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Conseguenze economiche e finanziarie della guerra

Nel reticolo di interessi non è semplice definire chi è destinato a guadagnare e chi a perdere dalla guerra. Sicuramente l’Europa ha da perderci più di chiunque, con rischi di recessione in caso di prolungamento della crisi. E la Russia viene costretta a una alleanza più stretta con la Cina.

Questo articolo non vuole coprire tutte le tematiche economico-finanziarie legate alla guerra in Ucraina e alle sanzioni occidentali, ma guardare soltanto ad alcune di esse, con particolare riferimento al ruolo della Cina nella crisi e, in misura minore, alle possibili conseguenze del tutto per il quadro europeo. 

E’ ben noto che con le guerre c’è sempre chi ci guadagna e nel nostro caso faranno salti di gioia certamente i produttori di armi (anche noi ne abbiamo qualcuno; così, mentre la Borsa italiana quasi crollava in un giorno, perdendo più del 6% del suo valore, il titolo Leonardo guadagnava il 15%). Macron ha dichiarato che i 50 miliardi di euro stanziati in bilancio dalla Francia per il 2022 non bastano più, mentre, come è noto, Scholz ha annunciato in fretta la creazione di un fondo di 100 miliardi di euro per il settore, senza neanche informare i suoi alleati di governo; attendiamo un qualche annuncio italiano in proposito. Intanto partono dalla UE e dagli USA grandi carichi militari per l’Ucraina. Ma non mancheranno di arricchirsi anche i trader di prodotti energetici ed agricoli, nonchè di molti minerali, oltre che, come sempre, gli speculatori di Borsa.

Un difficile equilibrio

La Cina si trova in una situazione molto complessa e delicata. E’ noto come  sia molto amica della Russia, mentre meno noto è che intrattiene rapporti cordiali anche con l’Ucraina, essendone, tra l’altro, il primo paese importatore ed esportatore, mentre l’Ucraina ha aderito al progetto di nuova Via della Seta. Manifestando grande sangue freddo, proprio alla vigilia dell’invasione, società cinesi hanno acquisito il controllo della Borsa di Kiev. Sullo sfondo c’è il rapporto con gli Stati Uniti, che minacciano sanzioni se la Cina aiuterà la Russia.

Il governo cinese ha dichiarato a più riprese di essere favorevole ad un meccanismo di sicurezza europeo “equilibrato”, sottolineando come appaia necessario rispettare le legittime preoccupazioni in materia di sicurezza di tutti i paesi (compresa quindi, è sottinteso, la Russia), ma nello stesso tempo, ha aggiunto che bisogna anche rispettare l’integrità territoriale di tutti i paesi (compresa quindi l’Ucraina). Ricordiamo che Pechino non si intromette in generale negli affari interni di altri paesi, accusando invece – e correttamente – i paesi occidentali di farlo continuamente. 

Quindi la Cina è per una soluzione negoziale del conflitto (la stessa Ucraina le ha chiesto di provare ad aiutare il processo e più di recente anche gli Stati Uniti, mentre minacciano sanzioni in caso il paese asiatico aiutasse la Russia, sembra abbiano chiesto il suo intervento per aiutare il processo di pace) e cercherà presumibilmente, ma molto in sordina, di spingere i due contendenti a trovare un’intesa, mentre non è chiaro quale sia alla fine il suo reale potere negoziale. Bisogna considerare, tra l’altro, che la Russia perseguirà i suoi obiettivi in Ucraina quale che sia l’atteggiamento della Cina. In ogni caso essa si trova, come al solito ormai da tempo, al centro della scena anche suo malgrado e lo sarà presumibilmente ancora di più in un prossimo futuro. 

Sul piano economico la Cina può essere molto danneggiata dalla guerra. Nel 2021 il paese ha importato gas e petrolio per 316 miliardi di dollari e per quasi 200 miliardi di minerale di ferro, senza prendere poi in conto il potenziale impatto inflazionistico dei prezzi più elevati delle materie prime e le perturbazioni nelle catene di fornitura globali. 

