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Le conseguenze economiche del coronavirus

Cosa possiamo imparare e cambiare di fronte al coronavirus? Riscopriamo che la salute è un bene pubblico globale, che la sanità pubblica e il welfare sono attività fondamentali, alternative al mercato, che ci aspetta una crisi dell’economia, della finanza, dell’UE.

L’epidemia di coronavirus sta cambiando rapidamente condizioni sanitarie, abitudini di vita, relazioni sociali e attività economiche. L’Organizzazione mondiale della sanità riporta nei primi 52 giorni dell’epidemia 133 mila contagi e 5000 morti nel mondo; il numero di nuovi contagiati per ogni persona infetta è stimato tra 2 e 4; a livello mondiale siamo ancora in una fase di crescita esponenziale dell’epidemia; in Cina, dove il virus è partito, sembra che il contagio si sia fermato dopo aver raggiunto gli 81 mila casi; in Italia – il secondo paese più colpito con 15 mila casi – l’epidemia non rallenta ancora. In molti degli altri 123 paesi contagiati le prospettive sono di una rapida diffusione.

Le conseguenze dell’epidemia sono di grande rilievo e investono il sistema economico mondiale. In queste note – necessariamente schematiche – si propone una riflessione sulle questioni aperte dall’epidemia, sulle lezioni che possiamo imparare, su alcuni cambiamenti possibili per quanto riguarda i rapporti tra salute, economia e politica a livello mondiale.

1. La salute è un bene pubblico globale e come tale va garantito

Il necessario punto di partenza è la nostra concezione della salute. La Costituzione italiana – come moltissime altre carte dei principi internazionali – riconosce la salute come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Dal punto di vista economico, la salute è un bene pubblico globale perché non può essere prodotto come una merce venduta sul mercato a consumatori individuali e perché è minacciato dalla mancanza di salute (o, appunto, dalla nascita di epidemie) in ogni punto del pianeta.

L’importanza dei beni pubblici globali si è affermata alla fine degli anni novanta all’interno del dibattito sulla globalizzazione (Kaul et al., 1999) e ha investito in modo approfondito la questione della salute (Smith et al., 2003); la Banca Mondiale ha di recente sviluppato strumenti finanziari – con un approccio ‘di mercato’ molto discutibile – per affrontare il rischio di pandemia globale e garantire il bene pubblico globale della salute (Stein e Sridhar, 2017).

Com’è stato messo in evidenza dal dibattito sulla globalizzazione all’inizio degli anni 2000 (Pianta, 2001), si è affermato un modello neoliberista che ha liberalizzato flussi di capitali e di merci e creato poteri sovranazionali per gestirli, sia con organismi inter-governativi come l’Organizzazione mondiale per il commercio, oltre a Fondo monetario e Banca Mondiale, sia con poteri privati – i centri finanziari di Wall Street e della City, le società di ‘rating’ finanziario, le grandi imprese multinazionali – che hanno condizionato l’economia e la politica degli stati nazionali. In quegli anni sono state sconfitte le proposte dei governi progressisti europei, dei sindacati, dell’ILO, dei movimenti sociali di tenere insieme globalizzazione dei mercati e nuove tutele globali del lavoro, dei diritti sociali e dell’ambiente, di fronte al cambiamento climatico (si vedano i documenti dei movimenti contro il vertice dell’Omc a Seattle nel 1999 e del Millenium Forum della società civile alle Nazioni Unite del 2000, in Pianta, 2001). Si è costruita così un’economia globalizzata su misura di merci e capitali, senza vincoli sulle questioni del lavoro, dei diritti e dell’ambiente. Senza regole, poteri e risorse a scala mondiale, questi aspetti sono stati trascurati, considerati soltanto come ‘costi’ per l’economia, lasciati a scelte nazionali frammentate, sotto la pressione di privatizzazioni e tagli delle risorse pubbliche.

L’epidemia di coronavirus ha reso concreti i costi, anche economici, provocati dall’assenza di regole globali sulla tutela della salute – dai mercati di animali vivi in Cina alla capacità di individuare rapidamente un’epidemia – e di sistemi sanitari e di welfare sviluppati in tutti i paesi. Lo stesso problema si prospetta per i molti disastri ambientali – presenti e futuri – provocati dal cambiamento climatico e dalle resistenze al cambiamento nelle politiche e nelle decisioni delle imprese.

