Senza una risposta adeguata alle priorità che alimentano la rivolta contro l’establishment, anche la comunità che lavora per un futuro ambientalmente sostenibile rischia di essere identificata come parte dell’élite lontana dai problemi dei cittadini
Anche se Trump fosse stato sconfitto, sarebbe rimasto vivo il trumpismo, che si è già diffuso intorno a noi, e ha gravi implicazioni anche per le strategie di contrasto al cambiamento climatico.
“Le emissioni di CO2, in particolare di origine antropica, non sono la causa principale del riscaldamento globale”. È questo il pensiero espresso alla televisione statunitense CNBC il 9 marzo da Scott Pruitt, nuovo capo dell’Agenzia Usa per l’Ambiente EPA.
Un assist all’intenzione di Trump di non rispettare gli impegni assunti dagli USA con l’Accordo di Parigi, senza pagare dazio, trattandosi di obiettivi che possono essere disattesi senza subire sanzioni. Dopo di che sarebbe quasi certo il fallimento del programma Mission Innovation (ricerca e sviluppo di tecnologie per l’energia verde), per il 43% sostenuto dagli Stati Uniti.
Inoltre, l’abbandono dell’Accordo da parte del paese che, con la Cina, ne era stato il principale sponsor, non potrà non avere ricadute negative sul futuro della politica di contrasto al cambiamento climatico varata a Parigi. La Russia è l’unico grande paese a non avere ratificato l’Accordo, e, come hanno ipotizzato alcuni analisti, nelle negoziazioni per un’intesa con Washington Putin potrebbe mettere sul piatto la rinuncia definitiva alla ratifica.
Ma vi è di più. Il programma di Trump prevede un considerevole abbassamento delle tasse e misure protezionistiche per le industrie americane, che dovrebbero rilanciare gli investimenti e gli utili delle imprese. La deregolamentazione del settore finanziario e di quello energetico (a danno dell’ambiente), insieme a un gigantesco programma di investimenti nelle infrastrutture (facilitato dall’abolizione delle normative territoriali e ambientali più restrittive), potrebbe a sua volta stimolare l’economia e creare occupazione. È probabile che almeno una parte di questo programma venga realizzata. Wall Street ci crede: gli indici azionari si impennano.
Prepariamoci dunque all’offensiva di quanti utilizzeranno questo probabile risultato per indicare come responsabili della mancata crescita economica e occupazionale i vincoli ambientali e le politiche di contrasto al cambiamento climatico. Alla lunga i costi (ambientali, ma non solo) degli obiettivi perseguiti da Trump produrranno un effetto valanga, che travolgerà la sua politica. Occorre però attrezzarsi in modo da evitare che nel frattempo il ciclone Trump produca una ricaduta negativa sulle strategie per lo sviluppo sostenibile anche al di fuori degli Stati Uniti; e non crogiolarsi nella convinzione che siano subito disponibili antidoti alla sua politica. Anche perché la vittoria di Trump, che segue a ruota la Brexit, potrebbe non rimanere isolata.
Anche se non ha ottenuto l’esito elettorale desiderato, in Olanda, il Partito della Libertà di Geet Wilders, che propugna un referendum per l’uscita dalla UE, l’espulsione dei clandestini, la chiusura delle moschee e delle associazioni islamiche, è uscito comunque rafforzato dalle urne; analogo sarà come minimo il risultato per il Front National in Francia. Anche se non guideranno i loro paesi, entrambi riusciranno comunque a influenzarne le politiche. Tutti i sondaggi confermano che, se si votasse ora in Italia, la somma dei voti ai partiti, pur con diversità di motivazioni euroscettici, sarebbe prossima al 50%.
