Nascita, battesimo e prime imprese di Italo treno, nuovo simbolo patriottico della modernizzazione, oltre che delle liberalizzazioni, recentemente venduto a una multinazionale statunitense. Zitti zitti, prima che un nuovo governo possa intervenire.
Italo è notoriamente il nome patriottico dei convogli della compagnia di alta velocità ferroviaria appartenente al gruppo privato Ntv. Tutto l’insieme – sia benedetto il santo nome della Patria – è stato ceduto di recente alla multinazionale GIP (Global Infrastructure Partners) con base negli USA per una cifra prossima ai 2,5 miliardi di euro, sommando il prezzo di 2 miliardi scarsi, al debito in essere prossimo al mezzo miliardo. La compravendita si è realizzata un paio di settimane prima delle elezioni politiche del 4 marzo e comunque prima dell’avvento di un nuovo governo chissamai contrario all’affare o desideroso di mettervi bocca, tanto da arrivare a vietarlo o soltanto chiedere ulteriori ragguagli.
Nel nostro piccolo, abbiamo creduto fosse opportuno tornare sul caso e offrire a lettrici e lettori qualche elemento di riflessione. Non tanto per la cifra elevata che ormai non fa più sensazione, quanto per il dispiegamento, quasi un esempio da manuale, del capitalismo del nuovo secolo che anche in Italia ha raggiunto un’acrobatica modernità; usando una prima volta del sacro nome prima indicato, per poi farne polpette. In altre parole, l’Italo story è una specie di compendio del capitalismo com’è e come non deve essere (come sarebbe meglio non fosse). Per semplicità divideremo il nostro riassunto in due parti: nascita, battesimo e prime imprese di Italo; maturità, successi, fallimenti, miracoloso salvataggio e infine apoteosi e assunzione nel cielo della finanza.
L’intervento che ci sarebbe piaciuto leggere sul capitolo finale dell’appassionante storia-vera di “Italo” non lo avremo: Ivan Cicconi, attento e severo commentatore della farsa“italica” se ne è andato un anno fa e noi possiamo solo rimpiangerlo e fare del nostro meglio per rileggere e rileggere la sua critica, documentata e ironica, alle malefatte della classe dirigente ferroviaria e alle speculazioni dell’attigua classe padronale (raccolta nelle carrozze executive). Così, nei limiti delle nostre capacità, proviamo a sviluppare due temi: un resoconto dei fatti e delle parole perdute di febbraio e poi una ricapitolazione dei precedenti, quelli appunto che Ivan Cicconi aveva descritto, con puntiglio e intelligenza.
All’inizio del febbraio 2018 il treno Italo, appartenente alla NTV (Nuovo Trasporto Viaggiatori) Spa e concorrente dei Frecciarossa-Trenitalia che percorrevano gli stessi binari delle Ferrovie dello Stato, faceva capo a nove soci soltanto. Essi erano, in ordine di pacchetto: Banca Intesa con il 19%, Diego della Valle con il 17%, Assicurazioni generali con il 14%, Luca Cordero di Montezemolo con il 13%, Peninsula Capital con il 13%, Gianni Punzo con l’8%, Flavio Cattaneo con il 6%, Isabella Seragnoli con il 6%, Aberto Bombassei con il 5%. Le cifre arrotondate portano il totale a 101%; troppo, perfino per i padroni dei trenini, tutti però mascherati con nomi di fantasia. In effetti i nove capitalisti hanno tutti insieme 99,73% della società, mentre altri non indicati hanno il restante 0,27%. E’ Il Sole 24 Ore che si è molto prodigato nella prima parte di febbraio a spiegare il caso dei treni, a offrire ai lettori l’elenco degli azionisti.
In quei giorni ormai tramontati, i soci consideravano opportuno quotare la società in Borsa cedendo al mercato il 40%, quantitativo raggiunto riducendo la partecipazione di tutti e ottenendo strepitosi guadagni, vendendo ai risparmiatori anelanti, a prezzo vantaggioso, un po’ di viaggi in treno, senza rischi e pieni di futuri profitti; ponderatamente, il quotidiano finanziario conveniva sull’operazione di vendere una parte e andare avanti con il resto, facendo intuire trattarsi di un’operazione non rischiosa, anzi vantaggiosa, per questi e per quelli.
