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Il nucleo duro della crisi finanziaria

“…Si può uscire da una crisi da indebitamento facendo dei nuovi debiti?…” (J. G. Fredet, 2008). Le cause strutturali del crack rendono difficile una via d’uscita

Certamente le origini della crisi in atto possono essere fatte risalire a molteplici ragioni; esse possono essere cercate contemporaneamente in motivazioni economiche, sociali, politiche. I media si limitano spesso a fornire una cronaca più o meno puntuale degli avvenimenti che si susseguono in maniera convulsa di settimana in settimana, mentre rischiano appunto di trascurare le motivazioni fondamentali che hanno prodotto le difficoltà da cui non sappiamo se, quando e come si potrà uscire.

Merita la pena di provare invece a concentrare l’attenzione proprio sulle ragioni strutturali dei problemi che abbiamo di fronte; l’analisi di tali ragioni dovrebbe anche permettere di capire meglio la direzione della crisi, nonché le possibili vie e i tempi di uscita, if any.

Si può affermare con un certo grado di plausibilità che forse il nucleo duro della crisi vada ricercato essenzialmente nel fatto che il meccanismo di fondo della crescita economica e dell’ accumulazione di capitale si siano bloccati. Esso risiedeva, almeno negli Stati Uniti, in una politica di consumi crescenti a livello delle famiglie, di spese senza controllo a livello pubblico, di almeno parziale spostamento degli investimenti verso il settore finanziario a livello del sistema delle imprese nell’ansia di migliorare il rendimento dei capitali.

Tali spese e tali investimenti erano finanziati essenzialmente con una forte crescita dell’ indebitamento, dal momento che né le famiglie, né lo stato, né le stesse imprese, potevano andare avanti senza accrescere nel tempo gli squilibri tra entrate ed uscite.

Per quanto riguarda le famiglie, il problema della crescita dell’indebitamento va collegato alla ripartizione a loro danno dei vantaggi della crescita e dei processi di globalizzazione; così, si è dimenticata la tradizionale politica fordista di alti salari e l’aumento dei debiti è stato dalle classi dirigenti accettato, se non voluto, allo scopo di ridurre il ruolo anche politico della remunerazione del lavoro nel finanziamento della domanda finale.

Per quanto riguarda lo stato, il problema risiede nelle grandi spese necessarie per cercare di mantenere una parvenza di egemonia globale, in particolare con le guerre in Iraq e in Afganistan, e per mantenere anche il consenso dei suoi sostenitori di riferimento, i ricchi e il complesso militare-industriale.

In relazione infine alle imprese, la crescita dei debiti è da collegare ad alcuni mutamenti strutturali, verificatisi negli ultimi decenni, nel sistema di proprietà- gestione delle stesse imprese, in particolare con l’avvento sulla scena degli investitori istituzionali che hanno imposto e contemporaneamente stimolato il perseguimento di obiettivi di reddititività più elevati di prima.

Tutto questo ci riporta alla descrizione dei meccanismi di sviluppo dell’economia capitalistica quale avanzata già molto tempo fa, sia pure in termini molto generali, da Magdoff e Sweezy (Magdoff, Sweezy, 1983) e ripresa di recente, a mio parere correttamente, da Foster (Foster, 2008).

Tornando alla crisi presente, bisogna aggiungere che la quadratura del cerchio è stata ricercata nel tempo in un altro squilibrio, che ci porta poi anche alla dimensione internazionale delle difficoltà. Le risorse per andare avanti sono state infatti fornite, oltre che dalla stampa senza freni di moneta – resa a sua volta possibile dal ruolo egemonico del dollaro e degli stessi Stati Uniti-, dalle finanze dei paesi asiatici, grazie anche alla politica di deregolamentazione, di apertura dei mercati e dei flussi finanziari, che ha permesso nel tempo la creazione di un vasto impero a debito, nel quale gli americani acquisivano dall’estero i beni di cui avevano bisogno e gli asiatici estraevano dai proventi delle esportazioni verso l’Occidente le risorse da prestare agli americani perché continuassero a acquistare le loro merci.

