articolo precedenteSeconda e ultima parte dell’articolo di Armanda Cetrulo sui giovani tra 15 e 30 anni. In molti sono costretti a convivere con la famiglia d’origine e/o senza “arte né parte”
Come si evince dal Rapporto Sunia-Cgil [1] esiste, inoltre, un grave disagio abitativo nel nostro paese con ben 7 milioni di giovani tra i 18 e i 34 anni che vivono ancora nella famiglia di origine (cifra di gran lunga superiore alla media europea).
Di fatto, non si tratta di una scelta dettata da pigrizia o peggio da un atteggiamento di immaturità e irresponsabilità, sinteticamente descritto dall’appellativo di successo “bamboccioni”, bensì essa risulta essere l’espressione amara di una coabitazione forzata e inevitabile dettata dalle ristrettezze economiche e dall’impossibilità concreta di acquistare una casa o semplicemente pagare un affitto.
Ma il dato ancora più grave è che tra questi giovani, molti sono quelli che nel 2009-2010 hanno perso il lavoro e hanno quindi visto allontanarsi sempre più la possibilità o semplicemente la speranza di “uscire di casa” e acquisire una propria autonomia.
Di fronte a questo blocco e alle difficoltà materiali che impediscono ai giovani di svincolarsi, più volte è stato sottolineato il ruolo svolto proprio dalla famiglie nel sostenere e “sostentare” i propri figli altrimenti privi di reddito, casa e occupazione, al punto da spingere molti a definire la famiglia come il vero ammortizzatore sociale di questo paese.
Se è giusto riconoscerle tale merito, doveroso è riflettere sul fatto che, oggi quelle stesse famiglie sono state colpite doppiamente dalla crisi, riversatasi sia sui figli che sui genitori. Già nel 2009 [2], la quota di famiglie in cui nessun membro risultava occupato era salita al 15% (raggiungendo il 24% nel Mezzogiorno) e oggi il 42% dei giovani che vive ancora con la famiglia d’origine e che ha perso il lavoro ha entrambi i genitori non occupati.
Ciò significa che in alcuni casi, proprio il lavoro precario, sottoqualificato e sottopagato del giovane figlio, rappresentava di fatto l’unica fonte di reddito familiare (oltre a una pensione, percepita in molti casi da uno dei due genitori).
Oggi con il propagarsi capillare della crisi, “la famiglia” non sembra più in grado di svolgere quel ruolo di ammortizzatore sociale che aveva già con fatica adempiuto finora.
Di fronte a un quadro del genere, appare quasi inevitabile che il numero dei giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavora e che non frequenta alcun corso di istruzione o formazione (i cosiddetti Neet:not in education,employment or training) sia aumentato quasi del 7% rispetto al 2009, raggiungendo la cifra incredibile di 2.1 milioni di giovani Neet in Italia.
Nonostante l’incidenza del fenomeno continui a essere più diffusa tra le donne (24,9%), tra i residenti del Mezzogiorno (30.9%) e tra i giovani con licenza media, l’incremento osservato tra il 2009 e il 2010 ha colpito perlopiù i giovani del Nord-est (+20,8%), gli uomini (+9.3%) e soprattutto quanti hanno un diploma di scuola secondaria superiore (+10.1%). Il fenomeno ha assunto proporzioni tali per cui l’Italia tra i paesi europei è l’unico in cui il numero di giovani maschi inattivi è superiore a quelli dei giovani maschi disoccupati.
Inoltre, da un’indagine longitudinale Eu-Silc emerge che oltre la metà dei giovani Neet lo è in maniera persistente e il 7.3% di essi si trova in tale condizione da 4 anni consecutivi.
Questo dato più di tutti, rappresenta la prova inequivocabile del rischio di esclusione sociale in cui moltissimi giovani versano oggi, rischio che non riguarda solo le classi sociali più basse, ma in misura crescente anche quelle medie.
“Hanno rapito il nostro futuro. Riprendiamocelo!” [3] Questo uno degli slogan del movimento studentesco che, superando l’Onda del 2008, non si è limitato a protestare contro una riforma dell’Università, ma ha voluto rivendicare e proporre un nuovo modello di sviluppo basato sulla difesa del sapere e del lavoro, considerati entrambi beni comuni da salvaguardare contro privatizzazioni e attacchi tesi a cancellare diritti.
“Il nostro tempo è adesso” lo slogan della prima manifestazione indetta dai precari il 9 aprile di quest’anno parla della necessità di affrontare nell’immediato il problema della precarietà, divenuta ormai condizione esistenziale di molti.
Non c’è dubbio che il nostro paese abbia vissuto e stia vivendo un periodo di grande partecipazione sociale, innumerevoli infatti sono state le manifestazioni, gli incontri e i dibattiti su questi temi all’interno delle università, delle fabbriche, delle scuole e delle piazze.
Anche i recenti risultati elettorali e la forte partecipazione dei giovani conferma questa riscoperta dell’impegno civile e politico dei cittadini.
Ma il dato sui Neet parla di un’altra parte di giovani che ha smesso di sperare e credere in un cambiamento, che vive una condizione di annichilente passività (la maggior parte di essi non partecipa ad attività culturali, politiche o associative, non legge libri e usa poco il computer) e obbliga tutti noi a tenerne conto, a rivendicare con forza e determinazione quei cambiamenti necessari per costruire finalmente “un’Italia capace di futuro”.
note
[1]www.cgil.it/Archivio/ [2] Relazione annuale Banca d’Italia (2009) [3] Al seguente indirizzo, trovate un manifesto molto esplicativo. www.retedellaconoscenza.it/