Per rispondere alle sfide economiche, sociali e ambientali di oggi e di domani, la nostra industria automotive è chiamata a seguire la via dell’elettrico. Ma serve una politica industriale per la giusta transizione. Ad Atessa un confronto promosso da Cgil e Fiom Abruzzo e Molise con Alleanza Clima Lavoro.
É partito dal polo dell’automotive della Val di Sangro, in Abruzzo, il percorso dell’Alleanza Clima Lavoro per promuovere il confronto e il dialogo tra i rappresentanti del mondo del lavoro, gli ambientalisti, gli imprenditori e gli esperti di innovazione sulle sfide e le opportunità della transizione nel campo della mobilità e sul futuro dell’auto. Ed è così che, lo scorso 26 settembre 2023, si è tenuta ad Atessa la tavola rotonda intitolata “L’automotive del futuro”, co-promossa insieme alla Cgil e alla Fiom di Abruzzo e Molise e moderata dal giornalista Rai Alberto Tundo: un’intera mattinata di discussione al Centro congressi “Agorà” gremito sia dagli operai e dai delegati sindacali delle molte fabbriche della zona, sia dagli studenti dell’Istituto Tecnico “Algeri Marino” di Casoli (qui la registrazione integrale dell’evento e le interviste ad alcuni protagonisti).
Il distretto dell’automotive abruzzese si è sviluppato negli ultimi cinquant’anni attorno alla ex Sevel, da poco ridenominata “Stellantis Europe Spa Atessa”, il più grande polo produttivo di veicoli commerciali leggeri d’Europa. La fabbrica ex Fiat ed ex Fca continua ad essere il cuore pulsante dell’intero gruppo, assumendo centinaia di giovani anche in queste prime settimane dell’autunno 2023. La ripresa dell’occupazione in Val di Sangro, in controtendenza rispetto alla dinamica sia regionale sia nazionale del settore, è legata a doppio filo al concomitante stallo dell’impianto gemello di Stellantis, ma più recente, di Gliwice in Polonia: uno stallo dettato dalla scelta di grandi clienti come Amazon (che acquista qualcosa come 30mila furgoni Ducato all’anno per le consegne), i quali privilegiano le commesse italiane – come spiega il delegato Fiom dell’Rsu Sevel Giuseppe D’Ortona – per la migliore qualità della manodopera impiegata e del prodotto finale. Le prospettive future per gli occupati della fabbrica e dell’indotto sono però incerte guardando al 2035, data che segna la fine della produzione dei motori endotermici sia per le automobili sia per i veicoli commerciali leggeri.
Le domande sull’imminente futuro dell’automotive e su come colmare il ritardo italiano nella transizione industriale verso l’elettrico sono dunque molto sentite ad Atessa. “Di sicuro non possiamo fermare il vento, anzi quello che si annuncia come un vero e proprio tsunami, con le mani”, ha esordito in apertura dei lavori il Segretario regionale della Fiom Abruzzo e Molise, Alfredo Fegatelli, commentando le proiezioni d’impatto dei veicoli elettrici sul mercato, a partire da ciò che sta succedendo in Cina. A fargli eco, sottolineando il poderoso processo di elettrificazione intrapreso nel Paese del Dragone, l’economista italo-cinese Song Yang. Nell’arco degli ultimi tre anni, ha spiegato Yang, la Cina ha quintuplicato le vendite di veicoli elettrici, che oggi sono oltre 6 milioni sui 27 complessivi. Una crescita esponenziale frutto di una decisiva svolta industriale: sfruttando il rallentamento o il blocco degli scambi imposto dalla pandemia, e grazie a specifiche politiche industriali e forti investimenti, la Cina ha portato a definitiva maturazione la propria tecnologia per il motore elettrico e avviato i propri marchi. Con il duplice risultato di essere diventata leader di esportazioni rendendosi al contempo autonoma dagli altri Paesi di precedente importazione – Germania, Francia e Stati Uniti in testa – e di aver impresso al contempo una forte accelerazione al mercato globale dell’auto elettrica.
Anche nel nostro Paese la rivoluzione green del trasporto è iniziata, anche se appare molto più lenta che altrove. Lo ha spiegato Ilaria Salzano, giornalista esperta di motori de la Repubblica: da noi, la percentuale di vetture elettriche è oggi poco sopra il 3% del parco circolante, soprattutto a causa dei prezzi ancora troppo alti dei nuovi modelli, e anche perché “il consumatore è disorientato e teme di non avere un’infrastruttura capillare di colonnine di ricarica, soprattutto al Sud”. In attesa di un abbassamento dei costi atteso a breve, i dati di vendita dicono che il nostro mercato interno è ancora posizionato su auto a motore endotermico, piccole o medie e di cilindrata bassa, mentre nei Paesi europei più ricchi già ci si orienta con decisione su modelli di gamma alta o medio-alta, più grandi ed elettrici, meno inquinanti per le grandi città. A tutto questo si aggiunge il cambiamento in atto riguardo al possesso e all’utilizzo dell’auto privata in Italia, con un passaggio sempre più marcato dalla proprietà individuale all’affitto e al leasing delle vetture.
