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India e Cina, un confronto impari 

Da settimane si assiste a una crescente escalation di tensione tra India e Cina: dopo le scaramucce di frontiera di giugno, ora New Delhi si appresta a una guerra commerciale con toni autarchici e mentre stringe sempre più legami con gli Usa.

Dall’amicizia alla guerra

Dopo la proclamazione dell’indipendenza dell’India (1947) e la fine della guerra civile cinese (1949), per un certo periodo i due paesi hanno convissuto  pacificamente, uniti dallo spirito della conferenza di Bandung, che nel lontano 1955 sanciva l’accordo tra diversi paesi asiatici per creare un fronte anti imperialista e neutrale tra i due grandi blocchi della guerra fredda.

Tale spirito verrà poi messo in crisi dalla guerra cino-indiana del 1962, scoppiata per controversie sui confini. Un secondo, breve, scontro cino-indiano si è avuto qualche mese fa.  Per capire come si è arrivati a questo bisogna ricordare che gli eventi hanno progressivamente separato i due paesi, tanto che essi si affrontano ormai come nemici. L’India fa ora parte della coalizione informale messa in opera in Asia dagli Stati Uniti in funzione anticinese (l’India fa parte della Quadrilateral Security Dialogue o Quad insieme a Giappone, Stati Uniti e Australia, coalizione informale nata nel 2007).

Il confronto tra i due paesi 

L’evoluzione del Pil 

Alla fine degli anni Settanta del Novecento, al momento in cui Deng Tsiaoping varava le riforme dell’economia che avrebbero fatto decollare il prodigioso sviluppo cinese, India e Cina registravano più o meno lo stesso livello di Pil. Se facciamo un salto fino ai giorni nostri, il Pil cinese nel 2019 risultava ormai pari a circa tre volte quello indiano, utilizzando il criterio della parità dei poteri di acquisto, e a circa 5-6 volte utilizzando il criterio dei prezzi di mercato. Nel periodo considerato il tasso di crescita annuale dell’economia cinese è sempre stato superiore a quello indiano, pur in media molto rilevante, tranne che, di recente, per un paio d’anni nei quali non è chiaro se il momentaneo sorpasso fosse reale o dovuto soltanto a un discusso mutamento nei criteri di calcolo. Così, nel 2018 l’aumento del Pil indiano è stato pari al 6,8%, mentre quello della Cina del 6,6%, ma da più parti si sono espressi dubbi sulla esattezza delle cifre indiane. In ogni caso, il governo di Nuova Delhi continua a raccontare che esso compete con la Cina e gli Stati Uniti, mentre è indietro anche al Bangladesh come Pil pro-capite (Patel, 2021).

-Le tecnologie

Per quanto riguarda le spese in ricerca e sviluppo (Research and Development o R & D)  la Cina, utilizzando sempre il criterio della parità dei poteri di acquisto, nel 2018 ha speso in totale 485,5 miliardi di dollari, mentre l’India si fermava a 86,2 miliardi, con un’incidenza relativa sul Pil rispettivamente del 2,2% e dello 0,8 %; nel 2020 dovremmo essere ormai rispettivamente al 2,4% e allo 0,9%.

Per il numero delle domande di brevetti depositati nel 2019 la Cina è ormai al primo posto al mondo con 53.990 richieste, mentre l’India arranca nelle retrovie con 2.053. Per il numero degli articoli scientifici pubblicati la situazione appare un poco migliore, con la Cina, sempre al primo posto, con 528.263 articoli, mentre l’India si ferma a 135.788, anche se figura comunque al terzo posto in classifica. Anche in questa area, dunque, il confronto appare largamente impari. Esso continuerebbe ad esserlo anche se guardassimo all’elenco per nazionalità delle principali imprese mondiali operanti nel settore delle tecnologie avanzate.

-La dimensione sociale

Considerazioni analoghe si potrebbero ancora fare sul fronte sociale. Citiamo anche qui qualche cifra. Mantengono tutta la loro attualità le risultanze che emergono da un testo del 2013 scritto dal più noto economista indiano, Amartya Sen, insieme a Jean Drèze (Drèze, Sen, 2013). Vi si possono trovare molti confronti tra l’India e diversi altri paesi emergenti.