Una politica all’altezza di questi problemi mondiali dovrebbe riscrivere radicalmente le regole della globalizzazione. La protezione della salute, del welfare, del lavoro e dell’ambiente dev’essere assicurata da standard internazionali, vincolanti per gli accordi di liberalizzazione dei flussi di capitali e di merci. Le proposte politiche condivise avanzate dall’Organizzazione mondiale della sanità, dall’Organizzazione internazionale del lavoro, dalle conferenze sul cambiamento climatico devono acquisire una nuova priorità politica e ottenere le risorse necessarie. Gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, sottoscritti da tutti i governi, offrono un quadro ulteriore in cui collocare tali priorità (Nazioni Unite, 2015).

2. Il welfare state, la responsabilità pubblica per i bisogni essenziali, è un modello alternativo al mercato: è un modello che funziona

Nella risposta all’epidemia di coronavirus nei paesi più coinvolti un ruolo chiave è stato svolto dal sistema della sanità pubblica. Un sistema che si fonda su una visione della salute come diritto fondamentale che dev’essere assicurato dallo stato attraverso la fornitura di servizi pubblici universali pensati per soddisfare i bisogni, fuori dalle logiche di mercato che vedono imprese private vendere merci per un profitto. Questo modello non riguarda solo la sanità ma tutto il welfare state costruito a partire dalle riforme radicali dei laburisti inglesi nell’immediato dopoguerra. Estesosi, con varianti significative, soprattutto in Europa, il welfare state resta strettamente associato al ‘modello sociale’ europeo: sanità, scuola, università, previdenza, assistenza e altre attività essenziali sono servizi forniti e finanziati in misura prevalente dall’intervento pubblico.

I tre decenni di politiche neoliberiste hanno seriamente ridimensionato il modello di welfare state: le privatizzazioni e i tagli di spesa hanno costretto le agenzie pubbliche a ridimensionare le proprie attività, perdendo a volte universalità, efficacia e qualità dei servizi. Le attività di imprese private si sono moltiplicate, a partire dagli ambiti più profittevoli, come le pensioni, la sanità e le università private. Varie ondate di ‘contro-riforme’ hanno spinto le agenzie pubbliche a comportarsi sempre più come imprese private – nella previdenza fondata sul sistema contributivo, nelle ‘Aziende sanitarie locali’, nella gestione di scuola e università. Finanziamenti ridotti, blocco del turnover del personale, pressioni per ‘far pagare’ gli utenti hanno reso molti servizi di welfare più simili alla produzione di merci vendute sul mercato a ‘clienti’ in grado di pagare. È stata l’‘universalizzazione’ del mercato capitalistico, presentato come unico modello capace di offrire merci e servizi, assicurando abbondanza ed efficienza.

L’epidemia ha mostrato che quel modello di mercato globale non solo crea minacce alla salute, ma è del tutto impotente nel dare risposte all’emergenza e alla tutela della salute. La sanità privata è del tutto irrilevante di fronte all’epidemia. È fondamentale ora riconoscere che il mercato deve fare molti passi indietro – nell’azione delle imprese come nelle politiche realizzate dai governi – e il welfare state deve tornare in primo piano, con la sua natura di modello di organizzazione della società e della produzione di servizi alternativo alla logica del mercato capitalistico.

Il welfare non è un ‘costo’ per il sistema economico privato, è un sistema parallelo che produce beni e servizi pubblici e assicura la riproduzione sociale in base a diritti e a bisogni, anziché alla capacità di spesa. È quello che produce la qualità sociale e ambientale che il Prodotto interno lordo (Pil) – fondato sul valore delle merci – non è in grado di misurare (Armiento, 2018). Esattamente le stesse considerazioni valgono per la qualità ambientale e per la necessità di un intervento pubblico in quell’ambito.

La conseguenza naturale di quest’analisi è che va rifinanziata in modo massiccio – attraverso una tassazione più progressiva di redditi e patrimoni e, se necessario, attraverso una spesa in deficit – tutta l’azione pubblica – sanità, scuola, università, ricerca, previdenza, assistenza, ambiente. Un obiettivo ragionevole per l’Italia è di arrivare agli standard nord-europei in termini di spesa per abitante e di qualità dei servizi. Il welfare state potrebbe diventare il motore di uno sviluppo ad alta qualità sociale e ambientalmente sostenibile.

