Sforare i rigidi parametri dell’austerity di Bruxelles è ciò che più convince della manovra annunciata dal governo, che resta in larga parte ancora da scoprire nel dettaglio. La flat tax viola i principi di progressività fiscale, la pace fiscale appare un condono e anche i criteri “reddito di cittadinanza” sembrano una retrocessione al “welfare to […]
I ministri cinque stelle la sera di giovedì 27 settembre hanno chiamato le masse sotto Palazzo Chigi, a festeggiare l’approvazione in Consiglio dei ministri della nota di aggiornamento del DEF 2018 che dovrebbe avviare la realizzazione concreta dei punti qualificanti del programma di governo giallo-verde (in particolare il cosiddetto reddito di cittadinanza, la flat tax, la revisione della riforma pensionistica Monti – Fornero del 2011) e, a tal fine, porta, altro elemento caratterizzante la manovra, il deficit pubblico al 2,4% annuo per il triennio 2019-2021.
Diciamo subito che le modalità di comunicazione sono state in pieno stile populista. I ministri che scendono in piazza, mentre al termine del Consiglio dei Ministri non viene neanche tenuta una conferenza stampa. Il testo non è disponibile e non lo sarà, verosimilmente, ancora per qualche giorno. Nessuna possibilità per la stampa di interloquire, per i tecnici di valutare qualcosa che non siano gli annunci dei politici o qualche documento di lavoro di incerta provenienza e dubbia attendibilità. Non è cosa nuova (ricordiamo le 26 slide con cui Renzi presentò l’aggiornamento del DEF nel 2014, in conferenza stampa si soffermò solo sulla prima, si scoperse poi che le altre 25 contenevano solo il titolo), ma possiamo ben dire che tale modalità ben rappresenta tutte le ansie e le difficoltà della squadra grillina a trasformare i propri annunci in progetti operativi tecnicamente adeguati.
Vero è che la prima battaglia politica interna, sul livello cui fissare il deficit, è vinta: il deficit pubblico, che il governo Gentiloni un anno fa si era impegnato a portare nel 2019 allo 0,9%, viene portato al 2,4%, oltre l’1,6% che aveva ipotizzato il Ministro Tria e oltre anche al 2% ipotizzato in questi giorni. Il tutto alleggerisce di circa 27 miliardi i fabbisogni finanziari rispetto a quanto previsto in autunno 2017, permettendo il finanziamento della manovra.
E’ il segnale che più convince. Da anni critichiamo i parametri e le impostazioni di politica fiscale europei, strutturalmente recessivi, che sono fra le cause delle specifiche difficoltà che l’Unione Europea ha avuto ad emergere dalla crisi e del come ne è uscita (divergenza economica, marginalizzazione delle economie periferiche, impoverimento e svalutazione del lavoro e del welfare). Accogliamo dunque questa esplicita messa in discussione dell’ortodossia di Bruxelles e ci auguriamo che il governo sia consequenziale, indicando un obiettivo: la denuncia del fiscal compact (che non è un trattato) e la revisione del pareggio di bilancio in Costituzione (che l’Italia è stato uno dei pochi paesi ad adottare, con la legge costituzionale del 2012).
Ciò detto, la strada intrapresa dal governo presenta comunque i suoi rischi.
Il precedente governo aveva sempre manifestato pubblicamente fedeltà alle regole fiscali europee, salvo poi operare dietro le quinte per un alleggerimento di fatto dei vincoli, strappando la concessione di rilevanti margini di flessibilità e l’accettazione da parte europea di clausole di salvaguardia (ovvero previsioni di aumento di IVA e accise) che ancora valgono 12,5 miliardi di euro per il 2019 e quasi 20 miliardi dal 2020 a garanzia di tagli impossibili da realizzare.
L’attuale governo ha scelto un metodo di confronto esplicito del quale è stato scritto solo il primo capitolo. Perché il sistema di regole europee dà alla Commissione e al Consiglio Ecofin poteri non indifferenti e l’applicazione delle regole fiscali da parte degli organismi comunitari potrebbe ora diventare rigida, senza quella flessibilità strappata (anche con stringenti argomentazioni di tipo tecnico) negli ultimi anni. Gli effetti dell’avvio di una procedura d’infrazione – che potrebbe arrivare a tradursi in multe nell’ordine di qualche punto decimale di PIL) non dovrebbero essere presi alla leggera.
D’altra parte, il lascito del governo Gentiloni al governo Conte conteneva polpette avvelenate non da poco, dalle clausole di salvaguardia, alla flessibilità concessa negli anni scorsi da recuperare, all’ulteriore riduzione del deficit, fino al pareggio di bilancio, prevista nell’orizzonte di programmazione, fino ad una riduzione del debito ottenuta economizzando i saldi dei conti correnti pubblici nel 2017 per 14 miliardi che, già era scritto nel DEF 2018, avrebbero dovuto essere reintegrati nel 2019; tutti elementi che diventano critici laddove Bruxelles decida una posizione rigida.
