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Cinque piazze. Convergenze e dinamica della protesta

Dietro le 5 piazze delle manifestazioni di questi mesi ci sono organizzazioni, reti, condivisione di contenuti. Resta da vedere se si riusciranno a costruire spazi di incontro e metodi che permettano a identità e programmi di svilupparsi verso convergenze capaci di costruire un’alternativa politica.

Le piazze che si sono riempite in Italia in cinque occasioni in cinquanta giorni testimoniano certamente la presenza di un obiettivo comune, esprimendo una profonda insoddisfazione rispetto al governo di una estrema destra che, diversamente che in alcuni altri paesi, è al contempo profondamente neoliberista nelle politiche economiche e sociali e estremamente reazionaria in relazione ai diritti civili e politici. Da questo punto di vista le cinque giornate di protesta hanno focalizzato l’attenzione su rivendicazioni di giustizia (come nella giornata di sciopero generale proclamata il 17 novembre da Cgil e Uil contro una finanziaria che riduce i diritti dei cittadini ad uno Stato sociale e quelli dei lavoratori), ma anche contro l’attacco ai diritti civili e politici (nelle manifestazioni 7 ottobre in difesa della Costituzione, del 28 ottobre in solidarietà con il popolo palestinese e contro la guerra, e il 25 novembre nella giornata internazionale contro la violenza di genere). In tutte queste occasioni, la partecipazione è andata al di là bene delle aspettative degli organizzatori, testimoniando di una spinta dal basso.

Le piazze non sono importanti solo nel momento in cui si riempiono; spesso l’aspetto più rilevante nell’ottica di una convergenza è il percorso che porta alla piazza. Come nel caso dei Social Forum del movimento alterglobalista, è la fase dell’organizzazione di manifestazioni di protesta che offre l’occasione per incontri, conoscenze e costruzione di fiducia reciproca. Questo è tanto più importante quanto più ampio è il tema della protesta ed eterogenea la rete di chi l’organizza. E’ il caso per esempio della manifestazione nazionale del 7 ottobre a Roma, lanciata, accanto alla Cgil, da un centinaio di organizzazioni come Acli, Auser, Arci, Antigone, Articolo 21, CNCA, Anpi, Fondazione Basaglia, Fondazione Nilde Iotti, Gruppo Abele, Libera, Rete Italiana Pace e Disarmo, Rete Studenti Medi. L’obiettivo era la difesa e l’attuazione della Costituzione, non solo contro l’autonomia regionale differenziata e lo stravolgimento della Repubblica parlamentare, ma anche contro la precarietà. Diverse tematiche e diversi diritti convergono nella rivendicazione dell’appello “La Via Maestra. Insieme per la Costituzione” dove si chiede che “i diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione tornino ad essere pienamente riconosciuti e siano resi concretamente esigibili ad ogni latitudine del Paese”. L’appello è stato sottoscritto da centinaia di altre organizzazioni, con un esplicito sostegno ai diritti civili e sociali che lo Stato è chiamato a promuovere attivamente. 

L’ampiezza della coalizione che ha convocato la manifestazione del 7 ottobre si riflette in una definizione ampia dei diritti rivendicati: diritto al lavoro stabile, libero, di qualità; superamento di precarietà e lavoro povero e sfruttato; aumento dei salari; rinnovo dei contratti; difesa delle pensioni, Servizio Sanitario Nazionale e sistema socio-sanitario pubblici, universali e solidali; diritto a un ambiente sano e sicuro con tutela di acqua, suolo, biodiversità ed ecosistemi. Le richieste si estendono quindi a “istruzione e formazione permanente e continua, contrasto a povertà e disuguaglianze e promozione della giustizia sociale, attraverso la garanzia del diritto all’abitare e a un reddito dignitoso; una politica di pace come ripudio della guerra e la costruzione di un sistema di difesa integrato con la dimensione civile e nonviolenta”.

Nell’appello alla realizzazione dei valori della Costituzione, la rivendicazione di una redistribuzione delle risorse e della ricchezza, di un sistema di welfare pubblico e universalistico è collegata ad un modello sociale basato su uguaglianza, solidarietà, partecipazione, accoglienza, che certamente si pone in continuità con le rivendicazioni dello sciopero generale convocato da Cgil e Uil il 17 Novembre. Anche lì la piattaforma rivendicativa è ampia, menzionando l’emergenza salariale, il rinnovo dei contratti, la spesa sanitaria, le risorse per la scuola pubblica, le pensioni, il lavoro stabile e di qualità  contro la precarietà, la tassazione di profitti ed extraprofitti, le politiche industriali, la sicurezza sul lavoro, con l’appello A sostegno di un’altra politica economica, sociale e contrattuale, che non solo è possibile, ma necessaria e urgente”.