L’intervento pubblico, tuttavia, non si deve limitare alla fornitura dei servizi di welfare. Deve indirizzare le traiettorie di sviluppo dell’economia e dei mercati, assicurando la coerenza tra comportamenti delle imprese e gli obiettivi sanitari, sociali e ambientali sopra ricordati. I dibattiti sul ritorno della politica industriale e sul ‘Green Deal’ europeo hanno aperto un nuovo spazio di azione delle politiche nazionali ed europee. C’è un consenso crescente sull’espansione del ruolo dello stato e dell’azione pubblica nell’economia e nella società. Un esempio importante è fornito dalle proposte di Mariana Mazzucato sullo ‘Stato innovatore’ (Mazzucato, 2014) e sulla (quasi) nazionalizzazione dell’industria farmaceutica (Mazzucato, 2020).

Sarebbe illusorio pensare che, passata l’epidemia, l’economia possa tornare come prima. Tra gli effetti dell’emergenza c’è l’esigenza di ripensare produzioni e consumi alla luce delle esigenze della salute e della sostenibilità ambientale. Un’altra crisi sanitaria che riceve pochissima attenzione in Italia è quella delle morti e degli infortuni sul lavoro; occorre spostarsi verso un sistema produttivo di maggior qualità, capace di provocare meno danni alla salute di lavoratori e cittadini.

In effetti, il sistema della salute e del welfare può diventare uno dei motori dello sviluppo dell’economia. Nell’attuale dibattito sul ritorno delle politiche industriali abbiamo proposto di individuare tre aree prioritarie in cui concentrare ricerca e investimenti pubblici e privati per sviluppare “buone” produzioni: ambiente e sostenibilità, conoscenza e tecnologie dell’informazione e comunicazione, e salute, welfare e attività assistenziali:

 “L’Europa è un continente che invecchia ma è dotato dei migliori sistemi sanitari al mondo, sviluppati sulla base di una concezione della sanità come servizio pubblico. Gli avanzamenti nel sistema di assistenza, nella strumentazione medica, nelle biotecnologie, nella genetica e nella ricerca farmacologica devono essere finanziati e regolamentati con attenzione alle possibili conseguenze etiche e sociali (come nel caso degli organismi geneticamente modificati, della clonazione, dell’accesso ai farmaci nei paesi in via di sviluppo, etc.). Le politiche possono essere indirizzate a affrontare i problemi dell’invecchiamento della popolazione, al miglioramento dei servizi di welfare, a ridurre le disuguaglianze nella salute. Possono rilanciare la fornitura pubblica dei servizi, prevedere la partecipazione da parte dei cittadini e delle organizzazioni non profit, con la possibilità di forme di auto-organizzazione delle comunità” (Pianta, 2018).

In Europa e in Italia una politica di questo tipo è possibile, utilizzando strumenti istituzionali, competenze e risorse esistenti. Una politica per il cambiamento del sistema produttivo può orientare le attività economiche verso la tutela della salute e del welfare e verso una ‘politica industriale verde’ (Pianta et al., 2016, Lucchese e Pianta, 2020).

3. Il welfare state e la sanità pubblica sono fattori chiave per l’uguaglianza economica e sociale

Una considerazione importante riguarda la questione della disuguaglianza. In termini di reddito e ricchezza a partire dal 1980 tutti i paesi avanzati hanno registrato forti aumenti delle disparità, anche per effetto delle politiche neoliberiste. Nel secondo dopoguerra il welfare state è stato un fattore essenziale per la riduzione delle disuguaglianze, proprio per la sua natura di fornitore di beni e servizi in base ai bisogni anziché alla capacità di spesa. Come è stato dimostrato, il ridimensionamento delle politiche, la privatizzazione dei servizi pubblici e l’estensione del mercato in ambiti prima tutelati dall’azione pubblica ha introdotto nuovi meccanismi che generano disparità economiche e sociali (Franzini e Pianta, 2016).

