Top menu

Gli Stati Uniti, la pandemia, la crisi e le svolte epocali

Il New York Times affronta il tema degli effetti drammatici della pandemia negli Stati Uniti collegandolo al tradimento dei valori della democrazia e dell’uguaglianza in un paese ostaggio dei gruppi più ricchi e influenti. È tempo di una svolta per gli Usa. E per tutti gli altri, a partire dall’Italia.

Gli americani sono tendenzialmente pragmatici. Non sempre, non tutti. Nel 2016, ad esempio, hanno scelto di eleggere il peggior presidente di sempre per protestare contro l’establishment. Ma nonostante questo, se interpellati tendono ad avere opinioni giuste su molte cose, almeno di questi tempi. Consci del fatto che la loro società contemporanea si regge su una serie di storture determinate dagli ultimi 40 anni di politiche, la maggioranza è convinta che il college debba costare meno, che la sanità debba essere più accessibile, che i ricchi debbano pagare più tasse e che occorra una qualche forma di controllo per le armi. Solo per fare esempi di temi al centro del dibattito politico di ieri e di oggi.

E, a proposito di pragmatismo, al ritiro di Bernie Sanders dalle primarie, Joe Biden ha avanzato due nuove proposte: portare l’età per accedere all’assicurazione sanitaria pubblica Medicare a 60 anni (oggi 65) e condonare il debito universitario alle famiglie con redditi bassi e medi. Niente di trascendentale, ma un passo nella direzione giusta. Il pragmatismo degli americani, va detto, tende a essere incrementale. In fondo lo fu anche negli anni del New Deal. Quel che è certo è che qui le crisi tendono più che altrove a cambiare gli scenari politici e spesso inaugurano nuove “ere”, a prescindere dalle figure politiche che le incarnano. Roosevelt aveva un bagaglio progressista da governatore di New York, ma Lyndon Johnson era un texano relativamente conservatore e maneggione. Ci sono anche svolte pragmatiche negative, sia chiaro, altrimenti gli Usa sarebbero un altro Paese: a modo suo l’11 settembre inaugura ad esempio un’era di proiezione internazionale senza progetto.

Tutto questo per segnalare un lungo editoriale del Board del New York Times che vale la pena riprendere e tradurre in parte. L’articolo sceglie gli esempi di Lincoln e Roosevelt come presidenti che hanno avuto coraggio di fronte a una crisi, uscendone cambiando il Paese. “Franklin Roosevelt si dimostrò lungimirante quando concluse che il modo migliore per rilanciare e sostenere il benessere non era semplicemente quello di pompare denaro nell’economia, ma di riscrivere le regole del mercato”, si legge nei primi passaggi di questo articolo dal titolo “The America We Need”.

“La pandemia di Coronavirus ha messo a nudo ancora una volta la natura incompleta del progetto americano – la grande distanza tra le realtà e i valori enunciati nei suoi documenti fondativi (…). L’attuale crisi ha rivelato che gli Stati Uniti sono un posto dove i giocatori di basket professionisti possono ottenere un test rapidamente, mentre gli operatori sanitari no; in cui i ricchi possono ritirarsi nella sicurezza delle loro seconde case, affidandosi per la consegna del cibo a lavoratori che non possono prendere permessi pagati per malattia; in cui i bambini delle famiglie a basso reddito faticano a connettersi alle aule digitali dove dovrebbero fare lezione.”

Gli esempi del New York Times sono tanti: diseguaglianze di reddito, sanitarie, fiscali, e poi il caso dell’autista di autobus di Detroit che ha dovuto continuare a guidare nel mezzo dell’epidemia ed è morto di Coronavirus (qui il video in cui si lamentava dei passeggeri che tossivano senza nemmeno coprirsi la bocca). Del resto, i dati sulla mortalità negli Stati in queste settimane o la demografia di vittime e contagiati ci dice qualcosa su un sistema sanitario diseguale e su una società che continua a marginalizzare intere fette della propria popolazione, con i neri che muoiono ovunque in numeri più alti dei bianchi. E il fatto che le mense scolastiche siano rimaste aperte e distribuiscano pasti anche con le scuole chiuse è il segnale di un Paese in cui per milioni di bambini e ragazzi il pasto buono e nutriente è solo quello della mensa.

Si badi, se l’epidemia arrivasse con la stessa intensità in certi Stati, anche i bianchi morirebbero, dal momento che in Oklahoma o Indiana (per fare due esempi) i trailer parks, i campeggi di case mobili, ospitano quasi solamente bianchi poveri in canna che ancora somigliano alla famiglia Joad raccontata (in film) da John Ford in Furore. E che naturalmente non votano o votano repubblicano per qualche strano mistero della politica che rende molto parziale il famoso motto di James Carville stratega di Bill Clinton, “It’s the economy, stupid” – “è l’economia, stupido” per chi vota, per chi è cittadino in senso compiuto. E infatti i più ricchi sono anche i più influenti e più capaci di orientare le politiche pubbliche nella direzione loro preferita.

