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Unicredit e il destino delle banche europee

Il destino di Unicredit si lega alla crisi delle tedesche Commerzbank e Deutsche Bank e alla possibile fusione con Société Générale. La punta dell’iceberg del riassetto del sistema bancario europeo e mondiale.

Unicredit al centro dell’attenzione

Non capita di frequente che delle banche italiane si parli con molto rilievo nella stampa internazionale, se non in occasione di possibili crisi delle stesse. Ma in queste settimane le vicende di Unicredit sono state al centro dell’attenzione del mondo politico e finanziario europeo ed oltre; e questo, oltre che per la pesante multa comminata dagli Stati Uniti alla banca (alcune delle cui filiali, in particolare quella tedesca, avrebbero infranto le sanzioni all’Iran e ad altri Paesi), anche per il suo interesse  all’acquisizione della tedesca Commerzbank e/o (non è chiaro) per una possibile fusione con la francese Société Générale, nonché infine per una possibile multa che potrebbe essere comminata all’istituto dalla Commissione Europea per una supposta violazione delle norme antitrust, sempre da parte della filiale tedesca (la violazione avrebbe peraltro interessato anche altre sette banche del nostro continente).

Partendo in particolare dalle citate ipotesi di fusione, si può cercare di sviluppare qualche ragionamento più ampio intorno allo Stato e alle prospettive delle grandi banche del nostro continente.

L’ipotesi di acquisizione

L’Unicredit, come del resto più in generale il sistema bancario italiano, sono usciti da poco da una grave crisi. A suo tempo l’istituto aveva avviato una strategia di grande espansione all’estero, in Europa e nel resto del mondo, che era arrivata a toccare anche le lontane steppe dell’Asia centrale; tali sviluppi (insieme alla crisi economica del nostro Paese, con i conseguenti grandi strascichi di crediti inesigibili), avevano condotto dei gravi guasti nei bilanci aziendali, mentre l’istituto, solo da poco, è tornato alla normalità attraverso un durissimo piano di ristrutturazione ed un fortissimo aumento di capitale.

Ora, appena risanato, esso non vede apparentemente l’ora di cacciarsi di nuovo nei guai; questa è in effetti almeno la seconda volta che si parla di assorbimento della Commerzbank (ma dietro Unicredit c’è la fila di almeno altre tre-quattro grandi banche europee, ansiose anch’esse di conquistare il suolo tedesco e di crearsi dei nuovi problemi). 

Parallelamente si sussurra anche, come già accennato, di una sua possibile fusione “tra eguali” con la francese Société Générale (che intanto sta mandando a casa 1600 addetti), se si può mai usare veramente tale espressione quando ci sono di mezzo i cugini transalpini, che non amano in generale le coabitazioni non guidate da loro, come hanno mostrato ancora nelle scorse settimane i problemi della fusione Luxottica-Essilor. 

Concentrandoci sulla questione della Commerzbank, bisogna sottolineare intanto che ci troviamo di fronte ad un  paradosso, quello di un Paese come la Germania che vede il proprio sistema industriale marciare da molti anni molto bene ed un sistema finanziario invece che è da tempo sostanzialmente  a pezzi. 

Delle tre grandi banche a capitale nazionale presenti nel Paese dodici anni fa, la Dresdner -in crisi- era stata a suo tempo assorbita proprio dalla Commerzbank. Ora, sia la stessa Commerzbank che la Deutsche Bank sono in rilevante difficoltà e il governo ha pensato bene di fonderle: ma due debolezze faranno poi una forza?

I problemi dell’ipotesi di fusione e la crisi finanziaria del 2008

L’ipotizzata fusione è comunque soggetta a dubbi e critiche su diversi fronti, strategico, economico, organizzativo, finanziario, in patria e all’estero e sembra incontrare in questo momento rilevanti difficoltà ad andare avanti anche sul fronte politico. Ecco allora l’Unicredit pronta a eventualmente subentrare nel varco, progettando di fondere  l’istituto con la sua Hypovereinsbank, creando così un grande raggruppamento tra banche “tedesche”, raggruppamento in cui l’Unicredit avrebbe circa il 30% del capitale, sufficiente comunque ad assicurarle il controllo. 

