Il regalo a Rai-set è uno scandalo da annullare subito. Ma anche un’asta “pulita” può rafforzare l’oligopolio dell’informazione. Servono altri strumenti per fare della comunicazione un bene comune
In flagrante conflitto d’interessi, il passato governo ha cercato di regalare preziose frequenze digitali a Rai-set (cioè a Mediaset più Rai, ambedue controllate dall’ex premier Silvio Berlusconi) con la gara gratuita avviata dall’ex ministro dello Sviluppo economico Paolo Romani, e grazie alle generosissime regole stabilite dall’attuale presidente dell’Autorità per le Comunicazioni Corrado Calabrò. Se l’attuale ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, non cambierà registro – come è invece auspicabile – Rai-set avrà in regalo qualche centinaio di milioni di euro. È invece assolutamente necessario che le frequenze pubbliche vengano fatte pagare a chi intende utilizzarle, e che non vengano cedute agli incumbent, le aziende dominanti.
L’asta non è tuttavia il meccanismo più adatto per assegnare le frequenze televisive, attribuendole a chi offre di più, come suggeriscono attualmente (e spesso tardivamente) alcune forze politiche di sinistra: “inventata” qualche decennio fa dagli ideologi anglosassoni del neoliberismo, l’asta è infatti un meccanismo di mercato, apparentemente puro, che favorisce i migliori offerenti, cioè le aziende finanziariamente più ricche, e quindi gli oligopoli delle comunicazioni. Ed è il tipico meccanismo adottato in Europa e negli Stati Uniti per assegnare le frequenze digitali ai potenti gestori mobili che offrono servizi commerciali molto remunerativi, come i servizi telefonici e l’accesso mobile a Internet. Fa guadagnare le casse dello Stato, e quindi anche i cittadini contribuenti, ma favorisce i giganti, e in generale chiude il mercato alla competizione. In Italia l’asta per le frequenze digitali mobili è stata vinta solo un mese fa dai colossi Telecom Italia, Vodafone e Wind, con poco spazio per H3G e nessun spazio per i nuovi entranti. I colossi della comunicazione hanno pagato 4 miliardi per l’autorizzazione all’uso delle frequenze per 20 anni. I soldi sono finiti nelle casse del Tesoro, a beneficio dei cittadini contribuenti.
In tutta Europa invece le frequenze televisive non sono mai state messe all’asta, perché sono indispensabili per la trasmissione dei programmi delle televisioni, che si ritiene svolgano un importante servizio pubblico, oltre che commerciale. Se l’asta non è il meccanismo migliore per favorire l’ingresso sul mercato di nuovi attori e assegnare le frequenze alle televisioni, è ancora più sbagliato concederle gratis alle tivù “amiche”, grazie a una “falsa gara” come quella attuale. Romani e Calabrò hanno infatti avviato una gara gratuita per concedere sei frequenze di tv digitale per 20 anni alle televisioni nazionali: in questa gara, cosiddetta beauty contest (concorso di bellezza), vincerà chi avrà maggiore copertura, impianti, esperienza televisiva, solidità patrimoniale, ecc. In base a questi criteri, Mediaset e Rai, che già dominano il mercato televisivo da decenni, hanno la garanzia matematica di vincere, consolidando il loro monopolio.
Quali possono allora essere le soluzioni per aprire il mercato a nuovi soggetti e a nuovi servizi? Qual è la maniera migliore per valorizzare il bene pubblico delle frequenze a vantaggio dei cittadini e dei contribuenti, e quindi anche a vantaggio delle casse dello Stato? E come è possibile lasciare delle frequenze libere per nuovi soggetti e per nuovi servizi, utili al pubblico? Come cominciare a liberare le frequenze pubbliche a favore dell’accesso universale e gratuito ai servizi di comunicazione di base? Come promuovere una politica favorevole all’Open Spectrum?
Di seguito, qualche semplice proposta:
1) Escludere sia Rai che Mediaset dalla gara in corso per le frequenze digitali: le due televisioni sono già semi-monopoliste dell’etere e hanno già cinque frequenze (o multiplex) a testa. Considerando che ogni multiplex può trasmettere sei canali televisivi, sia la Rai che Mediaset possono trasmettere già 30 canali tv a testa, più di quanto serva loro. Il governo Monti, che si intende molto di competizione, dovrebbe capire che è assurdo rafforzare il semi-monopolio che Rai e Mediaset già hanno sulle frequenze nazionali. La gara sulle frequenze della tv digitale è stata imposta dall’Unione Europea per aprire il mercato televisivo italiano congelato dal duopolio Rai e Mediaset (che in realtà è diventato il monopolio Rai-set, con Mediaset che attualmente domina anche in Rai), ed è quindi indispensabile che sia Rai che Mediaset in quanto incumbent vengano escluse dalla gara in corso.
