Competitività, commercio estero, specializzazione produttiva, tecnologia. Una giornata di studio a Roma mette sotto la lente il declino della produttività italiana
La crisi economica internazionale ha interrotto una fase di lenta ripresa delle vendite all’estero dei prodotti dell’industria italiana. Secondo l’Istat, nel primo bimestre del 2009 il numero di operatori attivi all’export è diminuito del 7,1 % rispetto allo stesso periodo del 2008 (in particolare è diminuito il numero degli esportatori extra – Ue). Dall’inizio del 2007 alla fine di febbraio 2009, la perdita di valore delle esportazioni è stata del 22,5%, con una profonda accentuazione nel 2008; sono state le grandi imprese esportatrici, il cui contributo all’export totale è passato dal 56,8% al 52,1%, a contribuire maggiormente alla flessione.
Il quadro desolante descrive una condizione ormai nota. Secondo recenti dati della Banca d’Italia, dalla fine del 2000, l’andamento dell’indicatore di competitività delle industrie italiane, misurato sulla base dei prezzi alla produzione, è diminuito di 15 punti percentuali. Un andamento che, pur seguendo quello degli altri principali paesi europei, si è acuito negli ultimi mesi (circa 2,7 punti percentuali dall’inizio dell’anno), annullando il recupero sugli esportatori tedeschi che si era verificato ad inizio 2009.
Il tema della competitività esterna dell’Italia è un argomento lungamente dibattuto nell’ultimo decennio. La spiegazione tradizionale tende ad attribuire la bassa competitività dell’industria al continuo apprezzamento dell’euro. Se si guarda però oltre le conseguenze della globalizzazione e della moneta unica, sono la struttura produttiva del paese, la sua specializzazione settoriale, il suo dinamismo tecnologico a delinearne gran parte delle difficoltà.
Di questo si è parlato lo scorso 25 novembre a Roma, al convegno “Italy’s External Competitiveness” patrocinato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e dall’Osservatorio Riccardo Faini.
La relazione fra settore manifatturiero e settore dei servizi è stato uno dei temi principali del convegno. Secondo Paolo Guerrieri dell’Università di Tor Vergata, più che ad una riduzione del peso del settore manifatturiero sull’economia del paese, assistiamo oggi ad un processo, comune alle economie industrializzate, di integrazione del settore dei servizi nel comparto manifatturiero (dove l’ICT, Information and Communication Technologies è il principale canale di propagazione). Nell’ambito di questa trasformazione, la complementarietà tra investimenti e competenze dei lavoratori risulta un fattore decisivo per la crescita. La diffusione delle nuove tecnologie, come mostrano i dati Eurostat sulla diffusione della banda larga in Italia, è ancora in ritardo ed è necessario affrontare tempestivamente il problema dell’accesso agli strumenti informatici. L’istruzione – si sostiene – deve essere al centro di ogni politica di sviluppo, riducendo i tempi di acquisizione delle competenze necessarie alla crescita tecnologica del paese.
Se l’offerta dei servizi si allarga e vengono messe in atto nuove strategie di penetrazione dei mercati basate sui servizi al cliente (la distinzione fra beni commerciabili e non commerciabili sarà forse presto abbattuta dallo sviluppo delle nuove tecnologie), è importante limitare la presenza di barriere all’entrata nel settore dei servizi ed affrontare il nodo dell’arretratezza della pubblica amministrazione.
La struttura produttiva del sistema economico italiano ha invece un ruolo chiave secondo Salvatore Rossi della Banca d’Italia e Patrizio Bianchi dell’Università di Ferrara. Dieci anni di caduta ininterrotta della competitività hanno infatti prodotto capacità competitive eterogenee sia a livello settoriale che, ad un livello ancora superiore, territoriale. Nel sistema produttivo italiano convivono comparti altamente competitivi, con un alto grado di integrazione dei servizi, e comparti più arretrati e in sofferenza (il settore dell’abbigliamento ne è un esempio). Secondo l’Istat, questo è il risultato della differente capacità delle imprese di modificare rapidamente l’orientamento geografico e la composizione merceologica delle loro esportazioni.
L’invito a non trascurare il ruolo della domanda è venuto da Patrizio Bianchi, il quale ha ricordato come l’evoluzione delle strutture produttive finisca per riflettere nuove esigenze economiche e sociali interne (ad esempio i problemi energetici e i cambiamenti demografici o i nuovi orientamenti della domanda internazionale quali lo sviluppo delle infrastrutture e dei servizi alla persona nei paesi di nuova industrializzazione). Tramontata l’epoca della grande impresa, resta tuttavia da trovare il nuovo protagonista del sistema produttivo (il territorio?, il prodotto?, il sistema educativo? i lavoratori?) senza il quale è difficile rintracciare una chiara direzione di sviluppo.
Al di là di questi fattori, certo importanti, vi è però la questione principale della produttività. Negli ultimi dieci anni di bassa crescita del prodotto interno lordo italiano, infatti, questa si è fermata ed è stato l’aumento dell’occupazione a sostenere la crescita del prodotto.
E il trend non accenna a cambiare. Negli ultimi mesi del 2008 e nei primi del 2009, anche per effetto della crisi, la produttività del lavoro è crollata. E nel secondo trimestre dell’anno in corso, sulla base delle ore lavorate, la produttività è diminuita del 3,3 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (Bollettino Economico della Banca d’Italia, Ottobre 2009).
Alla radice di tali dinamiche c’è la scelta delle imprese di puntare su manodopera non qualificata a scapito della produttività e a favore di redditività e profitti. Un’ampia parte dell’industria, quella meno efficiente, ha assunto prevalentemente lavoratori italiani ed immigrati offrendo loro salari sempre più bassi. Oltre a ciò, un mercato del lavoro con scarse tutele da una parte e politiche sociali ed educative svuotate della loro funzione dall’altra, hanno contribuito a determinare ovunque basse dinamiche della produttività.
Così, mentre il peso della continua mancanza di investimenti e di innovazione continua ad impoverire il potenziale di sviluppo del paese, la questione della produttività, vero motore dello sviluppo come ci ricorda Paul Krugman, non sembra essere al centro dei pensieri di chi ci governa. Tra qualche decennio, però, potremmo pagare caro questa mancanza di prospettiva. La pagheremo con un più basso tenore di vita.