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L’ultimo treno per la Fca

La fusione annunciata tra Fca e Psa si presenta come una strada obbligata ma ancora folta di incognite. La più inquietante riguarda la possibilità di perdita di posti di lavoro, anche se per ora si assicura che non ci saranno chiusure di stabilimenti in Italia.

Le fusioni nell’auto

Pochi, anche tra le persone anziane, ricorderanno che già una volta, ai tempi di De Gaulle, la Fiat aveva acquisito la Citroen, che oggi fa parte del gruppo Psa, ma che l’avventura finì quasi subito per l’opposizione nazionalistica dei francesi (questo ci ricorda, tra l’altro, la storia analoga accaduta di recente con le prove di alleanza FCA-Renault). Di tentativi di accordo tra la casa ex-torinese e il produttore transalpino ce ne sono stati altri, successivamente, in particolare a partire dal 2014, senza che si riuscisse mai ad arrivare ad una qualche conclusione.

Va peraltro sottolineato che in passato sono falliti molti tentativi di integrazione tra le case dell’auto, da quello tra Renault e Volvo nel 1993 a quello successivo tra la Daimler e la Chrysler, sino a quello già citato, abortito prima di nascere, tra FCA e Renault, mentre sono relativamente poche le unioni riuscite, dal caso Fiat-Chrysler a quella molto recente tra Psa e Opel, sia pure con il sacrificio di migliaia di addetti. Nella letteratura manageriale si ricorda da tempo che, in generale, due fusioni su tre tra imprese alla fine falliscono e questo per i più vari motivi. Naturalmente speriamo che non succeda nel nostro caso.  

Nel settore le ragioni dei numerosi tentativi di fusione sono peraltro cambiate con il tempo; esse sono spinte oggi, soprattutto, dall’avanzare della rivoluzione tecnologica, oltre che dalla stagnazione dei mercati e dalle stringenti norme sulle emissioni inquinanti. Soprattutto per le case di minori dimensioni l’integrazione con altri produttori diventa ormai una scelta sostanzialmente obbligata.

Per il gruppo FCA l’ipotesi di fusione va al di là di una scelta semplicemente opportuna, è ormai una questione di vita o di morte. Il gruppo, se fosse lasciato solo, nel caso in cui l’intesa non andasse a buon fine, cosa in qualche modo ancora possibile, si troverebbe nello stato di un morto che cammina. E non godrebbe di molto migliore salute la Psa. Siamo ormai all’ultimo treno, che arriva peraltro con parecchio ritardo.

Lo scenario competitivo

Per capire meglio il quadro della situazione del gruppo ex-piemontese bisogna partire, sia pure brevemente, dal quadro della situazione attuale del settore. Stiamo assistendo in questi anni alle più profonde trasformazioni delle vetture dalla loro invenzione in poi. 

E’ drammaticamente cambiato di recente il baricentro delle produzioni, spostatosi ormai dai Paesi occidentali verso l’Asia, in particolare verso la Cina, di gran lunga oggi primo produttore mondiale e presenza sostanzialmente dominante.  

Avanzano a grandi passi gli investimenti nella vettura elettrica, che stanno assorbendo in pochi anni centinaia di miliardi di dollari, mentre si preannuncia la vettura autonoma, anche se con qualche anno di ritardo. Incidentalmente ricordiamo che circa la metà degli investimenti nei due nuovi settori si svolgono in Cina.

Tali trasformazioni implicano tra l’altro, per le loro caratteristiche, una drastica caduta dell’occupazione nel settore e, insieme ai grandi mutamenti in atto nella fruizione dei mezzi, anche a una presumibile riduzione nei livelli produttivi. I componentisti italiani potrebbero essere tra i più colpiti.

Comunque i mercati di tutto il mondo sono ormai stagnanti, contrariamente a previsioni anche recenti. E’ parallelamente sempre più concreta la minaccia di un ingresso nel settore dei protagonisti dell’economia numerica cinese e americana (il software rappresenterà circa 70% della vettura a guida autonoma), mentre le case tedesche, sino a ieri maestre del gioco, rischiano di essere messe fuori mercato in ragione del fatto che i veicoli vengono trasformati in prospettiva in telefonini su quattro ruote con conseguente mutamento nella caratteristiche dei consumi, e poi dai tempi di decisione delle imprese tedesche, molto più lunghi di quelli della case statunitensi e cinesi in un settore che richiede ormai delle decisioni e delle esecuzioni molto rapide.