Mentre era in corso la discussione e varie banche si offrivano come intermediarie e consigliere per accompagnare con successo l’operazione, mentre il consiglio di amministrazione calcolava se e quando prendere contatto con le autorità preposte alla Borsa e con la Consob, ente incaricato del controllo sulle società quotate, proprio allora si verificava un fatto, inatteso sia dal grande pubblico dei risparmiatori e dei capitalisti, sia dagli amministratori e dalla maggioranza dei soci. Di diverso parere era il socio di maggioranza relativa, Banca Intesa che sceglieva infatti un’altra via. Senza troppa fatica, con le buone o le cattive, essa convinceva i compari a cambiare idea e ad accettare l’offerta di acquisto dell’intero capitale da parte d’un fondo azionario degli Stati Uniti, specializzato in servizi all’industria, come energia, trasporti, ciclo dell’acqua e fognature smaltimento dei rifiuti.
Come mai? Che argomenti avrà usato il capo banchiere per convincere i soci e farli desistere dalla loro propensione, ormai più che decennale, di far girare sulle rotaie pubbliche treni privati, eleganti, sicuri, capaci di farli partecipare alla modernizzazione del paese, auspicata da tutti loro, come anche dai loro sostenitori, politici e industriali? Questo banchiere, Carlo Messina, non sempre è un banchiere silenzioso, all’antica, che fa le cose di nascosto, chiedendo addirittura che non lo si sappia in giro, come si comportavano i benefattori d’altri tempi.
In realtà è vero tutto il contrario: Messina, stavolta almeno, ci tiene a farlo sapere a tutti, dettagliatamente. Le sue parole sono perfino esagerate. Si può presumere che il potere di convinzione del primo socio nei confronti degli altri, presidente e consigliere delegato compresi (Luca Montezemolo e Flavio Cattaneo) fosse molto maggiore della semplice partecipazione azionaria, in quanto la sua banca potrebbe aver anticipato gran parte del denaro per sviluppare l’attività e comprare i treni. Il banchiere, il Ceo Messina non tiene segreto il suo pensiero, nei giorni cruciali, ma lo espone con particolare chiarezza, tanto che Il Sole lo riporta. “Non dobbiamo fare il mestiere degli aeroplani né quello dei treni, vogliamo fare la banca. La partecipazione non è strategica, dobbiamo valorizzarla il meglio possibile e chiudere l’operazione … Ora non faccio l’azionista di una società di treni, non ci penso proprio … Quando si è trattato di investire, tutti quelli che ora parlano stavano fischiettando in giro, l’abbiamo finanziata quando nessuno lo faceva e, se ora si realizzano le condizioni per uscire, vedremo”.
Questa dichiarazione di Messina, che a Italo avrebbe anche finanziato l’acquisto, all’estero, di treni per 650 milioni, è accettata dai soci, quelli fondatori e quelli subentrati; tutto l’italico pensiero, tutto l’Elmo-di-Scipio, è messo da parte, sostituito dal profitto, un dio geloso che premia i suoi fedeli che abbiano ben meritato e punisce i reprobi.
A fare l’affare dei treni veloci italici, comprando convogli che scorrazzano liberamente per la pianura padana e oltre, sono i Partners della Global Infrastructure. Costoro sono dapprima sedici signori, alti dirigenti, amici tra loro e colleghi, provenienti dalla General Electric (tre) e dal Credit Suisse nella sua germinazione americana (tredici). Poi la voce corre e il numero si allarga. Il capo indiscusso è Adebayo Ogunlesi nato sì in Nigeria, ma diventato docente di economia tra Harvard e Cambridge, poi trascinato dalle onde della vita, dai campus delle grandi università, fino alla finanza industriale, al credito americano-svizzero, all’Ufficio Ovale della Casa Bianca. Bayo, come viene chiamato da pochi eletti, ha in sostanza raccolto intorno a sé un gruppetto di ex dirigenti di Credit Suisse e General Electric usciti come dirigenti pensionati con ricchi premi e cotillons, consistenti questi ultimi in milioni di dollari in azioni premio. Previsto ministro di Trump, Bayo si è accontentato di fare un passo indietro, e mantenere il ruolo di consigliere discreto del presidente e di grande finanziere d’assalto. Gli si attribuisce il piano di allargare a gran parte d’Europa l’attività dei trenini elettrici, fidando nel proprio buon nome, negli affari delle banche solidali e nella decisione europea di liberalizzare quanto più possibile, secondo la moda inglese o americana. GIP non ha difficoltà a trovare altri investitori, a Wall Street e dintorni e altri investimenti, dall’Australia all’India a Londra; Gatwick per esempio è suo, come per esempio le inimmaginabili ferrovie australiane; è facile pensare che vi sia una fila di ricchi pensionati che non aspirano ad altro che giocare ancora un po’ alla Borsa (propria) e alla vita (degli altri).
