Per farsi una ragione dell’esito nefasto delle General elections 2019 in Uk, bisogna confrontare i flussi elettorali con i collegi al voto nel Referendum del 2016: si scopre così che non ha vinto Boris Johnson ma di nuovo la Brexit. Da Volerelaluna.
“Più che Boris Johnson, ha vinto la Brexit”, si può dire. O, all’inverso, possiamo girare la frase affermando che “Non è tanto Jeremy Corbyn ad aver perso, è la voglia di Brexit ad aver vinto”. Ma il risultato non cambia: nelle elezioni politiche del Regno Unito (forse le ultime nelle quali sia rimasto “Unito”), la geopolitica ha prevalso su qualunque altro aspetto, fosse esso il programma sociale dei partiti, la questione dei diritti o l’articolazione spaziale delle culture politiche. Nel Paese in cui il cleavage sociale (la frattura “capitale/lavoro”, “possidenti/dipendenti”) aveva, pressoché da sempre, “regolato il traffico” dei flussi elettorali, per la prima volta nella storia lo spartiacque è stato al contrario una classica questione identitaria che ha tagliato orizzontalmente le diverse classi sociali e le stesse appartenenze politiche riducendo ancora una volta, come nel referendum del 2016, il campo all’alternativa secca tra Leave e Remain. E’ come se il fantasma di quella consultazione finita con un esito in ampia parte inaspettato, avesse continuato ad aggirarsi inquieto per i corridoi del cosiddetto “Modello Westminster” celebrando, infine, la propria vendetta per non esser stato a suo tempo placato.
L’ho pensato allora – e a maggior ragione lo penso oggi -, che subito dopo la vittoria, sia pur di misura, del Leave nel 2016, tutti, in primo luogo i labour, avrebbero dovuto inchinarsi alla volontà popolare e mettersi al lavoro per favorire un’uscita dall’Unione Europea la meno dolorosa per tutti. L’aver continuato a duellare lungo quella linea di faglia, magari alludendo alla possibile replica di un secondo referendum (con la motivazione che il “popolo immaturo” si sarebbe accorto di aver sbagliato e si sarebbe ricreduto) è stato letale. Per chi ha partecipato a quel gioco, per la sinistra inglese, per la democrazia europea e di conseguenza per tutti noi. Insomma, per tutti, tranne che per Boris Johnson, che infatti ha stravinto pur rimanendo pressoché fermo.
Una responsabilità grande, per quell’atteggiamento sciagurato, l’ha avuta l’ala blairiana del Labour, che da subito è partita lancia in resta indifferente al fatto che una parte consistente dell’elettorato laburista, soprattutto nelle ex aree industriali e nelle periferie, si era espressa contro il Remain caldeggiato dai winners della globalizzazione. Quella stessa parte che Corbyn, nel 2017, ha battuto, ma che non ha per questo demorso, ed è riuscita a condizionare in buona misura l’atteggiamento oscillante che sulla questione il leader del Labour party ha tenuto fino alla vigilia del voto, pagando un alto prezzo.
Ora i corrispondenti italiani di quel laburismo pourri, nella persona del solito Matteo Renzi, specialista nella distruzione politica e nella distrazione di massa, senza neppure preoccuparsi di nascondere più di tanto il proprio compiacimento per quella sconfitta, dall’alto del loro 4%, vanno sproloquiando di un eccesso di radicalismo da parte di Jeremy Corbyn all’origine della caduta. E nella loro scia muove un fitto codazzo di opinion leader ed editorialisti della stampa “di sistema”: Antonio Polito, ad esempio, che sul “Corriere” irride Corbyn per quel suo “programma così vintage, così anni 70, che gli elettori hanno trattato esattamente come trattarono quello: bocciandolo”; o “La Stampa” che titola Il testardo Corbyn abbagliato dall’utopia della sinistra radicale, dimenticando – tutti – che due anni fa su un programma simile il vecchio Jeremy fece il pieno. E mostrando una buona dose di ignoranza dei fatti e anche dei dati, oltre che della geografia.
Basta dare infatti un’occhiata, anche solo distratta, alle dimensioni del voto e alla sua distribuzione territoriale, per capire quale ne è stata la reale determinante. I Tories di Johnson, grazie al maggioritario secco, fanno certo il pieno di seggi, ma quanto a voti vanno poco al di sopra di quanto raccolto nel 2017 da Theresa May (appena 336.000 in più, con uno swing di un frazionale 1,2%).