Vi è poi il tema dello spread, che non va sottovalutato, stanti le dimensioni del debito italiano, superiori al 130% del PIL: l’Italia ha beneficiato sostanzialmente dei bassi tassi di interesse che hanno caratterizzato gli ultimi anni. Si pensi che ad aprile 2013 Monti e Grilli, nel DEF, prevedevano che l’Italia avrebbe pagato nel 2017 interessi passivi per 109 miliardi, diventati 91 miliardi ad ottobre dello stesso anno e poi ridottisi fino a 66 miliardi a consuntivo, esclusivamente per merito della caduta dei tassi di interesse. Si parla di decine di miliardi di minori spese, di cui hanno beneficiato i governi precedenti e che, di converso, ben segnalano la vulnerabilità dell’Italia su questo fronte. Possiamo certo condividere la voglia di confrontarsi con asprezza in sede europea e di non subire il ricatto dei mercati finanziari internazionali, ma risulta evidente la necessità di una strategia politica e di convincimento attenta, il pericolo essendo, altrimenti, l’entrata in una spirale che potrebbe minare non solo la costruzione europea ma anche le basi economiche del sistema italiano.
Tale opera di convincimento dovrà necessariamente passare per la dimostrazione che le politiche fiscali europee hanno fallito negli ultimi anni e che una qualche espansione fiscale è indispensabile al paese per non morire. In tal senso, andrà necessariamente argomentato con forza che gli ambiti di maggiore spesa prevista potranno avere un effetto espansivo che permetterà di compensare l’ampliamento del deficit: se l’aumento del deficit porta ad una maggiore crescita economica (del PIL, o come preferiremmo, degli indicatori di sviluppo economico e sociale) le basi del sistema stesso si allargano e lo stesso rapporto deficit / PIL può ridursi.
Andiamo così a trattare gli obiettivi della manovra, i progetti di spesa e di entrata, e qui francamente sorgono troppe perplessità. Il rischio è che di nuovo, come già successo nelle precedenti legislature, i miliardi che si vanno a strappare in qualche modo siano poi impiegati per iniziative estemporanee che, non inserite in un contesto organico e complessivo, non potranno tradursi nell’agognato sviluppo.
Premettiamo che non possiamo parlare, in assenza di testi, del piano di investimenti preannunciato dal ministro Di Maio, possiamo solo augurarci che tale piano veda la luce e contempli, come promesso, non poche grandi opere ma molte piccole opere di diretto impatto sui cittadini (pendolarismo, risanamento ambientale,…), non nascondendoci che problemi amministrativi e tempi di realizzazione richiederanno un’azione costante che vada ben al di là degli stanziamenti di bilancio.
Venendo alla politica impositiva, al di là della neutralizzazione delle clausole di salvaguardia, contano da un lato la ribadita volontà di perseguimento della flat tax, pur con caratteristiche ancora da definire e, dall’altro, quello che di fatto viene letto come un ampio condono fiscale e, forse, contributivo. Se l’estensione a partite IVA e piccoli imprenditori della flat tax già introdotta sui redditi d’impresa e del regime dei contribuenti minimi potrà avere un qualche impatto positivo (ma a quali costi?), è il disegno complessivo che ci vede, non da ora, contrari, innanzitutto perché nega i principi di progressività e di capacità contributiva indicati dalla nostra Costituzione, in secondo luogo perché, tecnicamente, operare su riduzione di aliquote generalizzate ha un costo immensamente superiore rispetto ad operare con detrazioni che vadano riducendosi all’aumentare del reddito e, infine, perché per l’ennesima volta viene riproposta la favola che una riduzione delle imposte avrebbe effetti espansivi senza ricordare che, a fronte di tale riduzione, sta necessariamente una riduzione di investimenti e servizi pubblici quali scuola, sanità,…. Quanto alla cosiddetta “pace fiscale”, essa non fa che legittimare una volta di più l’evasione, all’insegna di un condono presentato come l’ultimo e che l’ultimo non sarà, a scapito di coloro che tasse e imposte le pagano. Vero è che, contestualmente al condono, viene annunciato l’inasprimento delle pene, con una nuova norma in stile “manette agli evasori”, ma ciascuno di noi può ben pensare quale potrà essere l’efficacia di una tale norma.