Se a comprare è Bayo, a vendere sono i nove azionisti più sopra indicati. Interessante è conoscere la loro origine e perché si siano messi nel giro dei treni. Agli iniziali Montezemolo e Della Valle, auto di lusso e abbigliamento di lusso, si unisce un affarista-imprenditore di Napoli, Gianni Punzo e un manager delle ferrovie, Giuseppe Sciarrone, che è l’unico che sappia qualcosa di treni. A conforto dei 4 iniziali si integrano due altri industriali italiani di grande spolvero, un fabbricante di freni per auto, Alberto Bombassei (Brembo). E una fabbricante di macchine per fabbricare sigarette emiliana, Isabella Seragnoli (GD) escludendo il manager ferroviario, gli altri quattro sono tutti cavalieri – o amazzoni – del lavoro; e ancora Banca Intesa, Assicurazioni generali e una filiali della SNCF, la compagnia pubblica dei treni francesi. altri, una banca d’affari, Mediobanca, e una compagnia di assicurazioni. La presenza di ciascuno conferma il senso della nuova imprenditoria privata; nuova perché ha trovato nuovi prercorsi per attingere allo Stato.
Per capirne di più, la cosa migliore è utilizzare il lavoro di Cicconi che scrive nel suo libro pubblicato da Koinè Nuove Edizioni, poi ripubblicato dal Fatto online: “la società Nuovo Trasporto Viaggiatori Spa viene costituita l’11 dicembre 2006 e presentata in pompa magna con una conferenza stampa il 12 gennaio 2007. I soci fondatori presentano la nuova società come se fosse un operatore ferroviario con in tasca già tutti i titoli e i requisiti previsti dalle norme, tutto viene dato per scontato ed acquisito e le agenzie di stampa battono la notizia: ‘Sfida della qualità ad alta velocità, di due alfieri del made in Italy: Luca di Montezemolo e Diego della Valle. L’annuncio della nascita del Nuovo Trasporto Viaggiatori Spa, capitale un milione di euro, partecipata da Finanziaria Sviluppo(Montezemolo), da Fa.Del (Della Valle) e da Servizi imprenditoriali di Giovanni Punzo (Tre quote ciascuno di 31,7% e Giuseppe Sciarrone(5%) lascia intravedere nuovi scenari nel trasporto passeggeri su rotaia(…) Missione della società spiega intanto lo stesso player ferroviario è l’effettuazione di servizi viaggiatori sulle nuove linee ad alta velocità, attraverso servizi di alta qualità (…).
L’iniziativa ha trovato il plauso dello stesso ministro dello Sviluppo Economico Pierluigi Bersani. E’ davvero una bella notizia, ha commentato il ministro dal vertice governativo di Caserta, la norma che introdussi nel 2001 si proponeva di favorire lo sviluppo industriale nel settore ferroviario anche per il potenziamento delle reti. Si stanno determinando infatti enormi spazi perché la concorrenza a beneficio del consumatore non sia un gioco a somma zero ma l’occasione straordinaria di sviluppo del servizio (“Montezemolo e Della Valle nell’alta velocità”, La tribuna di Treviso, 13 gennaio 2007).
Il ministro, da buon liberale, aveva immaginato un altro film, perché quello che sarà girato – ad essere buoni – con la sua totale distrazione, sarà completamento diverso. Forse andrà bene se per il consumatore il gioco sarà a somma zero, ma quello che è certo è che la somma per lo Stato sarà assai sotto lo zero”.
Cicconi insiste. Bersani, il “buon liberale” sta applicando coscienziosamente le privatizzazioni che rientrano nei dettami delle sue lenzuolate, ma gli altri? Cosa dire degli altri ministri del governo Prodi, come il ministro dei Trasporti che si chiama Alessandro Bianchi, professore, e rappresenta al governo i Comunisti italiani di Oliviero Diliberto; o del il ministro delle Infrastrutture, Antonio di Pietro che non difende come potrebbe le Ferrovie dello Stato, aggredite dai liberisti, forse perché teme di essere accusato di cripto comunismo statalista.
