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Fondi strutturali europei, si chiude il ciclo

Se sul fronte della performance finanziaria gli obiettivi sembrerebbero essere stati raggiunti, da un punto di vista di policy pubblica ci troviamo di fronte ad una debacle conclamata. Ecco perchè

Mentre in questi giorni di fine marzo si celebravano a Roma, tra ansie e déjà vu, i sessant’anni dell’Unione europea, il caso ha voluto che si chiudesse anche il ciclo di programmazione dei fondi strutturali 2007-20131.

Dal 1 aprile 2017, infatti, chi ha avuto, ha avuto, e chi ha dato, ha dato; iniziano gli esami della Commissione. Esami a campione, fatti di verifiche formali di certificazioni e scontrini, che poco avranno a che vedere con l’impatto macroeconomico della politica di coesione. E già perché i soldi europei sono soldi a rimborso; ossia soldi che vengono riconosciuti da Bruxelles dopo una defatigante corsa con i sacchi dove può ritenersi soddisfatto anche chi arriva ultimo, purché arrivi in piedi! Ecco perché, i toni del Governo, e di buona parte delle amministrazioni regionali, vanno dal tecnico trionfalistico al mistico miracoloso. Ovviamente ci sarebbe da chiedersi se correre con dei sacchi ai piedi, quando in gioco c’è il destino socioeconomico di oltre 500 milioni di persone, abbia un senso ma questa è questione di politica economica. Una politica economica di tipo redistributivo sulla quale l’Europa, nel corso degli ultimi cinque cicli di programmazione, sembra aver avuto spesso dubbi ma poca voglia di ripensarla ab origine. Anzi, senza che nessuno lo palesasse in maniera esplicita, questa politica economica si è progressivamente trasformata nella principale leva della geopolitica dell’Unione anestetizzando, di fatto, limiti e vacuità dell’azione comunitaria.

Eppure questa politica nasceva, come l’idea stessa d’Europa, su basi nobili: ridurre a livello regionale le divergenze socioeconomiche e promuovere pari diritti di cittadinanza europea. Politiche regionali, però, che con il rapido allargamento, o meglio dilagamento ad est/nord-est si sono, sovente, trasformate in politiche-Stato ovvero in lillipuziani piani Marshall in salsa europea. Paradossalmente, a porsi seri dubbi sul reale impatto di questa politica è oggi la stessa Commissione che nel Libro bianco sul futuro dell’Europa da qui al 2025 propone 5 scenari tra i quali uno in particolare, il quarto, ipotizza che l’UE cessi di intervenire proprio sullo sviluppo regionale. Come dire: “scusate abbiamo scherzato”; ovvero prendiamo atto che se non proprio di un fallimento ci troviamo di fronte ad una sindrome di Stoccolma dalla quale, però, si è disponibili a farsi curare. E che questo distacco, lento molto lento, fosse rintracciabile anche nella grammatica della politica di coesione era già evidente da almeno due lustri. Non a caso dopo molti anni di interventi in aree individuate in maniera neutra “Obiettivo (1, 2, 3, 4, ecc.)”, per il 2007-2013 la differenziazione tra aree “Convergenza” e “Competitività” ricordava a tutti che quei numeri avevano un preciso significato ancora lontano da raggiungere. Fino ad arrivare, alla sguaiata provocazione lessicale del 2014-2020 che manda in soffitta il politically correct dell’Unione appellando quelle stesse aree come “meno sviluppate” e “più sviluppate”. Un po’ come ricominciare da capo, al massimo avendo capitalizzato “Vicolo corto” e “Vicolo stretto”.