“La transizione alla mobilità elettrica è un passaggio obbligato anche dal punto di vista della risposta alla crisi climatica e ambientale e del rispetto degli impegni internazionali, europei e nazionali per la decarbonizzazione”, ha aggiunto Anna Donati, coordinatrice del gruppo di lavoro sulla mobilità sostenibile di Kyoto Club e membro del Comitato di indirizzo dell’Alleanza Clima Lavoro. “Ma per sostenere questo passaggio – ha proseguito Donati – l’Italia deve accelerare, manca una strategia industriale con politiche, misure e risorse per la formazione e la riqualificazione dei lavoratori dei settori interessati dalla transizione come l’automotive, per la produzione, il recupero e lo smaltimento delle batterie elettriche, per le terre rare”. Il Paese deve migliorare in fretta anche sul fronte delle rinnovabili, ed è necessario intervenire sul sistema degli incentivi statali riconvertendo i 5 miliardi di euro l’anno di sussidi ambientalmente dannosi per l’autotrasporto in sussidi ambientalmente favorevoli. Infine, bisogna ridurre il numero delle auto private che circolano nelle grandi città, investendo sul trasporto pubblico e sulla sharing mobility.
“Non illudiamoci, le fonti fossili vanno eliminate perché sono quelle che causano gli impatti ambientali più dannosi per il clima”, ha ribadito Anna Morgante, economista dell’Università degli Studi “G. D’Annunzio” Chieti-Pescara ed esperta di economia circolare. E proprio in un’ottica di economia circolare, Morgante ha invitato a riflettere sulla centralità del settore automotive italiano per una giusta transizione ecologica, guardando all’intero ciclo di vita del prodotto auto. Ad esempio, se la fase di assemblaggio dei veicoli con motore elettrico richiederà meno addetti rispetto a quelli con motore endotermico, il disassemblaggio e il recupero dei loro componenti potrà rappresentare un importante nuovo sbocco occupazionale, a beneficio tanto del lavoro quanto dell’ambiente e della sostenibilità.
Un’altra iniezione di ottimismo sul futuro del comparto auto è venuta da Giuseppe Ranalli, imprenditore a capo del Polo di Innovazione Automotive d’Abruzzo, che ha invitato a non sottovalutare le competenze e le capacità di innovazione italiane, accettando in pieno la sfida della transizione all’elettrico. Ma per far questo, ha aggiunto Ranalli, occorre pensare e muoversi in modo sinergico, mettendo a sistema le risorse presenti sui territori, a cominciare da quello abruzzese e della Val di Sangro, e implementando programmi di cooperazione e scambio con le università, i centri di ricerca e gli istituti tecnici superiori. L’obiettivo è aggiornare e migliorare la formazione e la specializzazione dei lavoratori, puntando sulla qualità della forza lavoro.
Per Davide Bubbico, sociologo del lavoro e dell’innovazione all’Università degli Studi di Salerno e ricercatore dell’Osservatorio TEA promosso da Motus-E e dal CAMI-Center for Automotive and Mobility Innovation del Dipartimento di Management dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, è di fondamentale importanza avviare una seria politica industriale per il complesso del sistema automotive che affronti innanzitutto il problema della concorrenza internazionale e della mancanza di adeguati investimenti in Italia, Paese segnato dall’anomalia che deriva dalla presenza di un solo produttore, Stellantis, che opera con una strategia industriale che troppo spesso non coincide con l’interesse nazionale, e da una forte e ramificata filiera della componentistica e dell’accessoristica con una forte proiezione sui mercati esteri, a partire da quelli tedesco e francese, che dovrebbe però essere adeguatamente guidata e sostenuta nel processo di transizione verde e digitale.
Sulla stessa linea anche il Segretario della Cgil Abruzzo e Molise Carmine Ranieri, che in particolare ha espresso una forte preoccupazione per la perdurante assenza di un piano industriale per gli stabilimenti italiani da parte di Stellantis, a cui sono peraltro legate come fornitrici e sub-fornitrici moltissime imprese automotive della Val di Sangro e del territorio abruzzese e molisano. E lo stesso discorso vale per il destino della gigafactory da realizzare a Termoli. Inoltre, per Ranieri “serve una visione strategica complessiva, una politica industriale sia nazionale che delle varie Regioni in grado di valorizzare le specificità dei vari distretti produttivi del Paese”.
Infine Michele De Palma, Segretario generale della Fiom Cgil e membro del Comitato di indirizzo dell’Alleanza Clima Lavoro, nel ricordare la storica mobilitazione sindacale degli operai automotive statunitensi di queste settimane, ha rimarcato il fatto che la transizione debba essere democratica, assicurando un diritto alla mobilità per tutti ed evitando di replicare nel nostro Paese il modello elitario di Tesla. “Non ci si salverà tentando di opporsi a un processo che è già in atto continuando a produrre come abbiamo fatto fino a oggi, ed è per questo che serve un governo della transizione”, ha specificato De Palma. In tal senso, occorre un approccio sistemico di politica industriale con interventi integrati sull’orario di lavoro (a parità di salario) e gli ammortizzatori sociali, piani di aggiornamento e reskilling della forza lavoro, percorsi di formazione per i giovani, un maggior coinvolgimento delle maestranze nelle scelte industriali delle imprese. “Se invece – ha concluso il Segretario Fiom – passa l’idea che in Italia la transizione si fa al prezzo di licenziamenti, impoverimento e precarizzazione dei lavoratori, allora da noi non avremo né la transizione, né la pace sociale”.