Russia-Cina, un matrimonio di convenienza e le analogie con il caso iraniano

Le sanzioni spingono necessariamente la Russia, come è già stato scritto, nelle braccia della Cina, anche se non è chiaro dove tale alleanza potrà arrivare operativamente e quanto la Cina vorrà e potrà fare.

Intanto le sanzioni incideranno certamente sul livello del Pil del paese. L’Iran, dopo vari episodi precedenti, sottoposto alle sanzioni di Trump, in un primo tempo, nel 2018 e 2019, ha visto il suo Pil pro-capite scendere del 15%, mentre l’inflazione è andata alle stelle; ma l’economia iraniana non è collassata e si è stabilizzata ad un nuovo livello e questo attraverso anche le vendite di contrabbando o mascherando l’origine dei prodotti, una politica di import substitution. Di sicuro le sanzioni incideranno sulla diversificazione dei suoi sbocchi commerciali grazie anche alla sua relativamente forte base industriale. Teheran ha continuato ad esportare ogni giorno 1 milione di barili di petrolio grazie alla Cina e ad altri paesi. Un destino per qualche aspetto simile si potrebbe configurare per il caso russo. Qualcuno prevede per quest’anno per la Russia una caduta del Pil che si dovrebbe aggirare intorno al 7-9%, mentre il livello di inflazione potrebbe raggiungere il 17%. Ma si può valutare che neanche l’economia rissa non collasserà, mentre è più facile che ciò avvenga per quella ucraina.

Quello tra la Russia e la Cina appare un matrimonio di convenienza  -i due paesi non si amavano tradizionalmente troppo-, in cui comunque i rapporti di forza sono tutti a favore del secondo attore citato. Si tratta in ogni caso di due economie complementari.

Un quadro della situazione nei vari comparti    

Sul piano finanziario l’esclusione parziale dalla rete Swift (non sono comprese nel blocco le transazioni in petrolio e gas), che quindi non appare più, almeno per il momento, l’ ”arma nucleare” di cui si parlava, non può che portare la Russia a inserirsi nella rete autonoma cinese, la Cips, che stentava a decollare e che potrebbe ora trovare nuova linfa per la sua crescita. La crisi potrebbe contribuire più in generale a aumentare gli sforzi cinesi di rendersi sempre più autonomi dal dollaro, attivando tra l’altro ancora più velocemente il renmimbi virtuale. Ma si tratta di uno sforzo di lunga lena che ha bisogno di tempo per essere portato a compimento e i cinesi procedono cautamente. 

Il 26 febbraio del 2022 le potenze occidentali hanno congelato le riserve della Banca centrale russa detenute presso le loro istituzioni monetarie. Questa misura appare senza precedenti e rappresenta, come sottolinea un articolo di Le Monde dell’11 marzo, un colpo di tuono nel pianeta monetario. Il congelamento lascerà forti tracce perché significa che la sicurezza delle riserve di un paese detenute all’estero non è più garantita per nessuno. Ciò spingerà molti paesi a diversificarsi, almeno in parte, dal dollaro e a impiegare una fetta delle loro riserve anche in Cina, spingendo anche da questo lato ad una crescita della moneta cinese, anche se il cammino per un suo ruolo di primo livello appare ancora lungo. 

Ricordiamo che l’UE è il principale partner commerciale della Russia, con quest’ultima che esporta quasi tre volte tanto verso la UE che verso la Cina, anche se gli accordi tra i due paesi mirano a portare presto l’interscambio a 250 miliardi di dollari all’anno contro i 147 del 2021. 

L’Ue è oggi il principale acquirente del gas russo, anche se proprio in queste settimane Cina e Russia si sono messe d’accordo per la costruzione di un nuovo gasdotto che porterà il gas in Cina dagli stessi giacimenti da cui esso parte oggi per l’Europa, rendendo in 2-3 anni la Russia meno dipendente dalle vendite in Europa.  