Piuttosto, sarebbe opportuno rafforzare oltre ai controlli, gli incentivi alla regolarità fiscale. Un punto di vista che non sembra la maggioranza si ponga, col risultato che le cose potrebbero anche peggiorare come effetto della misura che più di altre il movimento cinque stelle vorrebbe intestarsi, quella dell’introduzione dei cosiddetti reddito e pensione “di cittadinanza”: perché con le pensioni minime tutte a 780 euro, con nessun premio aggiuntivo per chi ha pagato contributi lavorativi, il livellamento significa che soprattutto i lavoratori più poveri, che non arriveranno a pensioni significativamente superiori a quella cifra, avranno contribuito negli anni a nessun fine. Idem varrà col reddito di cittadinanza, se si riconfermerà quanto già vale per il REI, ovvero che un eventuale reddito da lavoro andrà (salvo casi limitati) a ridurre in pari misura la prestazione, col risultato di generare una trappola della povertà.
In generale, la parte di contrasto alla povertà, con l’introduzione del beneficio di 780 euro mensili, è comunque la misura sociale cui si deve guardare con massima attenzione e favore. 10 miliardi sulla povertà (si spera aggiuntivi ai 3-4 già stanziati per il REI e a quelli che serviranno per le pensioni) e la previsione di una platea di oltre 6 milioni di individui potrebbero segnare una discontinuità forte nelle politiche italiane. Molto dipenderà dalla realizzazione pratica e dal raccordo della misura con quanto già esistente.
Si è già detto che, in ambito pensionistico, il livellamento a 780 euro rischia di neutralizzare quel principio del sistema pensionistico contributivo tanto sbandierato negli ultimi anni, che i contributi sociali non sono per il singolo individuo altro che risparmio pensionistico; servirebbe a questo punto inserire la pensione a 780 euro in un contesto più generale di riforma del sistema, nel quale poco a poco i 780 euro diventano universali e finanziati fiscalmente, con la pensione contributiva che si aggiunge a quest’ultima e una corrispondente riduzione degli oneri contributivi, ma non sembra che una riforma organica del sistema sia stata ventilata.
Quanto al reddito di cittadinanza per i non pensionati, bisognerà vedere se la strada intrapresa sarà quella di un mero sussidio monetario, se di una misura di welfare to work, o di una misura di sostegno anche di tipo sociale. Attualmente, la più volte richiamata volontà di introdurre il reddito in parallelo con l’ormai inderogabile rilancio dei servizi per l’impiego, indica la volontà di condizionare la misura alla sola disponibilità all’attivazione lavorativa. Viene da chiedersi se tale condizionamento non segni un regresso rispetto all’attuale reddito di inclusione, che supera l’impostazione “welfare tu work” prevedendo un’analisi e un progetto individualizzati, nei quali se il problema economico è puramente lavorativa si attivano i servizi per l’impiego, ma se emergono – come spesso succede – altri tipi di bisogni e fragilità da parte dell’individuo e della sua famiglia, l’amministrazione comunale è obbligata ad offrire una esplicita presa in carico da parte dei servizi sociali.
L’ultima misura, ampiamente annunciata per quanto ancora di incerta specificazione, è quella sull’ammorbidimento delle norme sui pensionamenti, con l’adozione di una qualche versione di “quota 100”, quale somma di età anagrafica e anzianità contributiva minime per accedere al pensionamento. Qui il dato di fatto, sul quale Sbilanciamoci si è già soffermato in passato, è quello di una riforma Monti Fornero che, nell’ansia di ridurre immediatamente il profilo di spesa pensionistica, in un contesto di crisi economica ha fatto sì che in Italia (estremizzando) si siano costretti vecchi con la quinta elementare a rimanere al lavoro e al tempo stesso si siano tenuti fuori dal mercato del lavoro i giovani laureati. Il superamento dei requisiti della riforma del 2011 può dunque servire per rilanciare la produttività e lo sviluppo, ma di nuovo bisognerà vedere come si tradurrà concretamente in atti normativi: i costi nell’immediato rischiano di essere molto significativi, anche se potrebbero almeno in parte venir riassorbiti nel medio e lungo periodo, giacché a coloro che andranno in pensione prima dovrebbero essere pagate pensioni di importo proporzionalmente più basso. In ogni caso, la misura non potrà sicuramente essere finanziata con il solo prelievo di solidarietà sulle pensioni di importo più consistente, mentre, onde evitare effetti perversi, dovrà essere opportunamente raccordata sia con quella relativa ai 780 euro mensili, che con le norme che attualmente prescrivono l’aver maturato una pensione di un ammontare minimo per il pensionamento prima dei 70 anni.
Se dunque c’è da plaudire alla scelta della manovra di esplicita messa in discussione dell’ortodossia del fiscal compact, ci si aspettano atti consequenziali anche sul piano normativo, a cominciare dalla messa in discussione della costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, mentre i rischi di conflitto con la UE dovranno essere gestiti con grande attenzione. Quanto ai contenuti della manovra, ancora troppo confusi sono i dettagli tecnici e concreto il rischio che l’implementazione concreta degli annunci mostri seri limiti e tenda a caratterizzarsi come sommatoria di interventi pur in sé condivisibili (o fortemente criticabili) senza, in ogni caso, venire inserita in un quadro organico e coerente.