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La Cina nelle sfide del mercato del lavoro

L’Assemblea nazionale del popolo del 28 maggio ha reso note le linee guida del Pcc per il post Covid-19. Disoccupazione, consumi e risparmio costringono il partito-Stato ad una sfida inedita: anestetizzare tensioni e trasformazionali sociali in un contesto di depressione economica. 

La terza sessione plenaria della 13° Assemblea Nazionale del Popolo si è conclusa il 28 maggio con una lunga conferenza stampa nella quale il Premier Li Keqiang ha comunicato le deliberazioni collettive sulle imminenti sfide che la Repubblica Popolare Cinese (RPC) dovrà affrontare. 

La promulgazione di una nuova legge nazionale sulla sicurezza, con tutte quello che ne consegue per il movimento di autodeterminazione di Hong Kong, ha rubato la scena mediatica ma il premier ha dovuto fornire programmi e risposte su tanti temi critici: la crescente disoccupazione causata dal lockdown è sicuramente tra questi. 

La fase 2 e la conferenza stampa di Li Keqiang

Nella Repubblica Popolare l’inizio della fase 2, quella della convivenza con il virus, è stato un processo dilatato nel tempo, nel quale le singole province, ad esclusione dell’Hubei, hanno goduto di ampi margini di autonomia nella gestione della pandemia. 

Le riaperture selettive si sono susseguite dall’inizio di marzo fino all’8 aprile quando, con la fine del lockdown di Wuhan, l’intero paese veniva proiettato verso la nuova “normalità”, una stagione in cui decine di milioni di lavoratori e lavoratrici devono sperimentare le prime immediate conseguenze della crisi economica innescata dal Covid-19.

Nelle prime settimane di aprile, la narrazione congiunta del Partito Comunista, del sindacato unico (All China Federation Trade Union, ACFTU) e della Banca Centrale (People’s Bank of China) paventava una rapida ripresa economica fondata sulle opportunità scaturite dalla crisi e su una rinnovata coesione nazionale che sia scudo dagli attacchi e dalle illazioni statunitensi.

Retorica di governo che stride con una materializzazione della disoccupazione e del ristagno economico, la cui sovrapposizione è inedita per il modello socio-economico del socialismo con caratteristiche cinesi. 

Alla fine di maggio, la chiusura della sessione parlamentare ha restituito una narrazione più moderata, con un primo ministro che per la prima volta in decenni non annuncia obiettivi di crescita 

a causa di un contesto nel quale aspettative e promesse tradite si rivelerebbero un volano per la credibilità di Pechino.

Tenendo sullo sfondo la stabilità economica da ricercarsi nel ruolo pro-attivo della Stato, la conferenza stampa di Li ha tracciato la strada che il Partito intende percorrere per affrontare la crisi: sulle iniziative immediate e concrete l’enfasi è stata posta sulla tutela dei posti di lavoro, sul sostegno al reddito e ai consumi, specificando l’assenza di nuovi piani infrastrutturali nazionali. Mentre sull’orizzonte politico-ideologico il Premier ha confermato il calendario della ‘società moderatamente prospera’ del Segretario Xi Jinping nel quale il 2020 significa la fine della povertà per cinque milioni di cinesi. 

Con una Cina, stretta tra le pressioni della trade/tech war e della crisi Covid-19, queste dichiarazioni di Li rimangono ambiziose davanti ad un mercato del lavoro dove la fine dei vantaggi di lungo periodo incontra le difficoltà contingenti innescate da quella che si prospetta la più profonda crisi dalla grande depressione. 

Riassorbimento della disoccupazione nel processo ci crescita. 

Per comprendere l’intensità della sfida alla quale è sottoposta la leadership del partito-Stato è utile sottolineare come, a differenza di una crescita del PIL così bassa, la disoccupazione massiva non sia qualcosa di nuovo nel complessivo processo di crescita della RPC. 