Come la Russia se la potrebbe in parte cavare

Intanto ci sono le entrate derivanti dalla vendita del gas in Occidente e che non sono certo trascurabili, mentre la Russia continuerà a cedere il suo gas e il suo petrolio anche a molti altri paesi del mondo. La Russia sta cercando, apparentemente con successo, di stringere più forti accordi con l’India, terzo più grande paese importatore di energia al mondo – e che tra l’altro si trova di fronte alla collera della popolazione per il forte aumento del prezzo dei carburanti – offrendo prezzi scontati e l’utilizzo negli scambi delle rispettive valute nazionali, utilizzando come punto di riferimento lo yuan cinese, sia per il petrolio come per i fertilizzanti. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno annunciato l’8 marzo il blocco delle importazioni russe di petrolio. Di fatto, nonostante diverse dichiarazioni contrarie, tra cui anche quelle del sempre meno credibile gruppo dirigente della UE a Bruxelles, l’UE non può fare a meno del gas russo, se non in un’ottica di medio termine (forse 5-7 anni). 

Ricordiamo incidentalmente che l’Occidente non è il mondo e che molti Stati in Asia, Africa, America Latina non hanno condannato l’invasione dell’Ucraina, o lo hanno fatto in modo blando. Per quanto riguarda direttamente la Cina, essa può assorbire, volendo e potendo, grandi quantità di prodotti energetici. 

La Russia possiede, tramite la sua Banca centrale e una banca di sviluppo, circa 140 miliardi di dollari in obbligazioni del paese asiatico, circa un quarto delle sue riserve valutarie, ma ovviamente denominate in yuan, denaro che può utilizzare per far fronte alle sue necessità, ma solo nei casi in cui può utilizzare la moneta cinese. I giornali hanno cominciato a raccontare qualche giorno fa che presso le filiali moscovite delle banche cinesi già centinaia di imprese russe erano arrivate chiedendo di aprire dei conti in yuan, mentre diverse imprese dello stesso paese cominciano ad accettare pagamenti nella stessa valuta. Si racconta di una fabbrica di cioccolato russa che ha esaurito le sue scorte di alcuni prodotti grazie all’acquisto on-line da parte di molti cinesi che simpatizzano per la causa del “paese amico”. Anche un’impresa ucraina di cioccolato ha cercato di fare lo stesso tipo di operazione, ma i giornali non dicono se e con quale successo. In questi giorni gli scambi commerciali sembrano procedere abbastanza regolarmente nei due sensi, con qualche eccezione; alcune imprese cinesi che hanno incorporati nei loro prodotti componenti statunitensi, si stanno ritirando dalla Russia (vedi il caso Lenovo).

Molti investitori cinesi, dopo l’annuncio delle sanzioni, si sono precipitati ad acquistare titoli azionari di una decina di imprese del loro paese che hanno rapporti d’affari rilevanti con la Russia, nell’aspettativa di un aumento delle attività tra Mosca e Pechino. Una scelta azzardata? Intanto il valore di tali titoli è salito fortemente. 

E’ d’altro canto da registrare che la grande banca AIIB, formata a suo tempo su iniziativa di Pechino per fornire finanziamenti a progetti dei paesi emergenti e della quale i tre principali azionisti sono Cina, India e Russia, ha sospeso le operazioni per quanto riguarda i finanziamenti a Russia e Bielorussia, ma non all’Ucraina. La mossa, giustificata ufficialmente con l’aumento del rischio di credito, non ha alcun effetto pratico, perché in questo momento non c’è in ballo nessun progetto importante, ma segnala una certa attenzione e un messaggio del paese del dragone. La notizia potrebbe servire alla Cina anche per rimarcare come ci sia un’autonomia della banca rispetto al paese asiatico e sempre della Cina rispetto alla Russia. Infine si segnala che tra il 10 e il 14 marzo la Cina ha inviato due convogli con aiuti umanitari alla società della Croce rossa ucraina.

Aspetti della situazione economica dell’Europa dopo lo scoppio della guerra

Mentre con l’invasione dell’Ucraina l’UE ha mancato l’ennesima occasione per mostrare una sua voce autonoma rispetto a quella degli Stati Uniti, anzi indicando a tratti un volto più oltranzista, a Bruxelles c’è un clima di grande preoccupazione per le forniture di gas e di petrolio. Le stesse centrali a carbone europee hanno un ruolo chiave ancora oggi per assicurare gli approvvigionamenti del continente e non si saprebbe come sostituire il carbone russo con quello proveniente da altre fonti, almeno nel breve termine. Le fabbriche dell’auto europee, soprattutto quelle tedesche, si devono fermare perché mancano ormai i cavi elettrici, prodotti in Ucraina da importanti imprese, mentre tale difficoltà si aggiunge alla chiusura delle fabbriche dell’auto europee in Russia e mentre continua anche la carenza di semiconduttori. Le fabbriche occidentali in Russia hanno comunque chiuso.