Tutto si definisce il primo ottobre 2007 con il Consiglio dei ministri che approva il decreto legge 159 (“Interventi urgenti per lo Sviluppo e l’Equità sociale”, poi trasformato nella legge 222). Il decreto, al comma 2 bis – riferisce sempre Cicconi, applica i principi conclamati di “sviluppo ed equità” eliminando i riferimenti alla “procedura concorsuale” e alle “condizioni di concorrenzialità” previsti dalle norme in essere. Il presidente del Consiglio è Romano Prodi, ideatore dell’Ulivo. Cicconi presume che abbia ricevuto l’esponente dei trenini privati con lo stesso atteggiamento tenuto da un suo predecessore, forse Giulio Andreotti, forse Giuliano Amato, succedutisi nel fatale 1992 come Presidenti del consiglio. Il presidente in carica avrebbe dato ascolto allora al presidente della Fiat, Gianni Agnelli, molto interessato alla costruzione delle linee ferroviarie di alta velocità, svolta da una o più delle sue società come Impresit.
Tre lustri dopo il nuovo presidente di Fiat, appena eletto dalle sorelle di Gianni (e Umberto), si chiama Luca Cordero di Montezemolo. Non chiede treni e favori per la Fiat, ma treni e favori per sé. L’atteggiamento del primo ministro, Romano Prodi, non è cambiato. (1)
(1) In nota riportiamo un breve approfondimento sui rapporti tra Italo, il nostro treno veloce e Luca, il suo inventore.
Si tratta di una parte della scheda su Montezemolo preparata da Giorgio Dell’Arti e aggiornata al 2015. Una lettura che vale la pena di fare, divertente e istruttiva, non tanto per le questioni private del personaggio, quanto per l’occasione di ricordare e di riflettere sullo stato dell’arte della politica finanziaria italiana, nelle pieghe e negli intrighi di un passato non troppo lontano.
“Per 650 milioni di euro la Ntv ha commissionato all’industria francese Alstom 25 esemplari dell’Agv, treno ad altissima velocità di ultima generazione capace di viaggiare fino a 360 km all’ora (100-120 euro la tariffa minima per andare da Roma a Milano in tre ore). Con 25 treni attivi e poco meno di mille dipendenti, Ntv ha chiuso il bilancio 2011 con un perdita di 77 milioni nel 2012, ha dovuto rimandare di due anni la previsione del pareggio, originariamente previsto per il 2014, e ha siglato con i sindacati un contratto di solidarietà per i suoi dipendenti, che prevede una riduzione di 1,5 giorni di lavoro (e relativo stipendio) al mese. Nel 2013 i passeggeri sono stati 6,2 milioni (contro i 27 dei Frecciarossa Trenitalia). In più occasioni, dal 2012 in poi, Ntv ha presentato esposti all’Antitrust per comportamenti anti-concorrenziali da parte di Fs. Le accuse vanno dal dumping sui biglietti venduti da Trenitalia a prezzi stracciati per costringere Ntv a ridurre a livelli insopportabili i margini di profitto, fino a «comportamenti ostruzionistici nell’accesso all’infrastruttura ferroviaria» attraverso la mancata assegnazione di tracce (collegamenti) nell’ora di punta. Oppure atti «apertamente ostili» all’azienda privata, come il mancato accesso all’impianto di manutenzione di Milano San Rocco.
• «Se Della Valle e Montezemolo puntavano, nel 2006, a un facile successo di un servizio da offrire alla fascia più alta dei consumatori/viaggiatori italiani sull’asse Milano-Roma, in realtà le cose sono più complesse e soprattutto non avevano fatto i conti con Moretti: le Fs del 2005 sembravano vicine al default, ma è stato proprio il nuovo ad a invertire la tendenza,scaricando sull’alta velocità una potenza di fuoco (in termini di numero di mezzi, frequenze e collegamenti) impressionante. Avendo, tra l’altro,dalla sua anche la leva del pedaggio che le Ferrovie, proprietarie della rete, chiedono a Ntv per correre sui suoi binari. Alla fine l’Antitrust ha imposto a Fs di abbassare quel pedaggio del 15%. Per Ntv vale qualche decina di milioni di costi in meno» (Marcello Zacché).