Molti di questi obiettivi risuonano nella convocazione della manifestazione del PD l’11 novembre con rivendicazioni di pace e giustizia sociale, diritti di migranti e Lgbtq+, dalla sanità pubblica alla casa, dal salario minimo all’ambiente, in nome di un’alternativa di governo. Come manifestazione di partito, la piazza è declinata però in maniera più competitiva che coalizionale.

Le manifestazioni contro la guerra in Palestina e contro la violenza di genere hanno avuto un carattere più intersezionale nel collegare obiettivi specifici con un discorso più generale sui diritti e nel registrare la partecipazione di coalizioni di organizzazioni.

La manifestazione nazionale a Roma il 28 ottobre “Contro la guerra e per una giusta pace”- organizzata dalla Comunità palestinese di Roma e del Lazio (attiva per una Palestina libera, laica e democratica) e da altre associazioni palestinesi in Italia – è stata sostenuta da una coalizione che va dai centri sociali alle case del popolo. “Stop al genocidio, fine dell’occupazione. Palestina libera” è lo slogan esposto sullo striscione di apertura del corteo nazionale. L’obiettivo è presentato come il sostegno alla “lotta del popolo palestinese per la sua libertà, affinché finisca l’occupazione e sia riconosciuto il suo diritto all’autodeterminazione”, contro “il tentativo di pulizia etnica e la mostruosa vendetta che Israele sta compiendo sulla popolazione civile palestinese in un’odiosa azione di punizione collettiva”. L’appello più generale è ad una soluzione pacifica dei conflitti, per “un cessate il fuoco immediato e per l’apertura di un tavolo di pace basato sulle risoluzioni dell’ONU e sul diritto umanitario internazionale”, concludendo che “l’ultimo giorno di occupazione sarà il primo giorno di pace”. 

Se la coalizione che ha sostenuto la manifestazione del 28 ottobre è ancora focalizzata sulle organizzazioni della comunità palestinese, con il sostegno prevalentemente di gruppi politici di base, la Marcia di Assisi del 10 dicembre porta in piazza anche l’associazionismo progressista in nome del cessate il fuoco nella Striscia di Gaza e della soluzione politica del conflitto, con la fine della occupazione israeliana e la realizzazione del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese. 

Esplicitamente intersezionale è la più grande piazza degli ultimi giorni, quella del 25 novembre contro la violenza di genere, convocata come ogni anno dalla coalizione transfemminista che converge in “Non Una di Meno”, come una piazza “non neutra”, non di ritualità e mera testimonianza, ma come una giornata di lotta. Denunciando l’insufficienza delle misure di repressione della violenza sulle donne, su cui è concentrata l’azione del governo Meloni “a colpi di decretazione di urgenza razzista e classista”, l’appello alla manifestazione promuove “una trasformazione radicale delle condizioni culturali e sociali che producono violenza, abusi, discriminazione e marginalizzazione delle donne, delle soggettività lgbtqia+ e migranti”. Come scrivono le organizzatrici: “Quelle di Roma e di Messina non saranno quindi piazze neutre ma saranno piazze di indignazione e di forza collettiva, di Marea transfemminista”. L’obiettivo esplicito è infatti la costruzione di “uno spazio di autodeterminazione e di affermazione politica necessario in un paese in cui le donne e le soggettività continuano a morire di morte violenta, in casa, in strada e sui posti di lavoro”.

Nella piazza del 25 novembre emerge la consapevolezza della necessità di curare un processo di convergenza tra diverse identità e diversi interessi specifici. Questo processo richiede una partecipazione dal basso: “Non è il momento dei proclami, è il momento di ascoltare e di operare ognunə secondo le proprie responsabilità istituzionali e politiche nelle sedi deputate a farlo. Tutto l’anno, non solo il 25 novembre. Tuttə possiamo essere parte di questo processo, se vi partecipiamo”.

Nell’appello di “Non Una di Meno”, c’è infatti l’attenzione ad “un processo in cui serve molta cura, serve ascoltarsi e abituarsi a non ragionare più per maggioranze, per votazioni. E’ un processo anche molto faticoso, in cui si tenta di attraversare i conflitti in modo costruttivo, ma decisamente è l’unico che possiamo provare a portare avanti per costruire una politica dal basso che provi a superare personalismi, leaderismi e competitività per lasciare il posto a una politica partecipativa, in cui ognunə mette il suo pezzettino quando e come può”.

