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Trump e il declino delle élite

L’elezione di Trump costituisce l’ennesimo passaggio di una crisi strutturale. Una crisi segnalata dal fatto che entrambi i candidati sono risultati essere i meno graditi di sempre dagli elettori

Trump ha vinto le elezioni presidenziali americane. L’establishment è scioccato. Vi sono valide ragioni per cui dovremmo essere scioccati anche noi? In primis, va riconosciuto che l’elezione di Trump è, fuor d’ogni dubbio, un evento di assoluta rilevanza. Ma è necessario rimanere sobri. Se e in che misura quest’elezione costituirà un punto di svolta nella storia contemporanea lo sapremo solo al momento in cui gli eventi si saranno completamente dispiegati. Inoltre, è necessario non dimenticare che nell’era di Twitter e Facebook ogni cosa è iper-amplificata. Si pensi all’atteggiamento tenuto dalla stampa otto anni fa, all’alba dell’ingresso di Barack Obama alla Casa Bianca: sembrava esser disceso, lungo le rive del Potomac, un novello Gesù Cristo.

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Figura 1. Trump e Clinton: i candidati più impopolari di sempre

Fonte: The Independent

Se questa rappresentazione idilliaca avesse coinciso con la realtà oggi Donald Trump non sarebbe stato eletto. In secondo luogo, la vittoria di Trump non viene fuori dal nulla. La sua elezione costituisce piuttosto l’ennesimo passaggio di una crisi strutturale, di carattere politico e socio-economico. Anche se Hillary Clinton fosse stata in grado di sconfiggere Trump, la crisi sarebbe rimasta li. Una crisi parzialmente segnalata dal fatto che entrambi i candidati a queste elezioni presidenziali sono risultati essere i meno graditi di sempre dagli elettori americani (si veda la Figura 1). L’elezione di Trump, dunque, non è un fulmine a ciel sereno né, tantomeno, qualcosa che dovrebbe scioccarci.

Nell’immediato futuro il nervosismo dell’establishment sarà, verosimilmente, crescente. Il dollaro, l’euro, l’oro, il petrolio, saranno tutti affetti da significativa volatilità. Una volatilità il cui verificarsi è piuttosto scontato ma i cui movimenti potrebbero esser resi ancor più marcati dalla possibilità di crisi bancarie. Crisi bancarie che, tutt’altro che paradossalmente, potrebbero aversi in Europa (Deutsche Bank? Monte dei Paschi? Banco Popular?) e non nella terra che ha consegnato a Trump l’ufficio di Presidente. Ciò che è più rilevante in questo momento, tuttavia, è che i lobbisti stanno già lavorando sodo per assicurarsi la nomina di rappresentanti – all’interno della squadra del neo presidente USA – favorevoli agli interessi che gli stessi lobbisti rappresentano. E le speranze ruotate attorno alla presidenza Clinton sono da leggere esattamente in questa chiave: gran parte dei lobbisti che hanno dominato negli anni recenti avrebbero preferito Hillary perché consapevoli che ora il loro lavoro sarà più duro, complicato e pieno di incognite. E questo non perché Trump è un Lenin sotto mentite spoglie. Ma perché è vero esattamente il contrario. Il Presidente eletto è tra i più rozzi capitalisti degli ultimi 40 anni – è opportuno ricordare che le fortune di Trump discendono dagli investimenti spregiudicati che lo stesso ha condotto nel corso del primo programma di austerità della storia recente: quello andato in scena nella New York post 1975. E questo lo rende pericoloso per tutti gli altri capitalisti d’assalto, che avrebbero preferito una controparte politica intenta ad apparire moderata ed affidabile e non qualcuno che, al contrario, farà uso esplicito della forza politica a favore dei propri interessi ed a detrimento di quelli dei suoi competitori. La domanda ora non è tanto se Trump troverà un ‘modus vivendi’, una modalità di convivenza con i ‘poteri forti’. Ma a quale prezzo – per le persone comuni e, in particolare, per le classi popolari – tale convivenza verrà trovata. Da questo punto di vista, le prospettive non sono rosee.