Finanza ed economia reale

Da questo punto di vista bisogna ricordare che una descrizione corrente dei meccanismi della crisi vuole che la “cattiva” finanza stia ora infettando la “virtuosa” economia reale. In realtà non solo la distinzione tra finanza ed economia reale è di frequente difficile da individuare, per le intime commistioni spesso individuabili tra le due realtà, mentre una visione manichea in merito appare difficilmente accettabile, ma, per altro verso, almeno in questo caso e come sopra suggerito, si è verificata un’interazione molto rilevante tra i due aspetti, per cui riesce difficile distinguere una netta primogenitura nell’accendersi della crisi.

Si può anzi pensare che la forte espansione nell’ultimo periodo del settore finanziario- assicurativo e anche di quello immobiliare e dei loro profitti, nonché l’instabilità che ne è poi seguita, trovi le sue radici, almeno in parte, negli squilibri dell’economia reale, nell’impossibilità cioè di trovare vie alternative di crescita per il sistema economico. E’ anche evidente che successivamente, ma solo successivamente, lo stesso settore finanziario ha cominciato ad infettare quello reale, innescando peraltro anche una spirale perversa tra i due momenti.

Un autore (Behravesh, 2008), pur riconoscendo che l’attuale crisi è una delle più gravi del dopoguerra, è anche però fiducioso che la ripresa verrà e sarà forte. Questo per lui almeno per quattro ragioni: 1) la caduta repentina dei prezzi del petrolio e delle altre materie prime; 2) l’azione vigorosa e coordinata di contrasto in atto verso la crisi finanziaria intrapresa dai governi e che comincia ad avere risultati positivi; 3) è stato già iniettato nell’economia un grande volume di liquidità e altre risorse verranno ancora, mentre i tassi di interesse continuano a scendere; 4) sono in arrivo ulteriori e rilevanti stimoli fiscali, negli Stati Uniti come in Europa e in Asia. In conclusione, l’autore vede la luce in fondo al tunnel; il 2010 dovrebbe registrare una ripresa modesta, che diventerà più robusta nel 2011.

Ma rispetto a questa visione, tutto sommato ottimistica, si può esprimere una serie di dubbi. In particolare, tutti gli interventi in atto da parte dei governi comportano ulteriori, massicce iniezioni di denaro nel sistema, risorse che vengono da una forte crescita del debito pubblico, che si somma o si sostituisce così a quello, già elevatissimo, privato. Una stima di fine novembre (Andrews, 2008) indica che il governo statunitense ha già preso impegni finanziari per 7,8 trilioni di dollari per far fronte alla crisi, di cui 1,4 trilioni sono già stati utilizzati in prestiti, iniezioni di capitale alle banche e operazioni di salvataggio di società come Bear Stearns ed AIG, mentre la nuova presidenza del paese parla già di altre massicce iniezioni di risorse nei prossimi mesi. Tale possibile nuova partenza dell’economia potrebbe essere quindi costruita sulla sabbia, come osserva M. Wolf a commento dell’articolo di Behravesh sullo stesso sito.

Come uscirne ?

Se le cose stessero veramente come indicato in queste note sintetiche, la crisi rischia di essere lunga e le vie per uscirne molto complicate. Per superare le difficoltà bisognerebbe in effetti ripensare le relazioni generali in essere tra capitale finanziario, sviluppo economico e indebitamento a livello mondiale. In dettaglio:

1) bisognerebbe intanto individuare un nuovo meccanismo di sviluppo; sino ad un certo numero di anni fa, almeno negli Stati Uniti, la base di tale meccanismo era stata costituita dal settore dell’information technology: basteranno i piani di Obama e degli altri paesi relativi al varo di un’ondata di investimenti nel settore dei lavori pubblici e in quello delle nuove energie? Per altro verso, si dovrebbero ripensare le remunerazioni del fattore lavoro e i carichi fiscali su tali remunerazioni;