Ma i politici locali accetteranno mai una cosa simile, anche se i due istituti tedeschi- fusi in uno solo- avrebbero apparentemente una rilevante autonomia operativa rispetto alla casa italiana? Si tratterebbe in ogni caso, di una grande banca tedesca, che sarebbe controllata, ahimè, da gente del Sud.   

Al di là del caso specifico, ci sembra che nessuno si ricordi più della crisi finanziaria del 2008; eppure, sono passati solo poco più di dieci anni  dal suo scoppio, scoppio cui le grandi banche internazionali diedero a suo tempo un grande contributo, con le conseguenze drammatiche che essa ha poi portato con se. 

Questi raggruppamenti non solo hanno come conseguenza dei costi sociali enormi, tra l’altro con decine di migliaia di possibili licenziamenti, in particolare per la sovrapposizione negli stessi territori di più filiali, nonché per le funzioni doppie esistenti nei loro servizi centrali; essi danno anche luogo a delle strutture ingestibili, difficili e comunque molto lente da unificare; il tutto è poi normalmente fonte certa di ulteriore instabilità finanziaria.

Da un altro punto di vista bisogna ricordare che il valore in borsa dei titoli delle banche europee è oggi spesso solo una modesta frazione di quello del loro capitale netto contabile, mentre comunque tale valore è, negli ultimi mesi, sceso ancora di parecchio; questo indica come il mercato finanziario diffidi molto della  loro situazione e delle loro prospettive.

In effetti la crisi Commerzbank-Deutsche Bank appare solo la punta dell’iceberg, il caso più evidente, di grandi istituti europei che si trovano in una situazione economica e strategica per molti versi piuttosto difficile.

Il confronto delle banche europee con quelle statunitensi

Ma, a questo punto, molti analisti mettono in dubbio l’analisi critica che guarda alle troppo grandi dimensioni delle banche del nostro continente come ad un male rilevante, partendo dal fatto che i grandi istituti statunitensi hanno delle dimensioni più grandi e che parallelamente essi sono molto più redditivi.  

Così, di recente, la European Banking Authority, in una sua rassegna del marzo 2019, ha indicato che negli ultimi tre mesi del 2018 il ritorno medio sul capitale delle principali 190 banche europee è stato del 6,5%, mentre  negli ultimi quattro anni esso ha oscillato tra il 3,3% ed il 7,3%. Tali cifre indicano dei risultati ben inferiori a quelli ottenuti dalla banche statunitensi, che possiamo collocare in media su rendimenti intorno al 12%; le analisi mostrano risultati migliori di queste ultime rispetto a quelle del nostro continente anche su altri importanti indicatori di risultato (The Economist, 2019).

A cosa sono dovute tali differenze?

Intanto le banche statunitensi, come già accennato, sono più grandi di quelle europee; questo per le maggiori dimensioni degli Stati Uniti, mentre in Europa abbiamo delle banche ancora abbastanza legate ai singoli paesi di origine. In questo senso in teoria si dovrebbero creare molte più fusioni tra gli istituti  dei singoli Paesi, come abbiamo accennato prima. 

Tra le cause del divario si registra poi anche la presenza di mercati più competitivi in Europa, situazione cui contribuisce la presenza di molte banche piccole e aggressive, molto consolidate sul territorio.

Come sottolinea poi di recente sempre l’Economist (The Economist, 2019),  dopo lo scoppio della crisi le banche statunitensi furono rapidamente obbligate dal governo a ricapitalizzarsi, mentre quelle europee hanno molto tardato a farlo. 

