Renzi, ante Jobs Act, voleva ridurre l’intermediazione con i “corpi intermedi” per facilitare l’affermarsi di un diverso mercato del lavoro. Ci è riuscito? In parte. Ma soprattutto è iniziata una loro mutazione, ancora in corso.
La cassiera bionda mugugna contro l’associazione caritatevole che raccoglie all’uscita del supermercato scatolame e pasta da dare ai poveri. No, non c’è per lei un grande aggravio di lavoro in un sabato come sempre convulso e dedicato alla spesa delle famiglie in un quartiere semi periferico della capitale. “Ci mancavano anche questi, tanto a cosa vuoi che serva..”. Ed è vero, certamente i poveri non diminuiranno con questo aiuto alimentare ma non pare, la sua, una considerazione critica sulle iniziative di “charity”, quanto piuttosto un fastidio per la rottura di un tran tran in cui il tempo e l’attenzione devono essere interamente assorbiti dal registratore di cassa, dai resti da dare, dalla cena a casa da preparare.
L’Italia del rancore e della paura del declassamento sociale descritta nell’ultimo rapporto Censis non è solo quella che si vede dai risultati delle urne. Se il Censis certifica che l’84 per cento degli italiani non ha fiducia nei partiti politici, nel rapporto Istat sul Benessere sociale 2017 c’è un dato ancora più inquietante. Gli adulti, giovani sopra i quattordici anni o meno giovani, che ritengono sia ragionevole avere fiducia negli altri (intesi come la gran parte delle persone con cui si può venire in contatto) raggiungono appena la percentuale del 19,7 per cento, quando in un paese come la Danimarca questo indice della fiducia generalizzata raggiunge il picco del 70 per cento.
La diffidenza non appare neanche giustificata da una società diventata del tutto atomizzata. L’Italia conserva una innervatura ancora potente di reti amicali e parentali, tra le più estese e capillari d’Europa e dei paesi dell’Ocse. Il 91 per cento della popolazione sostiene di poter contare in caso di necessità sull’aiuto di amici e familiari. Un welfare fai-da-te che è stato messo a dura prova negli anni della crisi, tanto che la storica propensione al risparmio e all’investimento sul mattone delle famiglie italiane è precipitata nell’ultimo biennio.
Ciò che diminuisce da un anno all’altro è la quota di italiani che parla o si informa di politica su qualsiasi “media” e “device”almeno una volta a settimana. Siamo al 36 per cento se si considera chi si arrischia a esprimere un’opinione, e al 58 per cento se si prende in esame chi semplicemente ha letto o postato opinioni politiche condivise sul web almeno una volta nei tre mesi precedenti l’intervista del campione. E il drastico calo di interesse riguarda tutte le fasce d’età, senza distinzioni tra uomini e donne e tra Nord e Sud, anche se risulta più accentuato nei comuni con meno di diecimila abitanti.
Un “Mondo piccolo” che si sente sempre più lontano dal centro ma che soprattutto sembra deciso a sprangare le finestre, barricandosi anche nei riguardi di ciò che succede sotto casa, come la stragrande maggioranza dei cittadini di Macerata ha fatto di fronte al grande corteo antifascista in risposta alla tentata strage di Traini.
Era la Leopolda del 2014, un lustro fa, quando Matteo Renzi, divenuto premier da pochi mesi e alla vigilia del varo dei primi decreti Poletti che costituiscono il Jobs Act, si produce in un attacco a testa bassa dei “corpi intermedi” sollecitando una completa “disintermediazione sociale”, parole sue, per fare spazio alle “magnifiche sorti e progressive” delle nuove forme di lavoro e relazione, ciò che oggi, più compiutamente, viene definito capitalismo di piattaforma, da Amazon a Deliveroo passando per Uber e Airbnb.
All’epoca lui disse “corpi intermedi” e tutti capirono che ce l’aveva con i sindacati, in primis la Cgil, da subito ostile al Jobs Act e alla fine di una politica di concertazione. Ma i sindacati, che pure nei due anni seguenti, hanno subìto una vera e propria emorragia di iscritti, non sono gli unici corpi intermedi. E anche loro, nel frattempo, hanno seguito una mutazione seguendo il corso della trasformazione del mercato del lavoro. Hanno ad esempio aumentato le loro funzioni di “advocacy”, cioé di intermediazione o di servizio agli utenti-iscritti attraverso i patronati.
La società ha subìto una dinamica accelerata di precarizzazione delle condizioni di lavoro che ha accompagnato la rapida ascesa della cosiddetta Gig economy, l’economia dei lavoretti, delle prestazioni “on tap”, cioè a gettone – prima a voucher e ora a contratti a tempo determinato – vivamente caldeggiata nel 2014 dall’influente rivista Economist all’Italia. Veniva proposta come modello per uscire dall’angolo in cui la crisi del 2008 e i suoi “peccati storici” di contrattualismo e “eccessivo peso” della legislazione sul lavoro l’avrebbero relegata.
