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Il virus della libertà

Con l’Europa bloccata e atterrita da un nemico invisibile, rileggiamo le parole di Carlo Levi sulla paura collettiva che nella Francia del ’39 spalancò la strada al governo di Vichy. E quelle di Hannah Arendt sul coraggio della libertà, mentre la pandemia mostra la fragilità del liberalismo politico.

“La crisi che aduggiava la vita d’Europa da decenni, e che si era manifestata in tutte le scissioni, i problemi, le difficoltà, le crudeltà, gli eroismi e le noie del nostro tempo, scoppiò verso la sua soluzione in catastrofe”. Lo scrive Carlo Levi in un breve testo incompiuto scritto nel 1948, intitolato La paura è il contrario della libertà, una sorta di appendice al saggio Paura della libertà che Carlo Levi scrisse dall’esilio bretone di La Baule, tra il settembre e il dicembre del 1939.

Il primo settembre del 1939, lo scrittore torinese si trovava nella capitale francese, dove i nazisti erano ancora un nemico lontano e soprattutto invisibile. Parigi, però, racconta, “era percorsa da un’ondata di spavento non immaginabile da chi non l’ha visto, e soltanto parzialmente dovuto al timore di armi misteriose, di gas venefici e di bombe asfissianti, ma più indistinto, più indeterminato, come un’ombra senza forma”. I francesi erano attanagliati dalla paura collettiva, e per Levi “la sua improvvisa apparizione faceva rinascere sentimenti primitivi e nascosti, come l’orco e il lupo delle fiabe infantili”.

Più che la guerra, ad accomunare le due vicende è un sentimento che per Levi “è la paura fondamentale, non eliminabile, nell’uomo che non è ancora una persona, che non riesce a raggiungere la libertà e che perciò si sente indifeso e malsicuro in un mondo nel quale l’unica vera realtà, l’unica vera sostanza è la libertà”. Questo sentimento collettivo, “profondissimo e naturale”, a suo parere è “il fondamento dello stato di massa e del totalitarismo”. Secondo lo scrittore torinese, in definitiva, furono i parigini che si accalcarono alla stazione alla vigilia della guerra e dell’invasione tedesca a rendere possibile il governo di Vichy.

Oggi che le cronache quotidiane raccontano di un agricoltore ucciso da un altro uomo che tentava di evadere da una “zona rossa” attraverso i campi, di tre anziani denunciati perché sorpresi a giocare a carte ai tavolini di un bar chiuso e di droni inviati a sorvegliare le spiagge per evitare che inconsapevoli bagnanti prendano il sole impunemente, è bene interrogarsi sul motore che alimenta episodi del genere. È quella paura collettiva che Carlo Levi fa nascere dalla “mancanza della persona, dal senso della non esistenza della propria individualità e dell’appartenenza a un qualche cosa di vago e indeterminato: a una massa”.

Non la paura individuale, considerata una forma di difesa dell’individuo e dunque “non pericolosa”, e neppure quella del contagio che, da Tucidide ad Alessandro Manzoni, passando per il Decameron di Boccaccio e per la novella di Giovanni Verga Quelli del colera – senza dimenticare La peste di Albert Camus e Cecità di José Saramago – alimenta la caccia all’untore e la criminalizzazione dei cittadini che non rispettano alla lettera le prescrizioni. Solo una paura fondata sulla fuga più che sulla ricerca del capro espiatorio spiega la corsa all’accaparramento delle merci nei supermercati e ai treni.

È un sentimento collettivo, mai individuale, che per Levi apre uno spazio alla possibilità del fascismo o di una qualsiasi forma autoritaria che potrebbe alimentarsene, creando “un circolo di terrore che nasce su se stesso, e dal quale è assai difficile uscire”. È quello che a suo avviso accadde in Francia quell’autunno del 1939, quando i nazisti non avevano ancora invaso il Paese.

Le parole che Carlo Levi utilizza per interpretare gli avvenimenti del 1939 le potremmo usare per descrivere la situazione dell’Europa bloccata e atterrita dalla pandemia di coronavirus nel marzo 2020. Infatti, proprio come allora, la pandemia accentua un senso di smarrimento che si avvertiva da tempo, dal crollo delle Torri Gemelle nel 2001, al crollo dei mercati nel 2008, e più di recente con il voto americano a Trump e quello inglese per la Brexit. La crisi del sistema economico neoliberista è stata accompagnata in questi anni dalla sempre maggiore fragilità del liberalismo politico. I cittadini spaventati dalle migliaia di morti, nelle loro famiglie, nei loro palazzi, a causa del coronavirus, sono anche spaventati dalla crisi economica con cui i principali paesi europei e occidentali si dovranno confrontare appena finita l’emergenza sanitaria.

Tuttavia, è sempre la paura che ha spinto i cittadini inglesi a votare per la Brexit e per il governo Johnson: la paura del declassamento sociale, dell’impoverimento, dell’essere lasciati indietro dalla globalizzazione. La stessa paura collettiva spinge l’Europa intera a lasciar morire migliaia di persone nel Mediterraneo, o a rinchiuderle in “centri di accoglienza”.

Nel 1939, la paura collettiva ha mutato la crisi in catastrofe. Per evitare che, nell’Occidente di Donald Trump, di Matteo Salvini e di Marine Le Pen la crisi attuale spalanchi la strada a un nuovo fascismo vi è solo una strada, ed è quella della ricostruzione di un sistema economico e politico che associ alla ricostruzione di un welfare state nazionale e transnazionale anche la rifondazione di una comunità politica che restituisca alla parola “libertà” il suo senso collettivo, l’unico che può avere, al di là di ogni illusoria ideologia della libertà individuale.