Inoltre, le banche europee hanno da una parte costi troppo elevati e dall’altra non spendono abbastanza, e comunque spendono di frequente male, nelle nuove tecnologie. Si ha, più in generale, la sensazione che le nuove imprese cinesi e statunitensi del fintech e anche i grandi conglomerati digitali dei due paesi potrebbero conquistare in relativamente breve tempo fette molto consistenti del mercato finanziario, lasciando magari alle banche tradizionali del nostro continente le fette meno redditive dello stesso. 

Infine, gli istituti statunitensi sono molto più presenti nell’investment banking, attività che può essere più redditizia di quella della banca di dettaglio, i cui risultati sono molto influenzati, tra l’altro, dall’andamento dei tassi di interesse in Europa, andamento oggi assai depresso. Così il margine di interesse (la differenza sui tassi medi dei soldi prestati alla clientela e quelli della raccolta) è stato nel 2018 pari all’1,44% in Europa, contro il 3,40% degli Stati Uniti. Gli istituti europei perdono da anni quote di mercato nel settore e nel primo trimestre del 2019 i loro ricavi sono caduti di più del 20% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (Morris, Crow, 2019). Essi sono in un atteggiamento di parziale ritirata da tale campo e comunque molti manager del settore vedono i loro bonus ridursi in maniera consistente.

Cosa fare

Noi in realtà pensiamo che, lungi dall’assecondare i processi di ulteriore concentrazione nel settore, si ponga da lungo tempo il problema della riduzione delle dimensioni delle grandi banche, organismi che, come ha mostrato la crisi, rischiano di andare facilmente fuori controllo, con gravi  conseguenze potenziali per la collettività. Sempre ai fini di ridurre i rischi e le tentazioni speculative, appare poi opportuna, come appare peraltro chiaro da decenni, la separazione delle attività di dettaglio da quelle di investment bank.

Il fatto che con le maggiori dimensioni si possa accrescere la redditività non è un motivo sufficiente per fare altrimenti rispetto a quanto sopra suggerito. Ricordiamo, tra l’altro, che una redditività elevata è in genere associata ad alti livelli di rischio e/o a situazioni di monopolio o di oligopolio ristretto.   

Ricordiamo anche come la gran parte delle grandi banche europee e statunitensi siano state invischiate dopo la crisi, e lo sono ancora oggi, come mostrano le cronache finanziarie degli ultimi mesi, in un numero molto numeroso di procedimenti giudiziari, che indicano come esse non rispettino la legge e questo spesso anche in combutta tra di loro. Qualcuno ha parlato a questo ultimo proposito dell’esistenza di vere associazioni a delinquere, sotto l’ala benevola dei governi. Quando gli imbrogli vengono poi scoperti, gli istituti se la cavano di solito con delle multe, più o meno pesanti e normalmente nessuno dei manager va poi in galera.  

Sottolineiamo anche il fatto che, pur essendo le banche state costrette dopo la crisi ad aumentare i livelli di capitali propri, tali livelli sono giudicati da molti studiosi come ancora largamente insufficienti. Per altro verso, come è stato da più parti notato, le stesse banche non accetterebbero certo di finanziare un’impresa industriale che presentasse dei bilanci con una struttura finanziaria simile alla loro.

Le indicazioni per un cambiamento di politiche nel settore, tra l’altro con una limitazione delle dimensioni delle banche, un rilevante aumento dei mezzi propri delle stesse, un’accelerazione delle trasformazioni tecnologiche, un più stretto controllo dei loro comportamenti, tra l’altro con la separazione tra le attività tradizionali e quelle di investiment bank, ben difficilmente verranno in realtà accolte; il clima politico purtroppo non sembra andare in tale direzione. 

Non ne dovrebbero venire nei prossimi anni sviluppi positivi per il settore, considerando anche che le minacce di una nuova crisi sono sempre presenti all’orizzonte.

Testi citati nell’articolo

-Morris S., Crow  D., Europe’s investment banks braced for more pain, www.ft.com, 22 aprile 2019

The Economist, European banks. The land of the living dead, 6 aprile 2019