Per altro verso i produttori di batterie sono oggi tutti asiatici, cinesi in particolare, oltre che giapponesi e coreani.

La tendenza alla crescita dell’affitto breve, rispetto all’acquisto, collegata da una parte al già citato sbarco della vettura autonoma, dall’altra al tendenziale  mutamento nel gusto dei consumatori, potrebbe ridurre e di molto, come già indicato, l’appeal delle vetture premium (Mercedes, BMW, Audi, Lexus). 

Bisogna infine ricordare l’affermarsi nei vari Paesi di norme sempre più stringenti in tema di protezione ambientale.    

Senza questa fusione, la FCA si sarebbe trovata con scarse capacità di investimento nelle nuove tecnologie e comunque in forte ritardo in tale campo, con quote di mercato ormai molto ridotte e ancora in caduta in Europa, in mancanza di modelli adeguati, con l’assenza dall’Asia, mercato principale e con grande difficoltà, infine, a rispettare le norme antinquinamento.

I vantaggi della fusione

Certamente la fusione porterà molti vantaggi: dal punto di vista geografico la PSA potrà così mettere un piede negli Stati Uniti e in America Latina, dove è assente, di fronte al gruppo ex-italiano che vi è fortemente impiantato, mentre le due case dovrebbero vedere rafforzata la loro posizione di mercato in Europa, diventando dei protagonisti indiscussi, peraltro in un mercato che perde da tempo colpi. La PSA è anche forte in alcuni Paesi africani, dai quali la FCA è assente. Resterà invece scoperta la Cina, dove la presenza di FCA è insignificante e quella di PSA appena più percettibile, avendo perduto negli ultimi anni quelle discrete posizioni che aveva una volta. Il problema resta aperto. Anche il Giappone resterà senza copertura, anche se qualcuno parla di un possibile inserimento futuro nella nuova compagine di uno dei produttori minori del Paese. 

Per il resto, la FCA potrà mettere le mani sulle nuove piattaforme flessibili della casa francese e potrà inoltre disporre dei maggiori, anche se non sufficienti, avanzamenti PSA sulle tecnologie elettriche e per la guida autonoma. La PSA potrà partecipare al potenziamento di marchi premium quali Alfa Romeo e Maserati, di cui non dispone.

Ovviamente le maggiori dimensioni permetteranno probabilmente di fare investimenti più adeguati sulle nuove tecnologie, cercando di tenere il passo con cinesi, americani e tedeschi. Il governo francese insiste per una partecipazione della nuova compagine ai progetti europei sulle batterie, cosa che appare sensata. Infine sempre i francesi potranno gloriarsi del fatto di avere due case del loro Paese tra i primi quattro produttori mondiali.

Un accordo paritario?

Si parla nei comunicati ufficiali di fusione tra eguali e formalmente in effetti il capitale sarà diviso in maniera paritetica – 50-50 – tra i due gruppi; ma in realtà il direttore generale sarà francese mentre il consiglio di amministrazione sarà formato da undici membri, di cui sei nominati da PSA e solo cinque da FCA.

Del resto possiamo ricordare un altro accordo paritario, quello a suo tempo sottoscritto sempre tra francesi e italiani per il controllo della STM; oggi anche la stampa italiana ne parla, non molto sorprendentemente, come di un’azienda francese. Il fatto è che, anche lasciando di lato la proverbiale arroganza transalpina, sul piano politico, economico, organizzativo la parte francese appare in generale molto più attrezzata della nostra.

A livello più generale, si sa che i francesi hanno svolto negli anni una formidabile campagna acquisti delle imprese italiane, controllandone oggi molte e tra la più vitali, mentre quando, raramente per la verità, qualche azienda italiana tenta di prendere il controllo di una società francese vengono eretti dall’altra parte solidi ostacoli, come mostra di recente il caso Fincantieri- STX.

Nel progetto di fusione di cui stiamo parlando, mentre i francesi e persino i tedeschi si vanno subito agitando, il governo italiano mantiene il ruolo di un gentiluomo di campagna inglese che beve tranquillo la sua tazza di tè ammirando il paesaggio. 

