Top menu

Un sacchetto in testa alla protesta giovanile

I leader mondiali a Nairobi si sono rifiutati di avviare lo stop all’inquinamento marino da plastica. Al 2030 rischiamo che aumenti del 50% il CO2 da plastica e di tre volte per il suo incenerimento. L’impegno dell’Italia.

Il 15 marzo, proprio nel giorno del trionfo del climate strike quando la protesta giovanile invadeva le piazze di tutto il mondo per chiedere impegni concreti e immediati ai governi nel rispetto della convenzione internazionale sui cambiamenti climatici, per contenere la febbre montante del Pianeta, i leader mondiali riuniti a Nairobi, a conclusione dell’assemblea UNEA 4, si sono rifiutati di avviare un percorso che porti ad un Trattato globale vincolante per contrastare l’inquinamento marino da plastica. E siccome in campo ambientale tutto è interdipendente, le parole che sono state spese quel giorno per lodare l’impegno giovanile appaiono vuote o almeno contraddittorie solo se si pensi che, se non vengono invertiti i trend attuali, su scala globale al 2030 rischiamo che aumentino del 50% le emissioni di CO2 dovute alla plastica e triplichino quelle derivanti dal suo incenerimento.

Ma a conclusione della quarta Assemblea delle Nazioni Unite sull’Ambiente (UNEA-4), il più importante organismo decisionale globale sull’ambiente, la risoluzione, che è stata approvata, alla fine di un confronto che si è svolto a partire dall’11 marzo, si è limitata vergognosamente a rinnovare il mandato al gruppo di esperti sui rifiuti marini e le microplastiche già creato nel suo ambito.

I leader mondiali hanno clamorosamente fallito nel loro impegno per un’azione efficace contro la  crisi sempre più acuta dovuta all’inquinamento da plastica e non ascoltano la società civile”, ha commentato il WWF presente a Nairobi con una folta rappresentanza che ha svolto un’intensa opera di lobbying e advocacy per sostenere la bozza di risoluzione che era stata presentata dalla Norvegia e sostenuta da altri 30 Paesi per chiedere che ci fosse un mandato per un trattato vincolante in modo che all’Assemblea generale dell’ONU di settembre a New York si potesse avviare concretamente questo processo formale.

Il percorso per arrivare ad un nuovo trattato internazionale è  di certo molto complesso e si calcola con un orizzonte di anni, ma a Nairobi  c’era la necessità che fosse dato un segnale forte di consapevolezza che desse l’idea di una concreta e concorde inversione di tendenza significativa nel governo globale di questo nostro pianeta.

Infatti c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in cui gestiamo su scala globale la plastica: i  costi ambientali e sociali dell’inquinamento che essa causa ad oggi ricadono in maniera eccessiva sui consumatori e su chi ha la responsabilità della gestione dei rifiuti. La lotta all’inquinamento da plastica in natura non sarà risolutiva finché non vi sarà l’impegno di tutti i settori produttivi e commerciali coinvolti nel ciclo di vita della plastica. Ed è l’ora di affrontare il problema con strumenti efficaci su scala internazionale, perché il mare non ha confini: urge un Trattato globale vincolante e con un approccio unitario e condiviso che punti sulla responsabilità e sulla rendicontazione della situazione di fatto e dei progressi che potremmo conseguire.

Se non ci sono contromisure, ha valutato il WWF, in un dossier internazionale presentato il 4 marzo scorso, continueremo a immettere negli oceani del mondo ben 9 milioni di tonnellate di plastica l’anno. La plastica, che sta letteralmente soffocando il mondo, rappresenta il 70% dei rifiuti marini dei Paesi europei. 21,4 milioni di tonnellate di rifiuti plastica vengono generati ogni anno dai 21 Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Solo l’Italia produce 4,5 milioni di tonnellate di rifiuti plastici di cui 497 mila (l’11%) sono dispersi in natura (mentre: 1,4 milioni sono conferiti in discarica, 1,5 milioni inceneriti, 1,2 milioni riciclati).

Si aggiunga che nella catena del valore della plastica non vengono calcolate le esternalità ambientali, i costi per le comunità umane e per gli ecosistemi: ammonta a 8 miliardi di dollari il costo annuale degli effetti negativi diretti su pesca, commercio marittimo, turismo e sugli ecosistemi marini. Al mondo sono oltre 270 le specie animali vittime dell’intrappolamento in reti da pesca abbandonate e in altri rifiuti plastici; sono 240 le specie che presentano rifiuti plastici nello stomaco.