La vittoria di Trump, solo pochi mesi dopo la Brexit, è una misura evidente di quanto le elite abbiano perso il controllo della situazione. Sono le stesse elites che, ormai trent’anni fa, hanno smesso di fare politica ed hanno cominciato a dedicarsi al management (su questo punto, si veda il bellissimo documentario di Adam Curtis, Hypernormalisation). La pretesa è stata quella di avere un controllo sempre più ferreo sulla società (aziendalizzandola) mentre, allo stesso tempo, si indebolivano meccanismi democratici e corpi intermedi. Si è inaugurata l’epoca dell’estremo centro, la (presunta) fine della storia. E della politica. Si è inaugurata l’epoca in cui in luogo dell’agire politico è offerta, quale unica alternativa, l’efficiente amministrazione di se stessi quali lavoratori (individualizzati e in competizione gli uni con gli altri) e consumatori. E, oggi, quali solerti utilizzatori di Smartphones, Amazon e linee aeree low cost. Un enorme illusione, un miraggio coltivato spensieratamente mentre nel profondo e nei margini della società andavano e continuano ad andare aumentando sofferenza ed anomia. Ed il nutrimento di questo miraggio sono stati un numero crescente di nonsensi e contraddizioni: brutali semplificazioni a fronte di una realtà sempre più complessa. Una realtà sempre più complessa contrapposta a visioni semplicistiche e semplificatorie quali l’idea di mercati capaci di autostabilizzarsi popolati da agenti autointeressati in grado di ottenere il meglio per se (e indirettamente per il resto della popolazione) conformandosi ad una predefinita razionalità comportamentale. Ed il portato totalizzante di tale semplificazione ha pervaso in modo altrettanto totale l’erede di quella che una volta era identificata come Social Democrazia. Da Blair a Schröeder, fino ad arrivare a Obama e Renzi la scelta è stata quella di abbandonare Galbraith (La società opulenta, Edizioni di Comunità 2014) per proporsi come i portatori di un Milton Friedman edulcorato e dal consenso facile.

Un elemento contingente riguarda la patente incapacità delle elite di venire a capo dei sommovimenti economici andati in scena dal 2007 in poi. Come ha correttamente argomentato Streek, le elite hanno semplicemente ‘comprato tempo’. Con la naturale conseguenza che l’estremo centro che ha sorretto il trentennio appena trascorso ha cominciato ad assottigliarsi vertiginosamente producendo come conseguenza non la rivolta delle masse bensì il ritorno della politica. Un ritorno dalle forme esteticamente discutibili, non c’è dubbio. Di fronte al suicidio della politica Social e Cristiano Democratica, i cittadini si aggrappano a politici che promettono la riaffermazione di autogoverno, sovranità e democrazia. Ma il popolo, questi cittadini messi all’angolo sono di fronte all’ennesima illusione, all’ennesimo tradimento. Nella maggior parte dei casi coloro che promettono di rimettere il potere nelle mani dell’’uomo comune’ sono identificabili come estranei al sistema (dunque all’elite) solo in termini di linguaggio e retorica. Ma sono completamente organici al sistema stesso nei fatti.

Ciò di cui c’è bisogno è guardare in faccia le cause e le forme della crisi strutturale che abbiamo di fronte concentrandoci sulle ricadute politiche presenti e future di quest’ultima. Biasimare cittadini e votanti è, al contrario, sbagliato e controproducente. E’ necessario riconoscere come il capitalismo nelle sue attuali forme e la democrazia siano antitetici l’uno all’altra. Roosvelt fu in grado di ridare vigore alla democrazia abrogando, senza esitare, tutte le norme che toglievano il terreno sotto i piedi dei vari Huey Pierce Long del mondo e davano alle banche d’affari poteri inusitati. Potrebbe avvenire anche oggi. Ma una tale azione politica richiederebbe che Social e Cristiano Democratici abbandonassero il masochismo e la subalternità culturale che li ha fino ad oggi caratterizzati (un argomento simile è portato avanti da Barba e Pivetti, La Scomparsa delle Sinistra, Il Saggiatore 2016). Quanto questo attenga alla sfera delle utopie non è, per ora, dato sapere.

La Brexit era un evento il cui materializzarsi era considerato dai più ‘impossibile’. Ed infatti si è verificato. Lo stesso dicasi per l’elezione di Trump. Qual’è il prossimo ‘evento impossible’ la cui materializzazione dobbiamo aspettarci? Qual è il prossimo frutto avvelenato della storia che ci verrà portato a tavola? C’è qualcuno che ha oggi il coraggio di affermare che una vittoria di Marine Le Pen è da considerarsi impossibile? C’è qualcuno che ha oggi il coraggio di affermare che l’Unione Europea è un processo irreversibile? C’è qualcuno che ha oggi il coraggio di affermare che l’unico scenario politico verosimile sarà, nel prossimo futuro, la democrazia rappresentativa? Possiamo altresì aspettarci che a breve termine il ‘primo mondo’ cominci a guerreggiare con droni e virus informatici? Possiamo aspettarci che la continuazione di flussi migratori senza sosta renderanno sempre più dure le conseguenze della globalizzazione per ‘perdenti’?

Se guardiamo al mondo dal punto di vista di Trump, oggi, ci accorgiamo che Orban è la rappresentazione più verosimile di quello che il futuro ci riserva. Per evitarlo ci sarà bisogno che non solo la politica ma la Democrazia torni a dispiegare pienamente i suoi effetti. Ma questo ci costringe a fare i conti con una dicotomia spinosa, che a volte dimentichiamo ma che è premessa ineludibile per il risveglio della democrazia. E’ il capitalismo bellezza: se vuoi una democrazia funzionante ed in grado di sopravvivere a lungo non puoi consentire la libera circolazione dei capitali finanziari!