Le connessioni tra disuguaglianze economiche e disparità nella salute sono state analizzate da diversi lavori; si è mostrato che società più diseguali registrano condizioni di salute e benessere peggiori, e che forti divari tra ricchi e poveri sono associati a peggioramenti delle condizioni di salute e delle aspettative di vita della popolazione più povera (Wilkinson e Pickett, 2010; Deaton e Case, 2020). In Europa un rapporto della Commissione europea ricordava che “le persone con livelli più bassi di istruzione, qualifiche e reddito tendono ad avere tassi di morbilità e mortalità più alti” (Commissione europea, 2007, pag.4) e considerando gli effetti economici delle disparità nella salute calcolava che:

“Il numero di decessi attribuito a disuguaglianze sanitarie nell’Unione europea (Ue a 25 Stati membri) nel suo complesso è di 707 mila l’anno, e l’equivalente numero di anni di vita persi ammonta a 11,4 milioni. Le disuguaglianze in salute influiscono anche sull’aspettativa di vita media di donne e uomini diminuendola di 1,84 anni (…). L’ammontare dei costi totali dovuti alle disuguaglianze in salute è stato ricavato dalla combinazione dei dati relativi a mortalità e morbilità, e si avvicina ai 980 miliardi di euro, ovvero il 9,38% del Pil dell’Ue a 25 Stati membri nel 2004. In altre parole, la perdita di salute dovuta alle disuguaglianze socio-economiche rappresenta il 15% dei costi dei sistemi di sicurezza sociale e il 20% dei costi dei sistemi di assistenza sanitaria dell’Unione europea nel suo complesso” (Epicentro, 2007).

Per l’Italia i rapporti tra disuguaglianze e salute sono stati analizzati da diversi studi considerando diverse condizioni sociali e professionali (Costa et al., 2004), e diverse patologie (Passi, 2011), mostrando che anche in Italia la mortalità aumenta in proporzione al disagio economico e sociale, con più bassi redditi, istruzione e classe sociale. Ridurre le disuguaglianze economiche consentirebbe così di ridurre le disparità nella salute. E un maggior impegno per una protezione sanitaria universale e ugualitaria ridurrebbe in modo significativo i costi della sanità pubblica e del welfare.

Paradossalmente, proprio l’epidemia ricrea una condizione di (quasi) uguaglianza di fronte alle probabilità di contagio; i livelli di reddito contano relativamente poco e non c’è modo di acquistare sul mercato una protezione individuale. L’uguaglianza nei comportamenti e nei trattamenti sanitari diventa così essenziale per contrastare l’epidemia. Ma l’uguaglianza è il risultato di una sanità pubblica universalistica, è un esito fondamentale del welfare state, oltre che un obiettivo della Costituzione italiana. Come tale, dev’essere riconosciuta come una priorità della politica – economica, sociale e sanitaria – per il dopo-epidemia.

4. Il welfare state è un pilastro del modello europeo, il futuro dell’Europa dipende dalla capacità di cambiare

A partire dal dopoguerra il modello di sviluppo europeo si è consolidato sulla base di un’‘economia mista’ con un forte intervento dello stato e di un ruolo centrale del welfare state. Dagli anni novanta, il processo di integrazione economica e monetaria ha preso una strada diversa, all’insegna del neoliberismo e dell’espansione della finanza.

Dal Trattato di Maastricht del 1992 in poi, le regole europee hanno drasticamente indebolito – attraverso privatizzazioni e vincoli alla spesa pubblica – quei due pilastri del modello europeo. La crisi del 2008 si è trasformata in un decennio di recessione e ristagno per il Sud Europa proprio per l’inadeguatezza delle istituzioni e delle politiche europee ad affrontare la crisi. Lo stesso scenario rischia ora di riprodursi con l’incapacità dell’Europa di intervenire con rapidità ed efficacia di fronte all’epidemia di coronavirus.

Di fronte all’emergenza epidemia, un richiamo alla necessità di un forte impegno finanziario dell’Europa e di una modifica del suo assetto istituzionale è venuto da alcuni articoli di Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio (2020); la loro tesi è che “l’Unione Europea possiede tutti gli strumenti per mettere in atto per il prossimo decennio un progetto in grado di mobilitare, senza alcun rischio e con costi molto limitati, un incremento di investimenti di almeno 500 miliardi di euro all’anno”. Si tratta di rilanciare la proposta di EuroUnionBond, sulla base delle esperienze del Meccanismo europeo di stabilità (che già emette titoli europei) e delle attività della Banca Europea degli Investimenti.

