Top menu

I sonnambuli europei

Il vertice di Bratislava dei capi di Stato e di Governo è stato del tutto inutile rispetto alla possibilità di portare avanti in qualche modo il progetto europeo, o anche di salvaguardarne alcune delle fondamenta

Dunque il vertice di Bratislava dei capi di Stato e di Governo, come abbiamo già ricordato in un precedente articolo apparso su questo stesso sito in data 25 settembre 2016, è stato del tutto inutile rispetto alla possibilità di portare avanti in qualche modo il progetto europeo, o anche semplicemente di salvaguardare alcune delle sue fondamenta; ma si è trattato, per altro verso, soltanto dell’ultimo episodio di una lunga serie di incontri che hanno portato agli stessi inconcludenti risultati. Non mancavano certo i problemi molto seri che dovevano essere affrontati, ma i nostri rappresentanti hanno preferito parlare d’altro. Eppure prima della riunione di Bratislava Jean-Claude Juncker aveva dichiarato che l’Europa attraversa una crisi esistenziale e le dichiarazioni della Merkel (“l’Europa è in una situazione critica”) non sembravano molto diverse.

In un certo senso, i governanti europei fanno pensare da tempo alle conclusioni di un testo relativamente recente di uno storico inglese, volume che, nonostante la sua mole – è lungo circa 700 pagine-, ha avuto un rilevante successo in libreria in vari paesi. Si tratta de I sonnambuli di Christopher Clark, pubblicato nel 2014. Esso ricostruisce le vicende che ruotano intorno alla prima guerra mondiale e mostra come i potenti di allora erano, appunto, come dei sonnambuli, che si occupavano di cose del tutto triviali, senza riuscire a vedere, meno che mai ad evitare, l’orrore che essi stessi stavano per portare al mondo. Nessuno si accorse in particolare che stava per scoppiare una guerra devastante e nessuno fece sostanzialmente alcunché per fermarla.

Per altro verso, un grande intellettuale, nato nel 1881 a Vienna, che ha soprattutto operato tra le due guerre, Stefan Zweig, ricorda nelle sue memorie come sotto la superficie, che nei primi anni del Novecento appariva molto serena, la nostra Europa era in realtà piena di correnti sotterranee minacciose. Egli ha visto un continente, dove la vita era prima piacevole, affondare rapidamente due volte, con la prima guerra mondiale e con l’avvento del regime nazista (Frachon, 2016). Potremmo aggiungere, ad abundantiam, anche la crisi economica del 1929.

Minacciose correnti sotterranee sembrano di nuovo percorrere di questi tempi il nostro continente. Esse hanno la faccia di Orban, di Kaczinsky, di Le Pen, di Salvini, dell’olandese Wilders. Essi portano avanti gli slogan di valori e identità nazionali, malmenano le libertà pubbliche, o minacciano di farlo, vogliono reintrodurre la pena di morte, ecc., preparando così il terreno a un quadro piuttosto spiacevole (Frachon, 2016). Ma dietro questa agitazione ci sono certamente dei problemi non risolti.

Politica monetaria e politica fiscale

In tale quadro, l’economia non sembra avere giorni particolarmente felici davanti a se. Come è ormai ampiamente chiaro, gli esperimenti di politica monetaria accomodante portati avanti dalla BCE non sembrano aver dato grandi frutti, anche se forse essi hanno aiutato a evitare il peggio, in particolare per quanto riguarda la situazione dei paesi del Sud Europa e le prospettive dell’Unione. Nella sostanza, essi non hanno in particolare prodotto l’attesa espansione della domanda aggregata. La grande liquidità immessa sul mercato con le operazioni di quantitative easing è rimasta nelle mani di banche e di speculatori. Ma l’azione degli istituti di emissione era in ogni caso anche giustificata dalla volontà di dare tempo ai governi per agire utilizzando la leva fiscale. Ma il tempo passa e da quel lato non succede niente.

Certamente la richiesta di un ritorno alle politiche fiscali e all’ipotesi di un aumento degli investimenti pubblici in Occidente, in particolare da parte di paesi come la Germania e gli Stati Uniti, si fa comunque abbastanza sentire negli ultimi tempi da diverse fonti.

Spingono ora in tale direzione, con un’unanimità piuttosto insolita, il Fondo Monetario Internazionale, l’Ocse, la stessa recente riunione del G20 (Petit, 2016); si sottolineano, tra l’altro, gli effetti moltiplicatori elevati e l’influenza favorevole sulla crescita economica di certi investimenti pubblici.

L’indicazione appare sulla carta certamente condivisibile, ma quale è la probabilità che un tale tipo di politica sia applicata presto di qua e di la dell’Atlantico?

Nonostante le esortazioni, in effetti solo il Giappone prevede per il 2017 il ricorso a tale arma: ma sappiamo quanto la situazione del paese sia disperata, almeno a livello di crescita economica. Negli Stati Uniti ambedue i candidati alla presidenza promettono un aumento degli investimenti, ma in realtà chiunque vinca si dovrà poi misurare con un Congresso presumibilmente ostile, come per il passato; è abbastanza facile prevedere che non se ne farà niente (Petit, 2016).

Nella zona euro non c’è comunque ad oggi segno della volontà di cambiare politica. Se forse il sentimento prevalente e la riflessione sono cambiati, la pratica resta quella di sempre (Petit, 2016) ed essa ha il volto della Merkel e del suo scudiero Schauble.

Come abbiamo già indicato nel precedente articolo, W. Munchau, dalle colonne del Financial Times, ritiene che solo un’altra crisi potrebbe riuscire a mettere con le spalle al muro i sonnambuli. Ma, secondo noi, forse neanche quella.

Anche Draghi, in un agitato incontro con i parlamentari tedeschi della fine di settembre, ha ricordato per l’ennesima volta la necessità di fare di più per la crescita in Europa.

Ma, nello stesso incontro, egli si è invece dovuto difendere dalle accuse di molti parlamentari che lo ritenevano, con la sua politica di bassi tassi di interesse, responsabile almeno in parte delle attuali difficoltà delle banche tedesche, Deutsche e Commerzbank in primis (Shotter, 2016).

Non sembra essere valsa a molto l’affermazione dell’italiano che i problemi di tali istituti derivavano invece probabilmente dal loro modello sbagliato di sviluppo (ha evitato di ricordare loro, per buona educazione, lo scandalo americano della Deutsche, che costerà alla banca almeno 5 miliardi di dollari –se non molto di più- di penalità, né quelli precedenti, negli Stati Uniti ed altrove), né l’aver sottolineato che con la politica dei bassi tassi di interesse la Germania ha risparmiato in questi anni circa 30 miliardi di euro di minori costi.

Quos deus vult perdere ementat.

Testi citati nell’articolo

-Frachon A., Trump, Mme Le Pen et Stefan Zweig, Le Monde, 23 settembre 2016

-Petit J-P., Les faux espoir d’une relance budgétaire mondiale, Le Monde, 24 settembre 2016

Shotter J. e altri, Draghi and Berlin into Deutsche Bank troubles, www.ft.com, 28 settembre 2016