Le borse sono al loro massimo storico, l’inflazione è minima, le Banche centrali, FED e BCE in testa, si congratulano per il successo delle loro politiche di Quantitative Easing. Il loro entusiasmo è appannato solo da un tenue pericolo che scoppi una nuova bolla speculativa e dalle minacce che partono da Trump e Goldman Sachs […]
Le borse sono al loro massimo storico, l’inflazione è minima, le Banche centrali, a partire dalla FED e dalla BCE si congratulano per il successo delle loro politiche di Quantitative Easing (QE). Il loro entusiasmo è appannato solo da un tenue pericolo che scoppi una nuova bolla speculativa e dalle minacce che partono da Trump e Goldman Sachs di allentare le regole di disciplina finanziaria introdotte negli USA da Obama.
Vorrei provare a spiegare, con pochi riferimenti colti ma molto semplici, perché vi è qualcosa di illusorio e illogico in questa contentezza.
Alcuni economisti di altri tempi (Simon Newcomb, Irving Fisher) definirono, a cavallo del ‘900, una relazione da un lato tra quantità di moneta (M) e sua velocità di circolazione (V, il numero di volte che in un anno la stessa moneta è usata per le transazioni T che avvengono in una economia), e, dall’altro, le quantità di “cose” scambiate attraverso tali transazioni e i relativi prezzi medi (P): MV=TP. Si tratta di una sorta di identità ma bisogna stare attenti. Quali sono infatti le cose oggetto delle transazioni?
Per quei due economisti “tutte”, dalle compravendite di proprietà immobiliari avvenute in un anno, ad esempio, ai chili di pesce prodotti e scambiati nello stesso anno. Si tratta quindi di “cose” molto eterogenee. Le proprietà sono “stock di ricchezza” se già esistenti, mentre i pesci sono tipicamente sempre “flussi di prodotti”. Taluni beni che entreranno a far parte degli stock di ricchezza possono essere “flussi prodotti”, come ad esempio delle case, ma solo se si tratta di case la cui produzione è ultimata nello stesso anno e il loro valore viene depurato del valore del suolo su cui sorgono. Il suolo è infatti qualcosa che “esiste” e non è prodotto. Si tenga comunque presente che le case prodotte e vendute in ciascun anno sono di solito una piccola frazione di tutte le compravendite di case nello stesso anno.
Nel corso del tempo, forse per la difficoltà di registrare statisticamente le transazioni sui flussi di ricchezza (come accenna Milton Friedman), la relazione originaria è stata applicata ai soli flussi prodotti (detti solitamente “Q”). La parte a destra del segno “=” diveniva così non più TP ma p(Q)Q (dove il termine P(Q) riferisce i flussi di cose prodotte ai soli prezzi di tali flussi).
In realtà si sarebbe sempre dovuto ricordare che, a prescindere dalle difficoltà statistiche, se esiste una data quantità di moneta (e trascuriamo per il momento di chiederci perché esista), essa serve sia le transazioni sugli stock che quelle sui flussi. Ma tutti sembrano aver finito per dimenticarlo, perfino le autorità monetarie, che forse hanno fatto solo finta. Sta di fatto che sono sempre state considerate come rilevanti solo le transazioni sui flussi e l’inflazione dei relativi prezzi. Questo spiega perché, ad esempio, la Banca Centrale Europea aveva stabilito, prima ancora che l’Euro cominciasse a circolare, di aumentare lo stock di moneta del 4,5% per anno. Si pensava infatti ad un tasso di inflazione non superiore al 2% e ad un tasso di crescita reale (dei flussi di produzione) previsto per l’insieme dei paesi dell’area Euro del 2,5% circa.
In realtà, invece, la BCE ha aumentato la quantità di moneta di oltre il 7% fino allo scoppio della crisi, arrampicandosi sugli specchi per giustificare perché eccedeva il suo target del 4,5% (si veda per tutte le giustificazioni l’ineffabile discorso del 2005 di Otmar Issing (“The Monetary Pillar of the ECB”), mentre l’inflazione restava, “stranamente”, al di sotto del 2%.
Una persona di buon senso (ma non la sofisticatissima e diplomaticissima BCE) trarrebbe da questa storia tre conclusioni: che la BCE non sia in grado di controllare l’aumento della quantità di moneta, che sia sbagliato pensare che la moneta alimenti solo i flussi e la loro inflazione, e che quindi la moneta che non è andata a finanziare l’inflazione dei flussi abbia agito sul prezzo medio degli stock. Alla stessa persona di buon senso, potrebbe anche venire un dubbio linguistico: perché l’aumento dei prezzi dei flussi prodotti si chiama inflazione e viene ritenuto negativo e pericoloso, mentre l’aumento dei prezzi degli stock di ricchezza viene ritenuto una benedizione, un 30 e lode conferito dai “mercati” (novelli aruspici), e non una banale “inflazione degli stock”, senza una evidente relazione con il benessere del paese (che, semplificando un po’, ha evidenti relazioni con i flussi prodotti, grosso modo il PIL e il suo tasso di aumento)?
