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Afghanistan (e altrove): che fare oggi?

I Talebani governano Kabul, il paese è al collasso. Che cosa possiamo fare oggi? E come affrontiamo le tensioni tra Occidente e Russia sull’Ucraina? E le decine di altri conflitti in tutto il mondo? La prefazione dell’ebook ‘Afghanistan senza pace, 2001-2021’.

Che cosa fare oggi con l’Afghanistan riconsegnato ai Talebani? E con le nuove tensioni tra Occidente e Russia sull’Ucraina? E con le decine di altri conflitti, striscianti o violenti, in tutto il mondo? Torna alla mente uno degli slogan dei pacifisti degli anni ’80, un’importante verità che nell’Europa della nuova guerra fredda il movimento aveva affermato: “I patti non si fanno con gli amici, ma con i nemici”.

Voleva dire no all’arroccamento nell’Alleanza atlantica, sì al dialogo e alla ricerca di un compromesso con gli avversari. Ed era il corollario di un’altra verità: “la guerra è un retaggio del passato, la politica estera non può più affidarsi a soluzioni militari, la sicurezza va assicurata da strumenti politici”. 

Quando i potenti Stati Uniti annunciarono, ad agosto 2021, che dopo aver massacrato per 20 anni l’Afghanistan, avrebbero ordinato alle loro truppe e a quelle di noialtri alleati della Nato di abbandonare il paese, queste sagge considerazioni, che avevano ispirato la mobilitazione pacifista quarant’anni fa, sono tornate d’attualità. Generali, ministri, giornalisti per vent’anni hanno affermato di poter conquistare l’Afghanistan e trasformarlo, senza fare i conti con la realtà di quel paese. C’è stato anche chi ha pensato che i bombardamenti e i droni americani avrebbero potuto liberare le donne dal burka. Ahimè, non è stato così.

Dopo le grandi manifestazioni dei primi anni di guerra – raccontate negli articoli della prima parte di questo ebook – anche le nostre proteste sono cadute e i nostri democratici governi europei sono andati avanti tranquillamente con le operazioni militari nel quadro Nato al servizio della strategia americana. In Afghanistan per fortuna sono rimaste le Ong, a cominciare da Emergency, impegnate ad aiutare con scuole e ospedali la società civile del paese anziché ad armare le bande di altre fazioni.

“Fare accordi” con i nemici non vuol dire riconoscere il governo dei Talebani (non l’hanno del resto fatto nemmeno Russia e Cina). Vuol dire tenere aperto un confronto politico, dopo che per vent’anni a parlare sono state solo le armi. Vuol dire strappare qualche spazio per fare quanto non abbiamo fatto prima: aiutare la società civile afghana, le donne, i giovani a liberarsi di chi li opprime, maturando autonomia culturale e capacità di organizzarsi per diventare protagonisti della loro liberazione. E gli strumenti non sono missioni ufficialmente “umanitarie” sebbene portate avanti da militari armati fino ai denti. Sono gli aiuti per un paese alla fame, il sostegno all’azione delle Ong, la solidarietà. 

E serve davvero salvare chi ora rischia la vita – e sono in tanti – ottenendo vie d’uscita dal paese e l’impegno dei nostri paesi ad accogliere i fuggitivi. A Doha, nel negoziato promosso da Trump e poi proseguito da tutta la Nato, non c’è stata una trattativa sull’Afghanistan, ma solo sulle garanzie a favore dei militari Nato che se ne volevano andare, i soli per i quali è stata espressa preoccupazione dal presidente Biden: “Riportare a casa i nostri ragazzi”. E tanto peggio per quelli che vivono in un paese che i “nostri ragazzi” hanno massacrato in questi 20 anni, in nome della guerra come risolutrice dei conflitti.

Occuparci di Afghanistan oggi vuol dire anche occuparsi di Iran, dove ci sono migliaia di profughi afghani, e dove c’è un nuovo terreno di scontro con gli Stati Uniti e con Israele, sul nucleare e sulle strategie regionali. Vuol dire occuparsi di Medio Oriente: Israele, Palestina, Libano, Siria, Turchia, Arabia Saudita, Yemen, tutti posti dove i conflitti sembrano irrisolvibili, i diritti sono calpestati, la pace è introvabile. 

Vuol dire occuparsi di Europa, Ucraina, Bielorussia: a Bruxelles si insegue il progetto di esercito europeo e si finanzia la ricerca e produzione di nuove armi, in Ucraina si prepara un nuovo scontro militare est-ovest, alla frontiera tra Polonia e Bielorussia si ripete lo scandalo di un’Europa capace solo di alzare muri contro i profughi. E vuol dire occuparsi di Italia, dove le spese militari crescono al ritmo del 5%, più di ogni spesa corrente per il 2022, più della sanità nel mezzo della pandemia. I vent’anni trascorsi dalle torri gemelle alla ritirata Usa da Kabul ci ricordano che non possiamo non occuparci della pace.