Alla fine degli anni ’90, l’approfondimento delle riforme di liberalizzazione economica attuate dal primo ministro Zhu Rongji, con il conseguente ridimensionamento del ruolo delle industrie statali (State-Owned Enterprises, SOEs) nell’economia nazionale, comportarono la perdita di circa 25.5 milioni di posti di lavoro tra il 1998 e il 2001.

La rottura pressoché definitiva del paradigma sociale della ciotola ferrea di riso e la disoccupazione furono riassorbite nel ben più ampio processo di espansione del settore produttivo privato. 

Un afflusso di capitali globale che, attraverso l’ingresso nella World Trade Organization del 2001, avrebbe trasformato la Cina nella celebre “fabbrica del mondo”.

Un secondo significativo shock nel mercato del lavoro si è sperimentato nella più recente Grande Recessione del 2007-08, quando almeno 20 milioni di lavoratori impiegati nel manifatturiero, per lo più migranti interni, persero il lavoro a causa della contrazione dell’export verso occidente. 

Nella decade trascorsa la contrazione industriale e la disoccupazione sono state assorbite, non senza forti conflitti operai, dall’attuazione da parte delle autorità di un cambio di paradigma complessivo: diminuire gradualmente la centralità delle esportazioni in favore di una crescita maggiormente incentrata sul consumo interno. 

Ingenti iniezioni di liquidità da parte del governo centrale, la costante urbanizzazione e l’ascesa nella scala tecnologia produttiva globale hanno prodotto una moltiplicazione di lavori nel settore dei servizi, garantendo equilibrio al binomio crescita del Pil e piena occupazione.

Questo imponente trasferimento di forza lavoro dal settore secondario a quello terziario trova riscontro se si osserva la distribuzione occupazionale dei lavoratori migranti interni, categoria di 289 milioni di persone per la quale, come mostra il grafico sottostante, il settore dei servizi è divenuto la prima fonte di occupazione nel 2019. 

Figura 1: Distribuzione occupazionale dei lavoratori migranti.

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Source: South Morning China Post (SMCP), National Bureau of Statistics of China (NBSC).

Questi due momenti di crescente disoccupazione sono stati dunque incorporati in più ampi processi di ascesa economica della Repubblica Popolare Cinese. La crescita costante post recessione maggiormente incentrata sulla domanda interna non solo ha conseguito un riassorbimento della crisi occupazionale ma ha inoltre conferito ai lavoratori salari crescenti in tutti i settori (Figura2).

Figura 2: Crescita dei salari reali medi annui tra il 2010 e il 2018.

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Source: NBSC. Note: (82.461 Renminbi = 11. 641 dollari).

Questa breve digressione sulle crisi precedenti ci permette di evidenziare il carattere inedito delle sfide del mercato del lavoro cinese con lo scoppio della crisi Covid-19. 

L’entità dello shock in corso è evidente se si osserva il grafico sull’andamento trimestrale del Pil cinese che rivela un crollo del 6.8 % per il primo trimestre del 2020, il dato peggiore dal 1976. 

Quando il tasso di disoccupazione raggiunse il 9.4 % nel 2009 (Chinese Academy of Sciences), il PIL registrava un’analoga crescita del 9.4 % (World Bank Data, WBD). Oggi, con una crescita annuale prevista tra l’1 e il 3 %, un crollo delle esportazioni ben maggiore del biennio 2008-2010, la sfida dell’occupazione stabile si prospetta molto dura per Pechino.

Figura 3: Crescita trimestrale del PIL in Cina.

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 Source: SMCP, (NBSC).

Disoccupazione e risposte parziali.

In uno studio pubblicato il 22 aprile, the Economist Intelligence Unit (EIU) stima che ai 5 milioni di disoccupati dei primi mesi del 2020 si affiancherà la perdita di altri 22 milioni di posti di lavoro mentre 250 milioni di impiegati potrebbero sperimentare tagli salariali tra il 10 e 50%.