Per quanto riguarda l’aspettativa di vita alla nascita, nel caso dell’India troviamo per il 2011 una cifra di 65 anni, di 73 per la Cina; per la mortalità infantile su 1.000 nascite, sempre per il 2011, India 61, Cina 15; per la percentuale dei bambini vaccinati per il morbillo, sempre per il 2011, India 74%, Cina 99%; per il tasso di alfabetizzazione femminile sempre per il 2011, all’età di 15-24 anni, India 74%, Cina 99%; per gli anni medi di scolarizzazione all’età di 25 anni, sempre per il 2011, India 4,4 anni, Cina 7,5; per la proporzione di bambini sottopeso nel periodo 2006-2010, India 43%, Cina 4%.

L’India va poi certamente inserita tra i paesi nei quali le diseguaglianze di reddito e di ricchezza sono le più marcate, anche se certamente la Cina non brilla sul tema. Nel primo paese, l’India, la quota di reddito controllata dal 10% più ricco della popolazione si collocava nei primi anni ’80 del Novecento intorno al 30%; nel 2019 eravamo ormai intorno al 55%, una della percentuali più elevate del mondo. Parallelamente, la quota del 50% più povero, che era valutata intorno al 23% nel 1980, era passata al 13-14% nel 2019.

Nel caso cinese la quota del 10% più ricco era aumentata dal 27% del 1980 al 41% del 2019 (World Inequality Database, 2020). Inoltre, mentre nel caso dell’India assistiamo ad una crescita continua nel tempo, nel caso della Cina a partire dal 2010 si registra una tendenza alla riduzione, sia pure non clamorosa.

La crescita recente nei redditi e nei patrimoni in India ha premiato non tanto l’innovazione tecnologica o la crescita della produttività, quanto la capacità di influenza politica e l’accesso privilegiato ai capitali per catturare e proteggere i mercati esistenti (The Economist, 2020). La pandemia in atto ha contribuito ad approfondire il solco tra i ricchi ed i poveri.

Dagli anni Novanta in poi le condizioni di vita della parte più povera della popolazione non sono migliorate affatto in India, anzi per molti aspetti sono peggiorate.

In ogni caso lo sviluppo del paese a maggioranza induista non riesce ad assorbire il grande numero delle nuove leve che entrano del mercato del lavoro – più di un milione di giovani ogni mese- e così la disoccupazione tende ad aumentare fortemente. Intanto in Cina nel 2020 sono stati creati quasi 12 milioni di nuovi posti di lavoro. Il 77% dei lavoratori indiani, poi, sono autonomi o operano nel settore informale dell’economia (The Economist, 2021). Ancora più danneggiate appaiono le donne indiane: il loro tasso di partecipazione al mercato del lavoro era del 26% nel 2019 e si era ridotto al 21% nel 2020. Intanto i profitti delle imprese e i valori di Borsa hanno raggiunto nell’ultimo anno livelli record.

La forza lavoro indiana consisteva di 420 milioni di persone nel 2016 ed era scesa a 400 milioni alla fine del 2020. Se il paese avesse lo stesso tasso di partecipazione al mercato del lavoro della Cina, il numero degli addetti dovrebbe essere, sempre nel 2020, di 600 milioni (The Economist, 2021), il 50% in più.

Situazione e prospettive dell’economia

L’economia indiana si trovava già in difficoltà prima dello scoppio della pandemia. In effetti già dal gennaio 2018 in poi il tasso di crescita del Pil si è parecchio ridotto. Nel 2019 la cifra era aumentata soltanto del 4,7%. Il virus ha così dato un forte colpo ad un’economia già in difficoltà. La Reserve Bank of India nell’ottobre del 2020 ha stimato che il Pil del paese si ridurrà del 9,5% durante l’anno fiscale aprile 2020-marzo 2021.