Alcuni potenziali problemi

Naturalmente il progetto è soggetto a diverse minacce, che il tempo si incaricherà di mostrare quanto saranno rilevanti.

Bisogna ricordare che nel capitale di Psa, con delle quote analoghe e che si aggirano più o meno sul 13% per ciascuno, sono presenti da una parte i cinesi di Dongfeng, dall’altra lo Stato francese e poi la famiglia Peugeot. 

Non sappiamo quale sarà la reazione di Trump al fatto che capitali cinesi siano presenti nel nuovo gruppo, anche se si può dire che, alla fine, la partecipazione al capitale della nuova compagine del produttore cinese sarà molto diluita (e si collocherà intorno al 6%) e che, d’altra parte, si sussurra da tempo che la Dongfeng vorrebbe venderla, in tutto o in parte (da quando la società cinese ha  acquistato la partecipazione, il valore del pacchetto è aumentato di circa tre volte).

Più minacciosa appare potenzialmente la presenza dello Stato. Come è ampiamente noto, Macron ha già fatto fallire la precedente intesa FCA- Renault (oltre ad aver messo in fortissima difficoltà, come già ricordato, quella Fincantieri- STX), anche se in quel caso c’era di mezzo la complicazione dei giapponesi della Nissan. In ogni caso il ministro dell’Economia ha già messo le mani avanti, dicendo che non ci dovranno essere chiusure di stabilimenti, riduzioni di personale, perdite di sovranità francese. E in effetti, come già ricordato, il DG sarà francese, i consiglieri francesi saranno sei contro i cinque italiani. Ma chissà se questo basterà al governo. Probabilmente con il tempo scopriremo della altre trappole.

Il problema più grave riguarda la sorte degli stabilimenti italiani e dei lavoratori del nostro Paese.

Mentre gli impianti francesi della PSA lavorano sostanzialmente a pieno ritmo, gli stabilimenti italiani soffrono di carenza di modelli e di vendite, con una cassa integrazione largamente estesa e della quale non si vede la fine. I promotori dell’accordo hanno assicurato che non saranno chiusi stabilimenti, ma si sa che a volte si tratta di promesse al vento, ma d’altra parte si parla di stabilimenti e non di addetti. Appare evidente una rilevante sovrapposizione di modelli e di marchi tra le due case e quindi il timore, se non di massicce chiusure di stabilimenti, comunque da mettere in conto come possibili nonostante le assicurazioni in contrario, di rilevanti esuberi di lavoratori appare molto fondato e troverà qualche forma di risposta, se non subito, tra qualche tempo. Certo, la fusione potrebbe portare ad un aumento dei livelli di produzione, ma i livelli di esuberi sono in Italia tali che difficilmente tali potenziali incrementi basteranno. 

Nel 2018 la FCA ha  prodotto in Italia, se non andiamo errati, circa 670.000 vetture (oltre 900.000 se consideriamo anche i veicoli leggeri) contro una capacità produttiva molto più elevata e che si colloca complessivamente intorno al milione e mezzo di unità. Da sottolineare che la produzione di auto è in dieci anni diminuita da noi di circa il 50% e che i dati del 2019 dovrebbero essere ancora più negativi e di parecchio. 

Non si può, alla fine, mancare di ricordare come gli azionisti della FCA abbiano approfittato dell’occasione per distribuirsi un dividendo extra di 5,5 miliardi di euro (alla Exor, la finanziaria di famiglia, ne verranno circa 1,7) secondo uno schema già usato, più o meno agli stessi livelli, nel caso della cessione della Magneti Marelli, saccheggiando ancora una volta le già non ricchissime casse del gruppo in un momento in cui per rilanciare gli investimenti servirebbe invece molto denaro. 

Infine, dulcis in fundo, è stata anche annunciata la cessione della Comau, uno degli ultimi gioielli tecnologici del Paese, come al solito nell’indifferenza generale della politica e dei media. 

Alla fine la strada per un miglioramento della situazione del gruppo FCA è ancora lunga e piena di difficoltà: a long and winding road, come titolava in questi giorni a proposito della fusione un articolo del Financial Times riecheggiando una canzone dei Beatles.