Il trattato globale doveva servire proprio a definire un’azione concorde su scala planetaria che definisse anche obiettivi nazionali vincolanti e meccanismi trasparenti di rendicontazione da estendere alle stesse imprese e per sostenere i paesi meno ricchi a migliorare la loro capacità di gestione del ciclo dei rifiuti.

L’Assemblea sull’ambiente di Nairobi, che ha una funzione istruttoria rispetto all’assemblea generale delle Nazioni Unite (UNGA, in acronimo, in inglese) non è riuscita a incardinare questo processo e c’è solo da augurarsi che non si debba andare al 2021 quando ci sarà UNEA-5. La società civile si sta comunque già organizzando per la Conferenza della Parti della Convenzione di Basilea sul traffico transfrontaliero dei rifiuti del maggio prossimo, per l’UNGA di settembre e in vista della riunione del Gruppo di esperti sui rifiuti marini, convocata a novembre 2019.

Non c’è nemmeno bisogno di dire che a questa preoccupante battuta di arresto hanno contribuito in pima fila gli Stati Uniti di Trump, che, come su altre materia ambientali, si sono messi di traverso, sostenuti dal Brasile di Bolsonaro: punte di diamante di un fronte che è nello stesso tempo sovranista e negazionista sui temi ambientali. Ma una resistenza è venuta anche da Cuba, in rappresentanza di un fronte di Paesi in via di sviluppo, per questioni legate all’impegno economico-finanziario richiesto, quando però Paesi come il Cile, il Gabon, il Guatemala, la Liberia, la Malesia, la Mauritania, il  Pakistan, il Senegal, e il Sudafrica hanno sostenuto apertamente e convintamente la proposta del trattato vincolante insieme a tutti i Paesi dell’Europa occidentale (con l’eccezione del Portogallo) e centro-settentrionale.

E l’Italia in questo quadro? Bisogna dare atto al ministro dell’Ambiente, Sergio Costa di avere sostenuto convintamente e pubblicamente a Nairobi la bozza di risoluzione presentata dalla Norvegia, a conferma della leadership su scala europea  che, almeno in questo campo, può vantare il nostro Paese nel perseguire l’obiettivo del bando progressivo della plastica.

Sì, perché l’Italia, non certo da oggi, ha fatto molto in questo campo. Il nostro Paese ha vietato l’utilizzo di shopper di plastica per la spesa dal primo gennaio 2011, dall’inizio del 2018 ha vietato l’uso di sacchetti di plastica per l’ortofrutta, dal primo gennaio 2019 ha vietato l’uso di bastoncini cotonati di plastica e dal primo gennaio 2020 bandirà l’uso di microplastiche nei cosmetici.

Ma il WWF Italia, consegnando al ministro Costa, il 5 marzo scorso, una petizione che ha raccolto oltre 720 mila firme di cittadini e cittadine italiane, ha chiesto di più anche al governo italiano. Quattro sono gli obiettivi della raccolta di firme su change.org ancora aperta (https://www.change.org/p/giuseppeconteit-e-sergiocosta-min-rendiamo-plasticfree-i-mari-d-italia):

1. Anticipare o comunque recepire immediatamente i contenuti della Direttiva comunitaria, in dirittura di arrivo, mettendo al bando 10 prodotti di plastica monouso (tra cui: posate, piatti, cannucce, mescolatori per bevande, aste per palloncini);

2. introdurre una cauzione sugli imballaggi di plastica e circuiti ben congegnati che favoriscano il loro riciclaggio;

3. bandire entro il 2025 tutti i prodotti contenenti microplastiche, a cominciare dai detergenti;

4. censire gli attrezzi da pesca “fantasma” (reti, lenze, nasse, ecc.) abbandonati in mare, favorendo il loro recupero e il loro conferimento in strutture portuali.

E proprio sull’inquinamento marino da plastica è da mesi che si attende l’importante provvedimento SalvaMare, elaborato dagli uffici del ministero dell’Ambiente, ma che ancora stenta a venire alla luce. Il decreto legislativo dovrebbe stabilire finalmente un importante passo in avanti di carattere giuridico che ha risvolti pratici amministrativi e legali non indifferenti. I rifiuti di plastica rinvenuti in mare da pescatori o comunque da chi opera e lavora in mare, oggi classificati come speciali (con le relative difficoltà di conferimento e smaltimento), sarebbero equiparati a rifiuti solidi urbani recuperati accidentalmente, con la possibilità di conferirli in apposite strutture portuali. Un piccolo, ma significativo, progresso che il nostro Paese può fare sperando che a cominciare dalla consapevolezza istituzionale sull’emergenza plastica, le principali questioni ambientali diventino davvero prioritarie nell’agenda di un governo che anche in questo campo ha dato segnali, a diri poco, contraddittori.