Infatti, vi sono almeno due crisi di portata strutturale che l’Europa alla prova del coronavirus deve affrontare: la crisi politica che si presenta come crisi della democrazia liberale e la crisi del sistema economico capitalista quale si è configurato dalla fine degli anni Ottanta a oggi. Esse mettono in discussione i due valori fondanti della cittadinanza moderna: la libertà e l’eguaglianza. I due temi sono tra loro imprescindibili: non c’è libertà, e quindi non c’è democrazia liberale, senza eguaglianza politica ed economica; al contempo non c’è vera eguaglianza in assenza di una libertà collettiva che restituisca ai cittadini un comune senso e una comune esperienza del mondo.

Di questa libertà parla Carlo Levi quando scrive Paura della libertà, una libertà che porta con sé la capacità di resistere alla tentazione di una risposta autoritaria al sentimento di dissoluzione delle strutture economiche, sociali e politiche fino ad oggi pensate come insuperabili.

Nel 1956, un’altra esule europea di origine ebraica, Hannah Arendt, tiene un ciclo di conferenze all’Università di Chicago, negli Stati Uniti che sono diventati la sua nuova patria, così come di quello che è rimasto della Scuola di Francoforte. Queste lezioni, che saranno poi pubblicate nel 1958 (in Italia nel 1964) con il titolo di Vita Activa. La condizione umana, hanno al proprio centro proprio l’idea di libertà e il tema del coraggio della libertà.

La Arendt condivide con Levi la critica della modernità politica come sviluppo di una società di massa e il tema della critica antropologica: il coraggio della libertà è necessario per passare da una società in cui gli uomini sono gestiti a partire dai loro bisogni materiali a una comunità politica di persone libere. In La condizione umana, Arendt racconta come, nell’Antica Grecia, la sfera politica, realizzata nello spazio pubblico della polis, fosse il regno della libertà, mentre la sfera privata, dedicata alla vita familiare, fosse il regno della costrizione e della diseguaglianza: “essere liberi (nella polis, ndr) significava sia non essere soggetti alla necessità della vita o al comando di un altro sia non essere in una situazione di comando. Significava non governare né essere governati” (Arendt, La condizione umana, Feltrinelli 2017, p. 62).

L’eguaglianza, continua Arendt, era un concetto essenzialmente politico: “era la vera essenza della libertà” (ibidem). Se la “nuda vita”, intesa come necessità, sia materiale, o economica, sia biologica, domina la sfera della politica, allora non c’è possibilità né di libertà né di eguaglianza. Se la politica diventa gestione delle necessità, allora la condizione umana, fondata sulla libertà, è messa in pericolo. Questo è un punto molto importante per la “condizione” nella quale ci troviamo oggi, in Europa e nel mondo: la politica deve ovviamente garantire la sopravvivenza, quotidiana e, come oggi, in condizioni di emergenza, degli individui, ma non può in alcun modo abdicare per questo alla libertà e, con essa, all’eguaglianza dei cittadini. Scrive ancora Arendt a proposito del modello della polis greca: “In nessuna circostanza la politica poteva costituire solo un mezzo per proteggere la società” (Arendt, 2017, p. 60).

Arendt traccia qui una distinzione fondamentale: la libertà non si trova nella sfera privata, individuale, sia essa quella dei rapporti sociali o economici. Una versione moderna dell’idea di libertà è quella per cui la libertà è “naturale”, si sviluppa nella sfera sociale, e l’autorità politica ha solo il compito di proteggerla dagli abusi, dalle interferenze e dalla violenza.

Rileggendo Arendt “ai tempi del coronavirus”, vediamo come la situazione attuale fa esplodere le contraddizioni di questa concezione della libertà: la pandemia colpisce al cuore proprio l’idea che la sfera della libertà sia quella delle nostre case, dentro le quali siamo oggi tutti rinchiusi, separati gli uni dagli altri, nell’atomizzazione evidente della sfera pubblica e politica (a meno che si pensi che la sfera pubblica virtuale sia il nuovo spazio politico, con i suoi alienanti automatismi).

Allo stesso tempo, e con estrema forza, la crisi del coronavirus mette in scacco l’ideologia del libero mercato. Quale libertà di cura, di accesso ai servizi, di accesso al lavoro è rimasta durante la pandemia di coronavirus? Soprattutto, tornando ad Arendt, sarebbe gravissimo immaginare che la sfera politica, gli Stati e l’Unione europea abbiano come unico compito oggi quello di proteggere la società, l’economia e la sua libertà messa temporaneamente in crisi dalla pandemia.

Al contrario, oggi è il momento, a livello europeo e a livello mondiale, di affermare lo spazio politico comune come spazio della libertà collettiva, la quale deve essere sostenuta da misure di eguaglianza sociale ed economica che solo un welfare state europeo, come scrive Mario Pianta, può e deve garantire. La libertà è solo quella dei cittadini: non si dà vita activa, come liberi ed eguali, al di fuori della condivisione plurale del mondo, che è comunità politica, e quindi essere in comune, ed esperienza delle risorse naturali. Non si pensi quindi di uscire dalla crisi innescata e rivelata dalla pandemia di coronavirus rispondendo con una gestione degli individui che li priva del loro essere cittadini, e poi immaginando un ritorno alla libertà naturale della società contemporanea.

Il rischio del conformismo, durante la crisi e dopo, è il principale ostacolo alla risoluzione della crisi politica europea attraverso la costruzione della comune libertà politica come unica e fondamentale condizione umana. La paura, scriveva Carlo Levi nel breve scritto ritrovato ad Aliano, è il contrario della libertà. L’unico antidoto possibile, a suo avviso, era la Resistenza, che in Francia “non fu altro che la liberazione dal terrore”. Oggi, bisogna avere il coraggio di rispondere alla paura, che genera conformismo, con un nuovo inizio come cittadini d’Europa e del mondo.