2) d’altro canto, ci vorranno diversi anni perché si cominci a smaltire la sbornia dell’indebitamento e cominci quindi a mostrare i suoi effetti il processo di deleveraging in atto nel settore privato; tale processo, d’altro canto, non potrà non contribuire ad un rallentamento dell’economia per diverso tempo. Inoltre, bisognerà in ogni caso trovare la via per finanziare l’enorme massa dei debiti contratti dai governi, in particolare da quello statunitense e da quello britannico, per calmare la crisi;

Sino a dove ci si può spingere nell’iniettare soldi pubblici nell’economia senza compromettere le fondamenta stesse del sistema? C’è, in effetti, il rischio molto forte di trasformare una crisi della finanza privata in una della finanza pubblica, aggravata quest’ultima da una crisi monetaria (Lordon, 2008).

Ci troviamo poi, in ogni caso, di fronte ad un delicato bilanciamento tra la stampa di carta moneta, operazione che presenta rilevanti rischi di inflazione e di rigetto del dollaro (e della sterlina) da parte del resto del mondo e l’emissione di buoni del tesoro, che deve trovare un ambiente favorevole da parte dei paesi asiatici. La situazione appare almeno altrettanto grave, se non di più, rispetto agli Stati Uniti, per la Gran Bretagna, che non dispone di una moneta di riserva come gli Stati Uniti;

3) nel frattempo, continuano ad accumularsi delle enormi riserve finanziarie nei paesi in surplus: soltanto nel 2008, peraltro un anno di crisi, esse aumenteranno presumibilmente di circa 2000 miliardi di dollari (Wolf, 2008). Di questa cifra, 830 miliardi verranno dai paesi petroliferi, 400 dalla Cina, 280 dalla Germania, circa 200 dal Giappone. Se questi paesi non cercheranno di far crescere fortemente la domanda ed i consumi interni, come afferma lo stesso Wolf, l’economia del mondo potrebbe anche collassare. Ma uno dei problemi, almeno nel caso del Giappone e della Germania, è stato esplicitato di recente dal ministro per l’economia giapponese, K. Yosano, “…io ho già un’auto, due frigoriferi, tre televisori…(cosa altro potrei comprare?)…perciò la situazione è molto, molto difficile…”.

Sì, la situazione appare difficilissima. Più in generale, almeno Giappone e Germania spendono già molto per la ricerca e l’istruzione ed hanno un sistema di infrastrutture abbastanza adeguato, mentre appare difficile che possano aumentare di colpo e fortemente le loro importazioni dai paesi maggiormente in difficoltà. D’altro canto, ad esempio la Gran Bretagna non ha più quasi nulla da esportare e gli Stati Uniti solo qualcosa in più. Il deficit della bilancia commerciale di quest’ultimo paese, negli ultimi dodici mesi, veleggia intorno agli 850 miliardi di dollari.

Speriamo soltanto, quindi, che l’analisi sin qui presentata abbia dei punti deboli rilevanti e che comunque qualche imprevedibile evento futuro, che per il momento resta nascosto, ci tolga dai guai.

Testi citati nell’articolo

– Andrews E. L., Plans $800 billion in lending to ease crisis, The New York Times, 26 novembre 2008

– Behravesh N., A deep recession but a strong recovery, www.ft.com, 25 novembre 2008

– Foster J. B., The financialization of capital and the crisis, Monthly Review, aprile 2008

– Fredet J. G., Fortune privées, dettes publiques, Le Nouvel Observateur, 4-10 dicembre 2008

– Lordon F., Finance: la société prise en otage, La revue internationale des livres et des idées, n. 8, novembre-dicembre 2008

– Magdoff H., Sweezy P. M., Production and finance, Monthly Review, maggio 1983

-Wolf M., Global imbalances threaten the survival of liberal trade, The Financial Times, 3 dicembre 2008