• «Il nostro competitor, le Ferrovie, è giocatore e arbitro insieme. Possiede la rete e possiede i treni. Ci fa una guerra bestiale. Faccio un esempio. Le macchinette che vendono i biglietti: ne abbiamo comprate moltissime, ma ne abbiamo potute mettere pochissime. E ce le nascondono. La storia di Ntv, di Italo, è esemplificativa di quanto sia complicato fare impresa in Italia. Abbiamo assunto 1.100 ragazzi a tempo indeterminato, età media ventotto anni. Abbiamo investito in formazione, abbiamo speso un miliardo di euro per comprare i treni, ma subiamo una concorrenza sleale da parte delle Ferrovie».
• Con Della Valle possiede anche il 13% della Grandi navi veloci (Gnv).
• A febbraio 2014 si è dimesso da presidente di «Italia Futura», associazione che lui stesso aveva fondato nel 2009 come pensatoio e laboratorio che si prefiggeva di sviluppare iniziative capaci di portare a un miglioramento della situazione politica italiana. Al suo posto l’armatore Carlo Pontecorvo, a capo del gruppo Ferrarelle.
• «La creatura di Luca Cordero di Montezemolo puntava a essere un incubatore, non solo un think tank di una forza politica terza capace di creare di fatto un centro moderno, laico, innovativo, aperto alle professioni. C’erano ottimi quarantenni o trentenni, Andrea Romano, Irene Tinagli, c’erano molti professionisti del nord, c’era l’ipotesi – per la verità sempre rimasta a mezz’aria – di un impegno politico diretto di Montezemolo. Come sia andata lo sapete» (Jacopo Iacoboni).
• È sembrato sul punto di candidarsi in prima persona alle politiche del 2013, salvo poi rimanere defilato, appoggiando con la sua fondazione la Lista Monti. «Negli ultimi anni LCdM ha speso dei soldi, ha speso il suo nome, ha speso del tempo, ha messo in moto la sua non indifferente macchina di relazioni, ha costruito una squadra di professori intorno al think tank ItaliaFutura, ha fatto quello che gli anglosferici chiamano networking, ha organizzato una convention con Andrea Riccardi e ha pronunciato pure un bel discorso da leader. Insomma per anni Montezemolo ha fatto tutto ciò che è lecito immaginare debba fare un membro dell’establishment, per quanto incerto e soffice, che voglia preparare una sua entrée charmante in politica; ma alla fine, malgrado gli sforzi, e persino malgrado la presenza fisica del campione Mario Monti, l’uomo dell’establishment ha invece scelto di non esserci. (…) E d’altra parte è dal 2001 che Montezemolo tentenna, un po’ dentro la politica, un po’ fuori, blandito da Berlusconi, sempre a un passo dal fargli da ministro (il Cavaliere lo annunciò solennemente a Porta a Porta), e poi niente, sempre segnato dall’abilità (o soltanto dalla fortuna?) di non essersi mai fatto compromettere dal Cavaliere (“il posto di presidente del Consiglio è per il futuro a sua disposizione”), ma accompagnato pure, sempre, dal retropensiero che la sua riluttanza non fosse solo carattere, eccesso di cautela, né pignoleria né tantomeno un perfezionismo che d’altra parte non gli si conosce. Anche Veltroni, neo leader democratico, s’era fatto avanti con lusinghiere profferte che, per quanto diluite nelle caute risposte di un personaggio così desiderato, sapevano di appuntamenti da rinviare, prenotazioni per un futuro più roseo. Ma mai niente, fino ad allargare le braccia con un sorriso quasi ribaldo: “Ho la coda davanti alla porta. Se solo volessi…”» (Salvatore Merlo).
• «La verità è molto semplice. A un certo punto è arrivato Mario Monti e io, che non ero nemmeno troppo convinto, mi sono fatto da parte. Finito il mio impegno da presidente di Confindustria ero sempre tra le prime cinque personalità più apprezzate del paese. E ancora dopo anni, nel 2010 e nel 2011, i sondaggi mi premiavano moltissimo. Tutto ciò malgrado io non abbia mai partecipato a nessun talk-show in tivù (…) Studiai molto i think tank americani, che non hanno niente a che vedere con le fondazioni che esistono in Italia, quella di D’Alema o quella di Fini… E insomma più la cosa di ItaliaFutura cresceva, più mi si chiedeva un impegno politico diretto”.