Dopo il confinamento del marzo 2020, oltre agli indiani che hanno perso il lavoro, molti altri hanno visto i loro salari ridotti drasticamente. Circa 32 milioni di persone appartenenti alla classe media si sono visti declassati al livello di povertà. Si è parallelamente registrata una distruzione di imprese senza precedenti. Anche se successivamente la situazione è migliorata, la strada per la ripresa appare lunga.

Va considerato che nelle ultime settimane la spinta della pandemia sembra rallentare molto, anche se si registrano qua e là dei nuovi focolai che fanno temere come plausibile una seconda ondata. Tra i molti punti deboli del quadro economico del paese, ricordiamo, tra l’altro, la grave mancanza di risorse finanziarie, le parallele difficoltà del sistema bancario, la grandissima carenza di infrastrutture, la mancanza di lavoro per i giovani, la grande inefficienza e il forte livello di corruzione della macchina pubblica. Non poco.

A fronte delle difficoltà, il governo di New Delhi ha annunciato un budget per il 2021 largamente espansionistico, che raggiunge un livello di spesa da primato, pari a 500 miliardi di euro. La cifra appare molto rilevante, ma in realtà è largamente inadeguata a risollevare la situazione economia e sociale del paese. Nel budget non ci sono proposte di rilievo per affrontare l’aumento della disoccupazione, la fame e la pressione crescente sul settore rurale (Beniwall, Chaudary, 2021).

In ogni caso, a causa anche delle conseguenze del coronavirus, che dureranno piuttosto a lungo, nonché della cattiva gestione economia dell’economia da parte del governo, si prevede che il paese, dopo un rimbalzo che potrebbe anche raggiungere l’11% nel 2021 (meno, o molto meno, per alcuni; si veda Thapar, 2021), sperimenterà una crescita che si aggirerà, secondo alcune stime, intorno al 4,5% annuo nei prossimi cinque anni (intorno al 6,0% secondo altre valutazioni); tali cifre non permetteranno di assorbire che una frazione dei senza lavoro.

Eletto a suo tempo alla premiership dell’India con grandi speranze e grandi promesse, Narendra Modi ha progressivamente adottato una linea politica ultranazionalista, ultrareligiosa ed anticinese anche per mascherare la mancanza di risultati e i decisi fallimenti rispetto agli obiettivi sbandierati all’inizio della sua carriera politica.

La recente firma del RCEP, il patto commerciale tra 13 paesi asiatici compresa la Cina, più l’Australia e la Nuova Zelanda, accordo cui l’India ha rifiutato di aderire, ha reso il paese ancora più vulnerabile.

La campagna per l’autosufficienza

Nel maggio del 2020 il premier Modi ha avviato una campagna per l’autosufficienza, una mossa considerata in genere volta a limitare la dipendenza economica del paese dalla Cina; ma dieci mesi dopo il lancio della campagna, i risultati appaiono scoraggianti. Le imprese indiane hanno grandi difficoltà a fare a meno dei prodotti cinesi, dal momento che mancano alternative locali di qualità equivalente e a prezzi omogenei. Il risultato è che la quota di mercato dei produttori del paese rivale è molto aumentata nel periodo, invece di diminuire, e si sono anche incrementati gli acquisti da altri paesi asiatici (Purohit, 2020).

In ogni caso la politica di autarchia voluto da Modi dovrebbe danneggiare la crescita complessiva. L’India ha da tempo le barriere tariffarie più alte tra tutti i paesi più importanti. D’altro canto, le sue esportazioni non crescono dal 2014.

Per altro verso, i problemi posti dalla pandemia e l’avvio di politiche ostili verso la Cina da parte degli Usa, e in misura minore anche dall’Europa, hanno spinto l’India a sperare di sostituire la Cina come hub industriale nell’attrarre gli investimenti esteri. Certamente qualche modesto guadagno può essere ottenuto su tale fronte e negli ultimi mesi si va assistendo all’arrivo di rilevanti capitali soprattutto statunitensi in alcuni settori specifici.

Da un lato l’ineguagliabile capacità dell’apparato industriale cinese, dall’altro la concorrenza di altri paesi (in particolare le poche imprese che hanno lasciato la Cina, lo hanno fatto dirigendosi verso paesi quali il Vietnam o il Bangladesh) oltre alle debolezze infrastrutturali, organizzative, legali, burocratiche del paese governato da Modi portano a ritenere che tali speranze siano in larga parte mal riposte.