Per quanto riguarda i minerali, segnaliamo il caso del palladio, di cui la Russia produce il 40% del totale mondiale e i cui prezzi sono aumentati di quasi il 50% da gennaio ai primi giorni di marzo (il metallo è utilizzato anche in Europa nella produzione dei catalizzatori delle marmitte nelle auto a benzina, nonché in quella dei semiconduttori). I due paesi sono produttori importanti anche di altri minerali e gas importanti, utilizzati nella produzione di chip, smartphone e veicoli elettrici. L’Ucraina vende circa il 90% del gas neon, usato in particolare nella produzione di semiconduttori. Sempre l’Ucraina vende il 40% del kripton, altro gas raro. Anche i prezzi di alluminio e nickel, di cui la Russia è un importante produttore, appaiono sotto tensione. Comunque il paese ha bloccato la loro esportazione. 

La Russia e l’Ucraina sono poi dei grandi produttori ed esportatori di cereali. Con i processi di riscaldamento climatico, la Russia in un paio d’anni ha sviluppato prodigiosamente i suoi raccolti ed oggi è il primo esportatore mondiale di grano, mentre l’Ucraina è poco da meno (il primo paese è anche il primo esportatore di fertilizzanti). I due paesi rappresentano oggi un terzo degli scambi mondiali e da quando è scoppiata la guerra i prezzi, che erano già prima in rilevante salita, sono aumentati ancora intorno al 40%. Va anche ricordato che, mentre nel luglio del 2019 il corso del grano era di 185 euro la tonnellata, l’8 marzo 2022 esso era salito a 370 euro. L’ultimo raccolto cinese, ed anche quello canadese, sono andati abbastanza male, mentre gli alti prezzi del carburante e dei fertilizzanti stanno facendo sì che gli agricoltori americani, pur in presenza di rilevanti aumenti nei prezzi del grano, si interroghino perplessi su quanto seminare la prossima volta. La Fao stima che sino al 30% delle aree coltivate a grano e a semi di girasole in Ucraina  non saranno seminate o non saranno poi raccoglibili, mentre anche un importante paese agricolo come l’Argentina blocca le esportazioni di diversi prodotti agricoli. I francesi si preoccupano già per la sacra baguette, mentre si scopre che l’Italia importa ogni anno il 50% del suo consumo di grano tenero e il 40% di quello duro (una volta almeno, la pasta si faceva nel nostro paese con il grano dell’Est). Soffriranno di più paesi come il Libano, la Libia, lo Yemen, il Bangladesh, l’Egitto (già il più grande esportatore di grano nell’impero romano ed oggi il più grande importatore del mondo), la Turchia ed un’altra decina di paesi che basano una parte significativa del loro consumo sull’Ucraina e sulla Russia. Per alcuni di questi paesi si minaccia una carestia. Russia ed Ucraina rappresentano anche un quinto del commercio mondiale di mais e circa l’80% della produzione dell’olio dai semi di girasole.

Incidentalmente si può segnalare come un particolare curioso il fatto che l’Ucraina è anche il più grande mercato nero di armi in Europa.

Note su inflazione e recessione

Le conseguenze della crisi ucraina sull’economia globale potrebbero dunque, ovviamente, essere molto rilevanti.

I primi mesi del 2022 registrano una crescita ulteriore del tasso di inflazione in Occidente, anche se va sottolineato che le ragioni dell’aumento dei prezzi sono in parte diverse tra Stati Uniti e UE. In febbraio nella UE l’inflazione ha raggiunto il 5,8% e si pensa che potrebbe superare il 7% da qui alla fine dell’anno se il conflitto dovesse durare, mentre sempre in febbraio negli Stati Uniti si registra un +7,9%, cifra che rappresenta indubbiamente un record di lunga lena. In particolare, come abbiamo già sottolineato, i problemi toccano i prodotti energetici, le altre materie prime e i cereali, cui si aggiungono ovviamente il panico e la speculazione, oltre forse all’ulteriore aggravamento delle questioni logistiche.