Secondo Quadrio Curzio (2020a), “un sistema con una banca centrale e una moneta unica deve avere anche un bilancio federale o confederale adeguato tra il 10% e il 20% del Pil, finanziato con emissioni sul mercato dei capitali”. Di fronte all’emergenza coronavirus Quadrio Curzio (2020b) ha proposto l’emissione di “EuroRescuebond (ERB) per affrontare il Covid-19. Con opportune garanzie potrebbe essere la stessa BCE ad acquistare gli ERB come ha acquistato titoli di stato dei singoli Paesi”.

Misure di questo tipo – un’espansione rilevante del bilancio europeo, l’emissione di Eurobond che la BCE possa acquistare direttamente, un ripensamento del ruolo di MES e BEI per finanziare investimenti pubblici europei – sono essenziali per fare dell’Europa un soggetto politico in grado di fronteggiare l’epidemia e le sue conseguenze economiche, evitando la frammentazione delle risposte nazionali e la paralisi degli ‘egoismi’ nazionali.

Dopo settimane di disattenzione al problema, la presidente della Commissione europea ha annunciato il 13 marzo “flessibilità” sul Patto di stabilità per l’Italia. È un passo molto modesto. Richieste di intervento all’Unione europea e al governo italiano sono state avanzate da diverse parti; tra queste un appello di 150 economisti italiani (Appello degli economisti, 2020) e la lettera “With or without Europe” (Brancaccio et al., 2020).

Al di là dell’emergenza immediata, è necessario un cambiamento radicale delle politiche europee. La politica fiscale europea dovrebbe basarsi su un bilancio comune di grandi dimensioni e su un maggior spazio d’azione per i governi nazionali, a cominciare dalla ‘golden rule’ che esclude dai limiti di spesa gli investimenti pubblici e tutte le spese collegate all’emergenza sanitaria. La politica europea di spesa, tassazione e finanziamento in deficit deve essere costruita per consentire lo sviluppo del modello di welfare state tipico dell’Europa, facilitando la convergenza di tutti i paesi membri ai livelli più alti di prestazioni. In parallelo, la politica europea deve favorire e finanziare l’impegno di tutti i paesi per investimenti e ristrutturazioni dell’economia per prevenire e adattarsi ai cambiamenti climatici.

Su questi temi l’Europa può diventare un modello che definisce gli standard internazionali su sanità, welfare e ambiente, acquisendo una leadership nelle organizzazioni e nelle sedi internazionali e individuando le vie più efficaci per affrontare l’emergenza epidemia di oggi e quella climatica di domani.

Mancano tuttavia segnali – sia dal Consiglio dei capi di stato e di governo, sia dalla Commissione europea – che mostrino una visione politica e una capacità d’azione europea all’altezza dell’emergenza attuale.

5. La crisi dell’economia mondiale può essere analoga a quella del 2008

La responsabilità dell’Europa è tanto più necessaria quanto più grave si preannuncia la crisi economica mondiale provocata dall’epidemia di coronavirus. Le previsioni Ocse di inizio marzo 2020 ipotizzano per quest’anno una crescita dell’economia mondiale del 2,4%, con un aumento del Pil cinese sotto il 5%. È probabile che con la diffusione dell’epidemia in tutta Europa e negli Stati Uniti le previsioni peggiorino ulteriormente, avvicinandosi agli effetti della crisi del 2008. Per l’Europa si prospetta una sostanziale stagnazione, con una caduta significativa per le economie più fragili, come l’Italia.

I meccanismi che alimentano la crisi sono innanzi tutto l’interruzione di parte della produzione e il blocco dei consumi nei periodi di diffusione più acuta dell’epidemia (il primo trimestre in Cina e Italia, i mesi da marzo in poi nel resto d’Europa e negli Usa). Interi settori – come viaggi aerei, trasporti, turismo e ristorazione – sono fermi. La produzione, specie nella manifattura, dipende ormai in forte misura da sistemi di produzione internazionale con componenti prodotte in decine di paesi diversi, un sistema assai vulnerabile di fronte al blocco di attività legato all’epidemia. Gli effetti sul lavoro sono la perdita di occupazione e di salario, che possono essere compensati solo in misura limitata dalle misure compensative come quelle introdotte dal governo italiano (cassa integrazione, sgravi fiscali etc.). La prevedibile caduta di domanda finirà per rallentare ulteriormente la produzione. L’aumento di spesa sanitaria dovuto all’emergenza epidemia difficilmente potrà avere effetti espansivi rilevanti sull’insieme dell’economia.

