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Migranti economici e rifugiati: solidarietà per tutti

La drastica separazione tra emigrazione economica ed emigrazione politica rischia di portare a una deriva xenofobica e ad un atteggiamento persecutorio nei confronti degli immigrati per lavoro

Quella tra migranti economici e rifugiati appare come una distinzione abbastanza ovvia sia sul piano analitico che sul piano delle scelte operative. I rifugiati – in base alla saggezza comune – devono essere accolti. E questo dicono anche le convenzioni e le normative dei paesi dove rifugiati e richiedenti asilo arrivano (purché questo loro status sia stato riconosciuto).

Invece i primi, in particolare se sono arrivati in maniera irregolare (“clandestina” secondo la comune erronea dizione) non hanno diritto a entrare o restare e dovrebbero essere rimandati a casa – sempre secondo la saggezza comune (spesso, come in questo caso, fallace ma espressa in Italia dalle autorità istituzionali).

In realtà questa distinzione all’apparenza ovvia non è sufficiente. Esiste una tipologia vastissima di soggetti che vivono l’esperienza migratoria. E all’interno di questa vasta tipologia c’è di tutto, compresi anche i casi estremi (la persona vittima di persecuzione a livello individuale o di gruppo da un lato e chi cerca solo una possibilità di lavorare e sopravvivere dall’altro). Ma gli estremi viaggiano insieme e questo è senza dubbio un elemento di complicazione.

Questa coesistenza tra i due tipi di migrazioni è vera anche per le persone che ora sbarcano sulle coste Italiane dalla sponda sud del Mediterraneo o che sbarcavano sulle coste greche fino alla conclusione dell’accordo della Unione Europea con il regime di Erdogan. Il fatto è che alcuni dei più importanti movimenti migratori di questi anni richiedono l’uso di categorie meno rigide che superino quella distinzione e che non escludono dalla solidarietà anche con chi non è un rifugiato.

Ormai nella letteratura si fa riferimento a una serie di tipologie di migranti (e di cause delle migrazioni) che risultano più appropriate e corrispondenti alla realtà. Ormai si parla della differenza tra migrazioni “volontarie” e “involontarie” dove queste ultime riguardano la stragrande maggioranza delle persone che oggi si muovono al mondo, comprese – ma non solo – quelle in cerca di asilo. Il gruppo dei migranti involontari comprende sia coloro che partono fuggendo da guerre e devastazioni, pur non appartenendo ad alcun gruppo oggetto specifico di persecuzione o discriminazione, e sono costretti a fuggire e cercare riparo altrove, sia i perseguitati.

Si parla ancora di migrazioni che sono l’effetto di disastri ambientali e, più in generale, si potrebbe aggiungere dell’impoverimento strutturale delle aree di provenienza e di totale assenza di opportunità di lavoro e di reddito. E anche queste rientrano senza dubbio nell’ambito delle migrazioni forzate.

Gli esempi di situazioni in cui motivazioni politiche e motivazioni economiche delle migrazioni s’intrecciano sono quindi moltissimi sia a livello individuale sia a livello di grandi gruppi. Pensiamo per esempio alla grande migrazione curda verso la Repubblica Federale Tedesca, attivata certamente dalle condizioni di oppressione, ma anche della povertà della popolazione del Kurdistan. Da una parte, così come gli altri lavoratori provenienti dalla Turchia, gli emigranti curdi si muovevano spinti dal bisogno di uscire dalla povertà cercando lavoro all’estero. D’altra parte però per molti di loro era necessario allontanarsi per evitare la persecuzione politica.

Ancora, a questo proposito, va ricordata una nuova realtà dell’emigrazione per ricerca di lavoro legata proprio agli sconvolgimenti avvenuti nel Nord Africa e nel Medio Oriente negli ultimi anni. Si tratta delle vere proprie migrazioni forzate di lavoratori, già occupati in un paese diverso dal loro – ad esempio in Libia o in Iraq ma non solo – e che ora per le vicende del paese di arrivo vengono a trovarsi senza lavoro e devono muoversi necessariamente alla ricerca di soluzioni alternative. Gli sconvolgimenti politici sono la molla del loro spostamento. Ma la motivazione di fondo è quella tipica dell’emigrazione economica. Queste persone non fuggono da persecuzioni ma sono vittime degli sconvolgimenti politici – nel caso della Libia dei bombardamenti in primo luogo – che hanno tolto loro le possibilità di sopravvivenza materiale nei luoghi dove erano andati prima a lavorare.

Detto questo non si vuol negare una specificità della condizione del profugo, richiedente asilo e in condizione di ottenere lo status di rifugiato in base alla Convenzione di Ginevra. La sottolineatura dell’esistenza di una altra vasta gamma di migranti involontari e del dovere di solidarietà nei loro confronti non esclude affatto l’attenzione ai primi. Così, ad esempio, non si può non denunciare l’evoluzione dei regimi di asilo in Europa con il passaggio da una situazione più aperta e con una facilità di accesso alla condizione di rifugiato verso una – affermatasi fin dagli anni 80 – molto più selettiva. Non a caso si son dovute introdurre altre categorie quali quella della “Protezione sussidiaria” o della “Protezione umanitaria”.

Paradossalmente però l’attenzione rivolta ai profughi ha finito per far passare in secondo piano la questione della immigrazione dei soggetti che vengono a cercar lavoro e che finora nella maggior parte dei paesi un lavoro, bene o male, lo hanno trovato. Ciò perché di loro c’è sempre stato bisogno e ce ne sarà in futuro, il che mostra che la sindrome da invasione di cui l’Europa è vittima non ha grandi giustificazioni. La fissazione con la drastica separazione tra emigrazione economica ed emigrazione politica rischia di portare a una deriva xenofobica aldilà delle buone intenzioni, con l’effetto di un atteggiamento persecutorio nei confronti degli immigrati per lavoro, delle persone che vengono da noi perché al loro paese non ci sono le condizioni per la sopravvivenza.

Ma, come si dice, c’è sempre un peggio. All’antipatia per gli immigrati per lavoro, di recente si è aggiunta anche una insofferenza nei confronti dei rifugiati e richiedenti asilo. Nonostante che il numero di quelli che arrivano sulle coste meridionali d’Europa sia ancora contenuto e modesto rispetto al totale dalla immigrazione in Italia, la sindrome di assedio si esprime anche nei loro confronti. Se in qualche Paese, come nell’Ungheria di Orban, la repressione e la persecuzione non distinguono tra immigrati economici e richiedenti asilo, anche da noi le maniere forti cominciano ad essere invocate nei confronti di entrambi. All’origine di ciò non c’è solo una reazione popolare, da non sottovalutare, e neanche la politica dei gruppi xenofobi (spesso definiti inopinatamente “populisti”) ma c’è l’unico elemento unificante della politica europea sull’immigrazione, vale a dire il suo carattere securitario e la priorità data al controllo delle frontiere.