E ora che il nuovo mondo è arrivato, viene da chiedersi che fine abbiano fatto i corpi intermedi, come si siano anch’essi trasformati, considerando che persino nella dottrina sociale cattolica e liberale classica sono considerati come specchio delle modificazioni del mercato del lavoro ma anche come palestra di educazione al civismo e alla partecipazione collettiva alla cosa pubblica, colonna portante della democrazia partecipata non solo nell’ottica dei costituenti, anche dalle teorie di Alexis de Tocqueville e Montesquieu.
Nel rapporto Bes dell’Istat non si rileva una diminuzione sostanziale della partecipazione civica e politica dei cittadini, che resta al 63 per cento, né dell’adesione a forme di volontariato organizzato nel Terzo settore. Qui però i soggetti presi in esame sono quelli più strutturati: partiti, sindacati, associazioni ecologiste e di tutela dei consumatori, o quelli della cosiddetta “multilevel governance”, cioè partecipazione a più livelli della società civile.
Rientra in quest’ultima categoria, ad esempio, la coalizione di reti per la promozione della cittadinanza attiva e per gli interventi di rigenerazione di spazi urbani e beni comuni che fa capo al modello di sussidiarietà orizzontale promossa da Labsus. Queste esperienze, dalla pulizia di un parco pubblico, alla manutenzione di una pista ciclabile, alla tinteggiatura delle aule da parte di un gruppo di genitori sono in aumento, soprattutto nel centro Italia e nelle città sopra i 20 mila abitanti, meno nel Nord-Est.
Si tratta comunque di realtà in cui singoli e associazioni collaborano con dirigenti scolastici e enti territoriali, firmando regolamenti di gestione condivisa di spazi pubblici. Mille patti di questo tipo che finora hanno escluso, con effetti disastrosi di desertificazione del tessuto sociale urbano, la capitale governata dal Movimento Cinque Stelle.
Le relazioni istituzionali e politiche non mancano neanche ai volontari con raschietto e pettorina dell’associazione anti degrado urbano Retake, finita nell’incubatore di startup dell’università confindustriale Luiss e organizzatrice di seminari di approfondimento sui programmi politici durante la campagna elettorale appena finita.
Quanto al finanziamento alle ong, persino Medici senza Frontiere – l’organizzazione più grande impegnata nel soccorso in mare dei migranti e in prima linea nello scontro sulla firma del codice di condotta Minniti e nella campagna diffamatoria sui “taxi del mare” – alla fine non ha accusato forti perdite di donazioni. Dai dati parziali del bilancio 2017 risulta infatti che i circa 107 mila donatori regolari e maggiormente motivati hanno incrementato i loro sforzi, coprendo l’ improvvisa interruzione di un trend di crescita del 9 per cento annuo, successivamente alla campagna “taxi del mare”, proseguita poi in tutta questa campagna elettorale con toni ancora più beceri.
Ma si sta facendo strada anche un’altra forma di soggettività sociale basata sull’autorganizzazione e un nuovo tipo di mutualismo. Ne dà conto la ricerca Commonfare sul welfare dal basso, realizzata da Bin (Basic Income Network) Italia in collaborazione con l’Università di Trento.
Fabbriche occupate e trasformate in laboratori artigiani come Rimaflow a Milano o le Officine Zero a Roma, spazi coworking che mettono insieme lavoratori freelance, ambulatori e palestre popolari, asili autogestiti, gruppi di acquisto solidale, di produzioni agroalimentari diverse e di cure alternative, attività di microcredito come il fondo etico delle Piagge a Firenze, occupazioni di case con spazi comuni.
Il centro sociale napoletano Je so’ Pazz è però l’unica di queste realtà a essere uscito dalla frammentazione di queste esperienze, anche bellissime ma che cercano di dare risposte a bisogni specifici e spesso non si conoscono neppure tra loro, per proporsi come modello generale alternativo, per una nuova società, partecipando da protagonista alla nascita della lista Potere al popolo.
Questo mondo pulviscolare e ancora disperso che ha preso il posto in modo disorganico a compiti sia dello Stato sociale sia delle case del popolo e dei sindacati, resta ancora scollegato al suo interno e privo di istanze politiche coordinate. E ancora tutto da studiare, per gli sconfinamenti che ha sia nel campo del consumo critico sia della produzione, e non ultimo nella generazione di istanze politiche nuove. Sempre che non se ne impadronisca una piattaforma non troppo diversa dalle altre.
Da Left del 9 marzo 2018