Seppure non tutti rozzamente negazionisti come Trump, nella migliore delle ipotesi i leader di questi movimenti (con l’eccezione del M5S) sono molto tiepidi nei confronti delle sfide poste dal cambiamento climatico e delle misure richieste per contrastarlo. Erigere muri, non solo metaforici, a difesa dell’identità nazionale, porta quasi inevitabilmente a considerare problema marginale il cambiamento climatico, evento che di per sé trascende i confini degli stati.
Questi terremoti politici sono provocati dal rigetto da parte di un numero crescente dei cittadini di una globalizzazione sotto l’egida del neoliberismo, per anni presentata come panacea di tutti i mali che, alla lunga, avrebbe gratificato tutti. È la teoria del trickle down, di un effetto sgocciolamento dall’alto verso il basso, per cui i benefici economici elargiti a vantaggio di una fascia ristretta di individui avrebbero finito col favorire l’intera società: il ceto medio, ma anche le fasce marginali della popolazione. Nella realtà a essere marginale è stato lo sgocciolamento, per di più distribuito in modo disuguale. Non solo quasi tutti i partiti si sono schierati a sostegno di questa tesi. Con la globalizzazione molte scelte cruciali sono state sottratte alla volontà dei governi nazionali, che si sono quindi dimostrati incapaci di mantenere le promesse elettorali. Di qui la sfiducia nei confronti dei partiti tradizionali e delle élite.
Se non farà propria l’urgenza di dare una risposta adeguata alle priorità che stanno ingrossando la rivolta contro l’establishment, anche la comunità che lavora per un futuro ambientalmente sostenibile rischia di essere identificata come parte dell’élite lontana dai problemi del comune cittadino. Un esito paradossale, dato che la sostenibilità ambientale è condizione necessaria per la sostenibilità economica e sociale, ma, come tutti i cambi di paradigma, nella fase di transizione può provocare squilibri, cui va posto rimedio.
Ovviamente il processo di conversione green riuscirà a creare nuove opportunità di lavoro, in grado di compensare, almeno in parte significativa, quelle distrutte, ma il transitorio sarà comunque traumatico. Come confermano la Brexit e Trump, la rivolta contro le élite, o ritenute tali, tende a seguire movimenti politici che propongono la soluzione delle ferite provocate da un processo di globalizzazione non inclusivo, con un ritorno al passato. Le proposte a favore di una conversione ecologica dell’economia sono quindi destinate a incontrare maggiori difficoltà di ascolto, soprattutto se non saranno accompagnate dall’indicazione di misure che propongano soluzioni credibili ai problemi creati dalla transizione; in caso contrario, gli interessi lesi dallo sviluppo della green economy avranno buon gioco nell’ergersi a difensori dello status quo o, addirittura, di una retromarcia; cioè a replicare quanto è già riuscito al miliardario Trump.
Occorre dunque evitare di promuovere rinnovabili ed efficienza energetica come obiettivi a sé stanti, non solo collocandoli all’interno della promozione di una green economy, ma accompagnandoli con un credibile progetto politico, in cui il modello di sviluppo incorpori il senso del “limite” (ambientale, sociale, produttivo) quale nuovo principio di accumulazione, facendone il motore di un nuovo ciclo. Un cambiamento che inevitabilmente investe anche gli stili di vita ed è quindi realizzabile solo se la green economy sarà incorporata in un progetto di green society: una società per quanto possibile giusta, equa, inclusiva, così da rappresentare il contesto migliore per stimolare nuovi modi di pensare e di agire nell’interesse della collettività.
Questa è la forma di ottimismo che dobbiamo far nostra e diffondere, ma sarà credibile solo se sorretta da un’analisi pessimistica della situazione attuale. L’ingiustificato ottimismo sull’oggi, come ci conferma il caso Renzi, rischia invece di produrre risultati di segno opposto a quelli desiderati. È un esito che non possiamo permetterci: il tempo a disposizione per evitare cambiamenti climatici irreversibili è più ridotto rispetto a sei mesi fa, perché dobbiamo mettere nel conto l’effetto frenante che la presidenza Trump riuscirà a esercitare.