Intendiamoci. La BCE vedeva la possibilità di una bolla speculativa che avrebbe potuto scoppiare da un momento all’altro, ma era molto reticente nell’individuare a chiare lettere una relazione tra eccessiva creazione di moneta e bolla speculativa. Rispetto alla bolla la BCE affermava, tuttavia, di voler adottare un freno morbido (“to lean against the wind”), ritenendosi sicura di poter rimediare posticipatamente lo sconquasso del “dopo-scoppio” della bolla.
Quanto alla capacità di rimediare posticipatamente siamo tutti testimoni storici. La possibilità di fare una politica di “lean against the wind” è invece illusoria. L’intera situazione è simile a quella degli acquedotti italiani: gli acquedotti attingono acqua dalle sorgenti per inviarla agli utenti (la moneta è diretta a finanziare le transazioni sui flussi). L’acquedotto ha perdite (un parte della moneta va a finanziare transazioni sulla ricchezza). Come si fa a limitare le perdite (il finanziamento della speculazione e dei fenomeni che stanno dietro il gonfiamento degli indici di borsa) se non riparando gli acquedotti (agendo direttamente sulla regolazione e sulla tassazione delle transazioni finanziarie)? Ha senso, comunque, non riparare le perdite e limitarsi ad attingere più acqua dalle fonti? Ma su questo le Banche Centrali sono molto diplomatiche!
E oggi? E il QE? Dietro questo nome accattivante altro non c’è che l’acquisto, da parte della Banca Centrale, di titoli obbligazionari a reddito fisso, prevalentemente pubblici, che sono, (ancora una volta, si dice) “prevalentemente” nelle mani delle banche ordinarie. Di conseguenza queste si gonfiano di moneta. C’è un altro effetto. Quando gli acquisti di tali titoli sono massicci il loro prezzo tende ad essere relativamente alto. Il tasso effettivo di interesse, misurato dal rapporto tra reddito fisso e prezzo del titolo, tende di conseguenza ad essere relativamente basso, rendendo i prestiti della banca (nonché l’indebitamento degli stati) relativamente poco onerosi. Da un’ampia disponibilità di moneta e da bassi tassi di interesse le Banche Centrali si aspettano quindi che le famiglie (i cui oneri debitori diminuiscono) consumino di più e che le imprese produttive e gli stati investano di più. E in parte esse hanno certamente ragione sicché, in assenza di altre politiche pubbliche oltre a quelle monetarie, possiamo probabilmente ben dire “meno male che c’è il QE, altrimenti dove saremmo precipitati?”.
Ma non è solo così, purtroppo. Ci stanno, come si è visto, le “perdite dell’acquedotto”.
Oggi si sta infatti aumentando la quantità di moneta in una misura che è certamente maggiore della crescita dei flussi di produzione, sia dei beni di consumo e dei servizi non finanziari sia degli investimenti strumentali a tali flussi di produzione. La conseguenza, alla luce di quanto già successo nei primi “anni 2000” ed in piena coerenza con la parabola dell’acquedotto, non può che essere o un aumento della giacenza di tale moneta nelle casse delle banche o un aumento dei prestiti per speculazione e per l’acquisto di stock di ricchezza; ne consegue una inflazione degli stock di ricchezza che –abbiamo visto- fa compiacere le borse, le banche (a quanto pare anche quelle centrali) e chi si può muovere con disinvoltura nel mercato della ricchezza (i più ricchi, quelli che lucrano percentuali sulle transazioni finanziarie).
Da tutto ciò derivano effetti rilevanti: i flussi di produzione crescono meno dei valori della ricchezza, la distribuzione dei redditi peggiora per i più poveri, la dinamica dell’occupazione il più delle volte non tiene il passo della disponibilità a lavorare, le banche potrebbero esporsi troppo nei prestiti speculativi aumentando nuovamente i rischi di fallimento visti in un passato non certo remoto, le imprese finanziarie potrebbero correre verso l’esplosione di una nuova bolla, replicando quanto avvenuto nel 2007/2008. Dopo quella crisi la disciplina regolativa delle banche, delle operazioni finanziarie e dei comportamenti dei relativi operatori è tenuemente (ma probabilmente non sufficientemente) cresciuta. Non vi sono state infatti sanzioni memorabili per i responsabili. Oggi comunque, come ricordavo, Trump e Morgan Stanley brigano per rimuovere anche quel po’ di disciplina.
Non concludo, come invece sembra essere di rigore per i critici del QE, dicendo che è ora di finirla con questa politica. Dico solo che non si può continuare ad affidarsi solo alla politica monetaria. Se vi sono più problemi e di conseguenza più obiettivi, moltiplicare gli strumenti di intervento è di buon senso, come solidamente argomentava Jan Tinbergen, il primo economista a vincere il Nobel. Purtroppo la sfera politica non si muove e le Banche Centrali, che a parole dicono quanto ho appena detto in merito alla pluralità di strumenti necessari, si limitano alle esortazioni, mai osando minacce credibili più forti. Non si addice loro, infatti, e poi potrebbero addirittura innescare una nuova crisi.