Di fronte a questa recessione, le politiche di espansione monetaria sono del tutto inefficaci; anche lo stimolo indiretto di politiche fiscali espansive o sgravi fiscali rischia di avere effetti limitati; solo un aumento della spesa pubblica per acquisti di beni e la creazione di nuove attività produttive può far ripartire l’economia.

Le prospettive per l’Italia sono particolarmente difficili. La caduta del Pil italiano per il 2020 potrebbe arrivare al 5%. Secondo Confindustria, il 20% delle imprese ha avuto effetti negativi forti; interi settori – come il turismo – saranno colpiti ben oltre il momento più acuto dell’epidemia; peserà poi l’effetto depressivo della caduta dei redditi e della domanda. Inoltre, con un sistema produttivo indebolito da un decennio di recessione e ristagno, anche misure di sostegno ai redditi potrebbero non tradursi in aumenti di produzione interna, ma rivolgersi all’importazione, come è già avvenuto nei casi delle mascherine e dei macchinari sanitari per la rianimazione. Dopo la crisi del 2008 la perdita del 20% di capacità produttiva è diventata permanente. Il rischio per il paese è che per effetto dell’epidemia si produca un analogo arretramento dell’economia italiana.

6. La crisi finanziaria (e dell’Europa) è già cominciata

Un altro meccanismo destinato ad aggravare la crisi – il più pericoloso – è quello della finanza. Tra il 19 febbraio e il 12 marzo alla Borsa di Wall Street l’indice S&P500 ha perso il 25%, a Londra la caduta dell’indice FTSE100 è stata del 28%, alla Borsa di Milano l’indice FTSE MIB ha perso il 40%. L’instabilità finanziaria è destinata a crescere e non è stata fermata dalle nuove emissioni di liquidità da parte della Federal Reserve Usa, con 1500 miliardi di dollari o della BCE, con appena 120 miliardi di euro per tutto il 2020, senza riduzioni dei tassi d’interesse.

La decisione della BCE del 12 marzo è stata accompagnata dalla disastrosa dichiarazione della presidente Christine Lagarde “Non siamo qui per ridurre gli spread, non è compito nostro”, ripresa da una frase della rappresentante tedesca nel direttorio della Banca. L’aggravarsi degli ‘spread’ dei tassi d’interesse tra titoli di stato italiani e tedeschi è stato immediato. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con un intervento senza precedenti, ha immediatamente replicato: “l’Europa sia solidale e non ostacoli l’Italia”, portando a una lieve correzione di tiro della Lagarde: “sono pienamente impegnata a evitare qualsiasi frammentazione in un momento difficile per l’area dell’euro”.

Questo inedito scontro tra Italia e Banca centrale europea rivela quanto incapaci siano le attuali istituzioni europee ad affrontare qualunque tipo di emergenza economica e quanto lontane siano le strategie di Germania e Francia dagli interessi dell’Italia e dei paesi del Sud Europa. Senza un radicale cambio di rotta dei poteri europei, la “frammentazione” dell’area euro potrebbe diventare uno degli effetti dell’epidemia.

La crisi finanziaria è destinata ad avere il suo epicentro negli Stati Uniti. Nella crisi del 2008 le borse avevano perso il 50% delle quotazioni, e si potrebbe arrivare a perdite analoghe con l’epidemia che si diffonde negli Stati Uniti. Nel febbraio scorso gli indici di Wall Street avevano raggiunto più del doppio dei valori del 2007, livelli del tutto ingiustificati dalla situazione dell’economia reale. Ad alimentare la speculazione finanziaria c’era soprattutto la convinzione diffusa che con Donald Trump alla Casa Bianca le politiche di sostegno a finanza e imprese e gli sgravi fiscali ai ricchi avrebbero permesso a Wall Street di continuare la propria espansione. Le recenti misure espansive della Federal Reserve Usa andavano ancora in quella direzione, ma questa volta i mercati finanziari non sembrano stabilizzarsi.

Prima dell’estensione dell’epidemia, lo scenario più probabile era un proseguimento dell’espansione finanziaria americana – sostenuta artificialmente dalle politiche fiscali e monetarie – fino alle elezioni presidenziali del novembre 2020. Una costante del ciclo politico-economico Usa è che non ci sia mai una recessione alla vigilia del voto presidenziale, e che gli aggiustamenti e le crisi si verifichino l’anno successivo. In questo scenario Trump avrebbe potuto vincere agevolmente sull’onda di un’economia che va bene e della radicalizzazione a destra del suo elettorato.