Le stime dell’EIU sono ben più dure di quanto mostri il tasso di disoccupazione registrato dal National Bureau of Statistics of China (NBSC). L’istituto statistico nazionale ha riportato un incremento della disoccupazione dal 5.2 % di gennaio al 6.2 % del mese di febbraio, ma mostra una sua riduzione al 5.9 % a marzo, mese nel quale, ad eccezione dell’Hubei, molte province avevano riavviato gradualmente le attività. 

Figura 4: Tasso di disoccupazione 2018-2020

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   Source: SMCP, NBSC. 

Tuttavia, come sottolineato da ONG del lavoro che operano nel paese, le stime dell’National Bureau of Statistics tendono ad oscurare l’impatto del lockdown sui lavoratori migranti che constano circa un terzo della forza lavoro complessiva (289 milioni). Il ridimensionamento statistico di questi milioni di lavoratori, che generalmente occupano le posizioni meno remunerative e più precarie delle aree urbane, sembra essere confermato dalle stesse rivelazioni del 2008-2010 quando, a fronte di una profonda crisi dell’export, il tasso di disoccupazione del National Bureau of Statistics rimase pressoché inalterato intorno al 4 %.

La crisi Covid-19 ha evidenziato delle contraddizioni del mercato del lavoro cinese che saranno probabilmente la vera sfida interna della leadership negli anni avvenire. 

La quasi totalità della composizione migrante e altre decine di milioni di lavoratori urbani e rurali hanno sperimentato pragmaticamente la loro vulnerabilità e l’evasione sistemica dalle leggi che regolamentano i rapporti di lavoro. Secondo il ministero delle Risorse umane e della Sicurezza sociale, nel primo trimestre il governo ha fornito sussidi di disoccupazione ad appena 2.3 milioni di persone, il 0.5 % della forza lavoro, con emolumenti per una media di 2000 Renminbi (280 dollari). 

Il secondo trimestre ha avuto sicuramente una maggiore copertura e presa d’atto del problema da parte della leadership, come mostrato dalla stessa conferenza di Li, ma allo stesso tempo si moltiplicano le notizie di esuberi e riduzioni salariali.

Contrazioni del mercato del lavoro che impattano negativamente sull’ascesa dei consumi, tema pilastro della “società moderatamente prospera” e delle politiche macroeconomiche dell’ultima decade. 

Consumo privato che oggi deve fare i conti con una rinnovata crescita della propensione al risparmio di una popolazione che ha visto rapidamente ridimensionare le proprie aspettative di breve termine.

L’impatto della crisi Covid-19 su disoccupazione, consumi e risparmio costringe il Partito ad affrontare una sfida inedita: anestetizzare tensioni e trasformazioni sociali in un contesto di probabile depressione economica. 

Il patto sociale post-Tienanmen, fondato sul dogma della crescita economica come antidoto all’instabilità sociale, ha dato prova di saper incorporare nel più ampio processo di crescita due episodi di disoccupazione di massa, ma oggi si muove su un sentiero sempre più stretto, perimetrato dalla crisi attuale, dalla trade/tech war e da una forza lavoro abituata a pretendere costanti miglioramenti salariali e piena occupazione come misura del buon governo.

Note:

1 Primo ministro tra l 1998 e il 2003.

2 Paradigma sociale che prevedeva la garanzia della stabilità lavorativa per tutta la vita presso la stessa impresa statale.

3 580 miliardi di dollari nel biennio 2008-2010.

4 Come dichiarato da Geoffrey Crothall, direttore della comunicazione dell’ONG China Labour Bulletin, al sito di informazione Aljazeera, disponibile qui  https://www.aljazeera.com/ajimpact/labour-day-chinas-big-virus-challenge-creating-jobs-200501051327423.html , si veda anche l’inchiesta sull’impatto Covid-19 su disoccupazione portata avanti da SMCP disponibili qui https://www.scmp.com/economy/china-economy/article/3083823/coronavirus-china-prepared-handle-unemployment-crisis