Per questo, dice bene il Board del New York Times quando scrive: “Alcuni politici affermano che la natura straordinaria della crisi non giustifichi cambiamenti permanenti al contratto sociale. (…). L’ampiezza di una crisi è determinata non solo dall’impatto degli eventi, ma anche dalla fragilità del sistema che attacca. La nostra società è stata particolarmente vulnerabile a questa pandemia perché a molti americani manca la libertà essenziale di proteggere la propria vita e quella delle loro famiglie. Questa nazione era malata molto prima che il Coronavirus raggiungesse le sue coste”.

E la malattia è una male intesa idea di libertà. Non quella dal bisogno e dall’insicurezza, ma quella “dal dovere civico, dall’obbligo reciproco, dalla tassazione. Questa visione minimale della libertà ha protetto la ricchezza e i privilegi. Ha perpetuato le disuguaglianze razziali, ha tenuto i poveri intrappolati nella povertà, e i loro figli, e i figli dei loro figli”. Un altro esempio del Times è quello delle comunità segregate d’America, nate per scelte politiche e non per caso (ne ho scritto per il manifesto qui).

Nel Paese che si auto-definisce The Land of Oppurtunity, le opportunità sono sempre meno. “Gli Stati Uniti non garantiscono la disponibilità di alloggi a prezzi accessibili ai propri cittadini (…). Non garantiscono l’assistenza sanitaria, come praticamente fa ogni altro Paese sviluppato. Il costo dell’istruzione universitaria è tra i più alti del mondo sviluppato. E, al di là della natura precaria della rete di sicurezza americana, il governo si è tirato indietro dagli investimenti nelle infrastrutture, nell’istruzione e nella ricerca scientifica di base, gli elementi costitutivi della prosperità futura. Non sorprende che molti americani abbiano perso fiducia nel governo come veicolo per raggiungere ciò che non possiamo raggiungere da soli”. Ecco un tema che andrebbe ricordato ai cantori di sinistra delle opportunità: le opportunità per crescere valgono quando il campo da gioco è uguale per tutti, e a partire dagli anni ’80 quel campo è in discesa per chi parte in alto e sempre più ripido per gli altri. Negli Stati Uniti, in Italia e altrove.

Se le opportunità erano poche prima del Coronavirus, oggi le cose negli Stati Uniti vanno anche peggio, con un numero di disoccupati da Grande Depressione e moltissime piccole attività che rischiano di non riaprire. E le istituzioni non sembrano avere in mente soluzioni. Già si discute di un quarto strumento legislativo di spesa per il salvataggio dell’economia, visto che quello da duemila miliardi di dollari appare insufficiente e che l’amministrazione Trump e le banche stanno facendo di tutto per renderlo uno strumento di consenso e non di aiuto a chi ne ha bisogno – il presidente ha licenziato l’ispettore generale nominato come controllore e messo al suo posto un uomo di sua fiducia, mentre i grandi istituti finanziari salvati con soldi pubblici nel 2008 evitano di concedere credito ai piccoli imprenditori anche ora che quel credito è garantito dallo Stato.

In questo quadro “Ciò di cui l’America ha bisogno è un governo giusto e attivista. La natura della democrazia è che abbiamo una responsabilità collettiva nel salvarci. (…). (I)l Paese è oppresso da una leadership debole – e ha la possibilità di sostituire tale leadership, come nel 1860 e nel 1932. (…). C’è anche bisogno di nuove idee, e di rilanciarne di vecchie, su quali siano gli obblighi dello Stato nei confronti dei cittadini, su quanto le imprese debbano ai loro dipendenti e su quanto dobbiamo gli uni agli altri”.

Il New York Times pubblicherà una serie di articoli basati su proposte per cambiare lo stato di cose esistente, non abbatterlo, non rivoluzionarlo, ma farlo funzionare come dovrebbe. Un Paese dove il gruppo sociale più in crescita – e che approfitterà dell’epidemia per crescere ancora – non paga tasse e non offre protezioni minime ai suoi dipendenti, non è un Paese che possa funzionare. Quali idee ci sono e quali servono per trasformare questa situazione disastrosa? Nel 2008 qualcuna ne circolò, ma si scelse un piano di piccoli incrementi – anche in ragione dei difficili equilibri in Congresso, dove anche la maggioranza democratica di Obama aveva paura di votare la sua moderata riforma sanitaria, imposta a forza da Nancy Pelosi al suo gruppo parlamentare. Non bastarono e non cambiarono le cose. Per questo Bernie Sanders ha avuto tanto successo e idee che non avevano cittadinanza nel quadro politico americano oggi ne hanno. E per questo il quotidiano più prestigioso d’America, un quotidiano di sinistra moderata, sceglie di pubblicare un editoriale tanto radicale. “Gli Stati Uniti hanno la possibilità di uscire da questa crisi come un Paese più forte, più giusto, più libero e più resiliente. Dobbiamo cogliere questa opportunità”.

A differenza di altri Paesi europei, meno colpiti da questa come da crisi precedenti e con uno Stato efficiente e più ricco, l’Italia vive una condizione simile a quella americana. Anzi peggiore, dal momento che gli Usa in quanto a ricerca e capacità di innovazione sono ancora relativamente forti. Sarebbe ora di cominciare a pensare in grande anche qui da noi. Non solo per proteggere quelli che sono più in difficoltà a causa della crisi, ma per cominciare a immaginare una qualche forma di futuro. Un gioco a cui non giochiamo più da tanti, tanti anni.