L’agricoltura

Il governo di New Delhi sembra incanalato verso politiche avventate. Come nel caso dell’ordinanza shock con cui nel 2016 ha deciso all’improvviso di sostituire le banconote di taglio più elevato al fine di combattere la corruzione, il mercato nero valutario, i canali di finanziamento del terrorismo, obiettivi in sé e per sé importanti, ma gestiti con grande improvvisazione. Il risultato fu piuttosto catastrofico. Il paese si ritrovò gettato nel caos, da cui si è ripreso lentamente e con gravi danni in particolare per le classi più umili.

Dal dicembre del 2020 l’India è stata attraversata da un grande sciopero contadino, motivato da un legge del governo approvata in settembre e relativa al settore agricolo, in base alla quale secondo le organizzazioni dei contadini la forza lavoro sarà ridotta in condizioni di povertà, alla mercè della grandi concentrazioni agroindustriali. Il premier Modi aveva fatto approvare la norma con l’intenzione dichiarata di riformare un sistema arcaico, ma senza consultare il settore. La legge prevede, tra l’altro, che i contadini vendano i loro prodotti direttamente sul mercato invece che attraverso organismi controllati dal governo, cancellando il precedente e ancora attuale meccanismo di prezzi minimi.

L’agricoltura impiega ancora oggi in India circa il 50% della forza lavoro, ma la situazione di miseria, sottosviluppo, sofferenze è ben nota. Il problema è che lo sviluppo non è in grado di assorbire la manodopera in eccesso dei campi.

Conclusioni

Nel corso degli ultimi decenni la Cina ha preso un grande sopravvento nei confronti dell’India sul piano economico, tecnologico e finanziario, ciò che viene sentito da quest’ultimo paese come un risultato difficile da digerire.

Se l’India è stata sino a tempi recenti uno dei paesi dove il tasso di crescita del Pil è stato tra i più elevati al mondo, da tempo assistiamo ad un rallentamento della crescita. E comunque il numero dei poveri è molto più grande che in Cina, che anzi afferma di avere ormai debellato la povertà estrema. Nella sostanza quello indiano appare un modello di crescita senza sviluppo (Jaffrelot, 2012).

India e Cina si trovano di fronte ad una crescente ostilità reciproca, sul piano economico come su quello politico, ostilità che, se procura qualche problema alla Cina, danneggia apparentemente molto di più l’altro contendente, che si trova di fronte a problemi drammatici, in primis quello di riuscire ad assicurare uno sbocco occupazionale ai molti milioni di giovani che si presentano ogni anno sul mercato del lavoro.

Le politiche di Modi negli ultimi anni stanno ottenendo risultati sostanzialmente negativi e ora l’accentuazione di una politica di sostanziale autarchia, sostenuta da una retorica ultra nazionalistica, non sembra poter portare in prospettiva ad alcun risultato positivo. Il governo non ha una strategia adeguata per rimettere in carreggiata i processi di sviluppo.

Testi citati nell’articolo

-Beniwall V., Chaudary A., India’s $500 billion budget to spur growth leaves little for the poor, www.business-standard.com, 2 febbraio 2021

-Drèze J., Sen A., An uncertain glory ; India and its contradictions, Allen Lane, London, 2013

-Jaffrelot C., Inde, l’envers de la puissance, CNRS editions, Parigi, 2012

-Patel A., India’s growth story is over, www.rediff.com, 2 febbraio 2021

-Purohit K., As chinese imports boom, what happened to Modi’s « self-reliant » India ?, www.scmp.com, 22 novembre 2020

-Thapar K., « India way of calculating GDP growth is misleadind » : JP Morgan’s Jahangir Aziz, m.thewire.in, 20 marzo 2021

-The Economist, Compounding, 5 dicembre 2020

-The Economist, 200m jobs short, 20 febbraio 2021

-World Inequality Database, Cina, India, www.wid.world, 2018