritiro dello stato dalle politiche sociali ed economiche, di sostegno all’occupazione e alle classi popolari e medie. Vi sono poi fattori politici su scala europea: gli spazi politici nazionali sono stati ridefiniti dalle politiche europee e dalla creazione di un mercato unico e di nuove forme di differenziazione che oltrepassano le assi est/ovest o nord/sud. La libera circolazione in Europa ne è un chiaro esempio. La mobilità dei cittadini è una mobilità diseguale: chi, dai paesi dell’Europa del sud, si sposta per cercare lavoro verso quelli del nord non lo fa nelle stesse condizioni di chi usufruisce della libera circolazione per scelta. Le politiche di creazione del mercato unico hanno favorito la circolazione dei capitali, dei servizi e della manodopera. Tuttavia; l’incontro tra le politiche pubbliche europee ed i mercati del lavoro nazionali ha prodotto una trasformazione di questi ultimi, reinserendoli in un tessuto territoriale, giuridico e sociale ristrutturato su scala continentale.
La cittadinanza europea, abbozzata dal Trattato di Roma e realizzata da quello di Maastricht, esiste, ma per ora in larga parte in forma passiva. Le condizioni materiali dell’essere cittadini – il reddito, l’inclusione, il lavoro – sono oggi ridefinite su scala europea. Il voto greco prima e quello inglese poi ci dicono solo una cosa: che una volta modificata nel profondo la struttura stessa della partecipazione politica, intervenendo sui rapporti materiali che ci rendono soggetti politici, si pone il problema dell’emancipazione. In che modo ci si può riappropriare della libertà di agire sulle condizioni strutturali dell’essere un soggetto politico in uno spazio transnazionale diseguale?
Questa è l’impasse che devono affrontare gli attori ed i movimenti della sinistra critica europea. Come restituire ai cittadini nazionali, che sono però già europei, il potere costituente. Dopo il referendum greco, Syriza è rimasta intrappolata nella rete di uno spazio politico europeo in cui i rapporti di forza sono anche rapporti territoriali diseguali. Il Labour inglese si confronta con un’impasse speculare: riprendere il filo delle politiche sociali, restituire un piano di eguaglianza ai cittadini, senza però poter intervenire sul livello continentale, quello in cui gli assi che strutturano le differenze sono decisi e messi in atto. Se la rinazionalizzazione della sfera politica non è un’opzione, anche perché si rischia di alimentare gli argomenti della destra populista e xenofoba, il liberalismo cosmopolita, anche progressista, non è l’alternativa. Non si può più continuare ad ignorare la voce di chi è stato esposto solo ai rischi dell’integrazione europea e della transnazionalizzazione dell’economia, senza riceverne alcun beneficio. Non si può più ignorare che l’ultima fase dell’integrazione europea, quella neoliberale, funziona sulla produzione di differenze su scala continentale. La sfida per la sinistra europea è quella di trovare una soluzione per uscire da questa impasse.