Come testimoniato da uno dei più importanti momenti di convergenza a livello locale, nazionale e transnazionali nei Social forum del movimento alterglobalista, la convergenza richiede infatti un processo di consolidamento dal basso di una rete che spesso si forma nel corso dell’azione. La consapevolezza dell’importanza della cura di questi incontri attraverso l’elaborazione di pratiche includenti è ancora espressa nella presentazione di “Non Una di Meno”: “Negli anni e da anni è stata ed è attraversata da migliaia di donne, frocie, trans, lesbiche, intersex, asessuali, bisessuali, migranti, sex workers, detenutə, seconde e terze generazioni, persone con disabilità, cercando di costruire pratiche includenti quanto radicali e non consentiamo a nessunx di strumentalizzare queste piazze e queste assemblee”.

Proprio la giornata del 25 novembre conferma la rilevanza della piazza come luogo di incontro, sottolineando come coalizioni e convergenze siano processi lunghi e complessi, che richiedono spazi e metodo. Di grande successo dal punto di vista della partecipazione, la piazza transfemminista affronta anche la sfida di incanalare diversità e divergenze in spazi di incontro, mantenendo il filo dell’intersezionalità rispetto a strumentalizzazioni evidenti e ad un rischio di mainstreaming che accompagna il più visibile rischio di criminalizzazione dei diritti.  

Quali lezioni si possono trarre da queste cinque piazze? E quali prospettive possono avere queste mobilitazioni?

Che in poche settimane le piazze italiane si siano riempite in numerose occasioni è un segnale non solo di forte scontento, ma anche di una capacità organizzativa di mobilitazione in apparente ripresa, dopo un lungo periodo di latenza. La capacità di mantenere nel tempo la mobilitazione dipende in buona misura dalla formazione di coalizioni durature tra le organizzazioni e gli attivisti che hanno attraversato le specifiche piazze. Il riferimento ad esperienze passate, ma ancora vicine nel tempo, insieme alla riflessione sulle piazze di oggi possono aiutare a capire il potenziale di intersezione fra diverse campagne di protesta, organizzazioni e movimenti sociali progressisti.

Campagne e movimenti sociali si sviluppano su programmi, identità e orientamenti strategici specifici, ma spesso condividono con altri movimenti e campagne di protesta degli obiettivi più generali. Dal movimento alterglobalista alle proteste antiausterità del decennio scorso, la capacità di costruire convergenze tra movimenti sociali è emersa come fondamentale per la mobilitazione e la costruzione di alternative. Le coalizioni di movimenti sociali si formano quando attivisti di diversi movimenti si coordinano rispetto a obbiettivi comuni, mettendo in comune le risorse e coordinando l’azione, pur mantenendo distinte identità organizzative. Mentre è frequente che si formino coalizioni a breve termine per l’organizzazione di un singolo evento, rendere una coalizione duratura comporta la formalizzazione nella cooperazione attraverso lo sviluppo di strutture decisionali comuni e regole di partecipazione concordate che permettano la formazione di legami forti con interazioni frequenti.

Le coalizioni sono più facili quando ci sono ideologia, identità, interessi e obiettivi condivisi, soprattutto se non c’è una competizione diretta per risorse materiali o di attivismo. E’ spesso nel corso dell’azione stessa che alcuni concetti emergono a collegare rivendicazioni specifiche ad una visione comune. Così, nelle varie ondate di mobilitazione contro guerre e armamenti, il tema della pace è stato intrecciato con le rivendicazioni delle donne e dei lavoratori, come vittime principali delle guerre, o alla difesa dell’ambiente. 

Inoltre, le alleanze richiedono – e contribuiscono a formare – un orientamento alla cooperazione attraverso la promozione di valori e visioni di inclusione e tolleranza per la diversità. Per il formarsi e il consolidarsi delle coalizioni sono importanti rapporti di conoscenza e fiducia pre-esistenti tra individui e gruppi, ma questi possono rafforzarsi nel corso di comuni azioni di protesta che aiutino a sviluppare reciproca solidarietà nella percezione di una causa comune. Le esperienze dei Social forum mostrano, a questo proposito l’importanza di “costruttori di ponti”, cioè di attivisti che facilitano la comunicazione, la crescita di fiducia e il coordinamento degli sforzi tra organizzazioni e movimenti diversi.

Per quanto riguarda il contesto politico più ampio, esperienze passate suggeriscono che spesso le coalizioni si formano pragmaticamente per reagire a minacce comuni. Di fronte alla pandemia, il bisogno urgente di aiutare i più deboli ha portato ad un bricolage di iniziative che hanno utilizzato competenze e risorse di vari gruppi ed individui, permettendo azioni efficaci di solidarietà, ma anche una politicizzazione dell’aiuto attraverso una definizione degli effetti del virus come aggravati dalle politiche neoliberiste di definanziamento e privatizzazione della sanità pubblica. 

La sfida per le piazze progressiste è legata alla capacità di trovare spazi e metodi per costruire convergenze più ampie, in grado di costruire pratiche di resistenza ad un governo di estrema destra, e una alternativa politica.