2) Far pagare alle televisioni nuove entranti una cifra congrua, da versare nelle casse dello Stato a favore dei contribuenti, per le frequenze digitali. Ciò può avvenire non con il meccanismo d’asta, che come abbiamo visto premierebbe i più forti (e paradossalmente proprio Rai e Mediaset, che, insieme a Sky Italia, sono le tivù più ricche), ma facendo pagare un biglietto d’ingresso, per esempio di 100 milioni di euro, a chi partecipa alla gara e vuole prendere “in affitto” una frequenza. È stato fatto così per il GSM: i vincitori dovevano non solo dimostrare di avere certi requisiti, ma anche pagare un ticket per utilizzare una parte dell’etere.
3) Cedere le frequenze non per vent’anni, come recita l’attuale bando di gara, ma per un tempo più limitato, per esempio 12 anni.
4) Soprattutto, eliminare dal bando di gara la clausola che concede ai vincitori di vendere, dopo soli cinque anni, le frequenze ottenute gratuitamente, incassando centinaia di milioni di euro di plusvalenza netta su un bene pubblico. Questo era il vero regalo per Mediaset (anche se pochi politici lo hanno capito).
5) Alle nuove condizioni, è possibile che non tutte le società partecipanti alla gara vorranno proseguire: un conto è ricevere le frequenze gratis, un altro è pagarle con un salato biglietto di ingresso. Occorre inoltre tenere presente che la vera barriera nel mercato televisivo italiano non è la disponibilità delle frequenze, ma il congelamento del mercato pubblicitario, con Mediaset che ha il 40% dell’audience e oltre il 60% del mercato nazionale della pubblicità tv. La gara attuale mette in palio sei frequenze, ma non è detto che tutti vogliano pagare un sostanzioso ticket (diciamo 100 milioni) per vincere una frequenza/multiplex senza avere poi la possibilità di rivenderla e senza avere buone possibilità di guadagnare dalla pubblicità.
6) Le frequenze risparmiate potrebbero essere messe all’asta e/o lasciate libere per l’Open Spectrum. L’asta per l’accesso wireless di Internet mobile a banda larga – che è un servizio molto più utile di quello televisivo – garantirebbe un ottimo incasso per lo Stato, e quindi per i contribuenti, dal momento che le frequenze per i servizi mobili sono molto più remunerative di quelle per i servizi tivù, e possono valere anche 500 milioni l’una.
7) Occorre sottolineare che le nuove tecnologie intelligenti e multifrequenza (cosiddette “Software-defined radios”, Sdr) permettono ormai un uso aperto e condiviso delle frequenze, come già accade per esempio nel caso delle reti libere e gratuite del Wi-Fi. Sul piano strettamente tecnologico non è più necessario che lo Stato conceda le frequenze per un solo uso, per la sola televisione o per la sola comunicazione mobile. Le frequenze sono un bene comune, e, grazie alle tecnologie multifrequenza più innovative, le stesse frequenze digitali possono essere condivise per molti usi, evitando le interferenze. Attualmente le televisioni, i gestori mobili e le forze armate si mangiano tutto lo spettro radioelettrico, ma, in un’ottica più innovativa ed equa, lo spettro dovrebbe (e potrebbe) essere reso accessibile a tutti (quasi) gratuitamente (non a caso l’Open Spectrum è uno dei punti qualificanti dei programmi dei partiti Pirata di tutta Europa). In questa maniera Internet a banda larga diventerebbe un servizio universale per tutti i cittadini e sarebbe garantito l’accesso gratuito ed egualitario a Internet, alle conoscenze e alle informazioni del mondo.
8) Una politica alternativa e di sinistra dovrebbe incoraggiare la gestione autonoma, né privata né statale, dei beni comuni – come sono le frequenze, Internet e le risorse ambientali – da parte delle comunità interessate. In prospettiva, la gestione dello spettro libero, per il quale le aziende potrebbero pagare un canone d’uso, potrebbe essere delegata a un ente indipendente dedicato alla valorizzazione delle risorse frequenziali pubbliche, controllato democraticamente dalle comunità di utenti. Questo ente economico potrebbe ridistribuire le risorse incamerate a favore dello sviluppo di Internet e dell’informazione come servizio pubblico.