Ora lo scenario è del tutto cambiato. La capacità degli Stati Uniti di controllare l’epidemia è difficile da valutare, le misure del governo sono state finora limitate e confuse, Trump può rivelarsi un leader inadeguato ad affrontare l’emergenza. C’è la possibilità che tutto precipiti: crisi finanziaria, recessione mondiale, Trump che perde le elezioni, il democratico Joe Biden che si trova a mettere un po’ d’ordine nel 2021.

Finora è mancato un evento specifico che faccia esplodere la crisi, come è stato nel 2007 il crollo dei mutui ‘subprime’, il fallimento di Lehman Brothers e poi la crisi del debito pubblico in Sud Europa. Il sistema finanziario è diventato molto complesso e vulnerabile e la crisi potrebbe scoppiare in qualche punto inatteso: ad esempio fallimenti di società di assicurazione sanitaria Usa di fronte ai costi dell’epidemia, l’eccesso di debito privato negli Usa di fronte a una recessione mondiale, l’incapacità europea di cambiare politiche di fronte all’espansione del debito pubblico degli stati più fragili.

7. Il sistema internazionale ha di fronte una prospettiva di disintegrazione

Dal punto di vista dell’ordine internazionale, l’epidemia ha reso più estreme alcune contraddizioni, che la politica mondiale fatica a ricomporre.

(a) Il modello neoliberista di globalizzazione dei mercati ed espansione della finanza da un lato si fonda sulla presenza di un sistema mondiale aperto, interdipendente e integrato, dall’altro ha ridotto drasticamente le forme di governance mondiale in tutti i campi, salute, welfare e ambiente in particolare. L’economia ha portato a una polarizzazione tra ‘centri’ e ‘periferie’ che aumenta le difficoltà di integrazione. La politica degli stati e dei poteri sovranazionali ha meno strumenti per assicurare un ordine internazionale.

(b) Il lungo declino degli Stati Uniti (Arrighi, 1996; Pianta 1988) ha visto indebolirsi il ‘vecchio’ modello di egemonia americana che manteneva un ordine globale attraverso un sistema di rapporti di potere, alleanze, istituzioni internazionali e regole condivise – tra queste la Nato, l’Fmi, l’Omc, etc. La politica di Trump ha risposto a questa perdita di capacità egemonica con un attacco ad alcuni fondamenti dell’ordine mondiale costruito dagli Stati Uniti stessi, mettendo in discussione ad esempio il ruolo della Nato e dell’Omc. In nome dell’‘America first’, della ricerca di vantaggi economici e politici di breve periodo, si nega l’esigenza di cooperazione internazionale, si procede con un unilateralismo estremo, fino a negare le sfide più drammatiche come il cambiamento climatico e (inizialmente) la gravità dell’epidemia di coronavirus. Questa politica americana alimenta il disordine globale e mette fine al ruolo degli Stati Uniti come potere di riferimento del sistema mondiale.

(c) Il ripiegamento su se stessa dell’America e la paralisi dell’Europa mostrano l’incapacità di progetto dell’occidente, in nettissimo contrasto con il dinamismo dell’Asia e della Cina. La Cina ha assunto una nuova centralità economica, è segnata da forti contraddizioni interne, dall’inadeguatezza dei servizi sanitari e del welfare, messa in evidenza proprio dalla nascita in quel paese dell’epidemia di coronavirus, ma ha anche mostrato una forte capacità di affrontare i problemi con interventi su grande scala, nel caso dell’epidemia come delle misure per contrastare il cambiamento climatico. La Cina era rimasta fuori dagli effetti della crisi finanziaria del 2008 e della recessione che ne è seguita in occidente. Ora potrebbe far riprendere l’economia e recuperare la caduta delle Borse più in fretta dell’occidente. Se mostrasse anche un’effettiva capacità di fermare l’epidemia, la Cina potrebbe presentarsi come un protagonista capace di assicurare elementi di ordine nel sistema mondiale. Di fronte al ‘caos sistemico’ (Arrighi, 1996) legato al declino americano, la Cina potrebbe emergere con un ruolo internazionale più forte, una capacità di ridurre l’instabilità globale, e una potenziale capacità egemonica.

Riferimenti bibliografici

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