Intorno al 10 marzo il prezzo del gas ha raggiunto i 200 dollari per megavattora, mentre quello del petrolio brent era l’11 marzo a 112 dollari al barile e anche i prezzi del carbone sono aumentati moltissimo. Anche se nei giorni successivi c’è stato qualche ripiegamento dei valori, in concomitanza a qualche spiraglio che sembra aprirsi al tavolo delle trattative tra i due contendenti. Tra l’altro si vanno fermando in Europa fonderie, acciaierie ed altre imprese in settori energivori. Ricordiamo, come aggravante, che l’euro si va indebolendo contro il dollaro e che quindi i prezzi, che sono normalmente espressi in dollari, alla fine risulteranno nei paesi dell’euro ulteriormente in salita. Più in generale dalla crisi l’euro dovrebbe uscire indebolito, mentre si rinforzerà il dollaro, come sempre quando si manifesta qualche sciagura.

I prossimi aumenti dei tassi di interesse negli Stati Uniti dovrebbero avere presumibilmente l’effetto di portare ad un calo nelle quotazioni delle Borse, alimentate a suo tempo dal denaro facile. Ma si teme e a ragione soprattutto per quelle europee, che hanno già preso una china pericolosa.  In tale situazione, quanto potrà resistere la BCE nel tenere i tassi di interesse fermi? Ad un certo punto, come afferma qualcuno, le banche centrali, che vedono  fortemente complicato il loro compito di gestire con una certa tranquillità la fuoriuscita dalle conseguenze del Covid, potrebbero preferire la scelta di causare una recessione piuttosto che perdere la battaglia contro l’inflazione. 

Ci si può così chiedere se ne seguirà anche una forte caduta dell’economia. Molto dipenderà dalla durata della guerra e dai risvolti economici e politici della stessa. In ogni caso per il 2022 si può prevedere come minimo una forte riduzione dei tassi di crescita, se non una vera e propria recessione in Occidente, in particolare in Europa, recessione che appare sempre più probabile man mano che passano i giorni e i complessi fili che legano tra di loro tutte le economie si dipanano. In ogni caso gli Stati Uniti sembrano più protetti con il loro isolamento geografico, l’abbondanza delle risorse energetiche, il relativamente basso livello di scambi commerciali con il resto del mondo. Molto più gravi i problemi in Europa.

Si levano così voci pessimistiche. Il capo della Volkswagen, Herbert Diess, il 9 marzo, in una sua dichiarazione, ha avvisato che una guerra prolungata in Ucraina avrebbe conseguenze molto peggiori sull’economia europea rispetto a quelle portate dal coronavirus. L’interruzione nelle catene di fornitura globali potrebbe per lui avere come conseguenza forti incrementi di prezzi, scarsità di energia e inflazione elevata.

Ancora più pessimista Martin Wolf del Financial Times, che scrive come la combinazione del conflitto, degli shock nelle catene di fornitura e degli alti livelli di inflazione, appare inevitabilmente destabilizzante e conduce presumibilmente ad una crisi economica.  

A scorrere anche un solo numero de Il Sole 24 Ore, quello del 13 marzo, si possono leggere molti titoli allarmati: “Aziende senza materie prime”, “Allevamenti ko”, “Ghisa, poche alternative per uscire dallo stallo”, “Il distretto di Sassuolo senza argilla da piastrelle”, “Il record del grano gela le produzioni alimentari”, “Stangata sui costi di produzione, l’industria italiana va in panne”.  

Cosa succederà infine ai salari? Nel 2021 in tutti i paesi del G-7 essi sono rimasti indietro rispetto all’inflazione ed anche di molto, mentre molti “esperti” economici, a cominciare dal governatore della Banca d’Inghilterra, chiedono moderazione ai sindacati, ma non fanno lo stesso con le imprese.  Una situazione molto complicata e dagli esiti imprevedibili.