Così, se sul fronte della performance finanziaria gli obiettivi sembrerebbero essere stati raggiunti, vox populi, grazie ai progetti retrospettivi, sponda, cavallo, in sostanza tirando fuori dai cassetti tutto quello che finanziariamente parlando almeno respirava, da un punto di vista di policy pubblica ci troviamo di fronte ad una debacle conclamata. Negli ultimi 12 mesi la spesa certificata dei fondi strutturali è passata dall’80% al 98% delle dotazioni totali dei programmi2, un balzo in avanti di circa 20 punti percentuali. In particolare, le Regioni del mezzogiorno e non pochi Ministeri hanno fatto l’encomiabile sforzo di rendere “coerenti” con i programmi operativi regionali o nazionali del ciclo 2007-2013 progetti ed interventi inizialmente non previsti ma con il pregio di essere realmente “operativi”. In altri casi si è previsto di portarli ad “operatività” nel prossimo ciclo di programmazione; si comprende bene che in queste condizioni a saltare è l’impianto programmatorio che finisce per apparire quasi un inutile orpello, quando non addirittura un ostacolo. E a sancire la parziale evanescenza dei quadri programmatici alla base, però, di tutta l’attuazione operativa e successiva certificazione e verifica, vi è la comparsa nel nuovo ciclo di programmazione dei programmi operativi complementari (POC). Una sorta di jolly che si affianca alla programmazione delle risorse straordinarie e a cui si può ricorrere in caso di necessità, parcheggiandovi progetti che non “tirano” o attingendo progetti che spendono rapidamente.

Ma gli effetti distorsivi della politica di coesione non si limitano alla fase programmatoria a cui pure viene riservata una rilevanza a dir poco maniacale. Per certi versi sono insiti nella ratio stessa della policy così come si è venuta configurando nel corso degli anni. Basti pensare alla grande battaglia che ogni Stato membro fa in occasione dell’approvazione del bilancio settennale dell’Unione. Ciascuno cerca di portare a casa quante più risorse possibili della coesione. E l’Italia negli ultimi 4 cicli di programmazione ha sempre portato a casa più soldi (vd. Tabella). Peccato che nella logica della policy più risorse alla coesione significa che negli anni queste aree non solo non hanno raggiunto risultati in termini di convergenza ma addirittura sarebbero peggiorate. Paradossalmente il vero successo della policy avrebbe coinciso con una riduzione delle risorse alle aree interessate! Ma nessun Paese, soprattutto se contributore netto (come l’Italia), intende ricevere molto meno di quello che dà, figuriamoci poco o nulla. Ma allora perché ostinarsi con questa pleistocenica impalcatura funzionale che di redistributivo ha poco, mentre assomiglia di più ad una spartizione dei pani e dei pesci? In fondo dimentichiamo che questa Europa funzionalista, secondo cui il mercato e l’integrazione economica avrebbero spinto verso una progressiva unione politica, non è mai diventata una confederazione di Stati. Anzi, l’UE assomiglia sempre più ad un’istituzione che prova a regolare il traffico anche in contesti, quali le politiche regionali, dove l’introduzione delle risorse addizionali della coesione, in particolare per le aree del mezzogiorno, hanno finito addirittura per sostituirsi a quelle ordinarie creando un pericolosissimo effetto spiazzamento.

Come ribadito in questi giorni di celebrazione, questa Europa deve avere più coraggio. Più coraggio ad intraprendere strade meno tortuose di quelle finora battute a partire da una progressiva ritirata da interventi di sviluppo regionale eterodiretti che hanno spesso come primario effetto quello di generare una domanda contraffatta ed una corsa alle risorse che, anche quando raggiunte, sembrano inafferrabili. Perché continuare a stalkerare amministrazioni pubbliche, in ultimo anche con i Piani di Rafforzamento Amministrativo (PRA), che con non poche difficoltà riescono a stare dietro agli artefatti meccanismi di impegno e spesa comunitari di una macchina che gira a vuoto? Non si tratta di riprendersi pezzi di sovranità ma unicamente di buon senso; di provare a rendere più semplici ed immediate politiche redistributive che mal si conciliano con quadri programmatici di un’Europa sempre più complessa affidata ad una Commissione più attenta a gestire la cassa, salvaguardando la sua euroburocrazia, che a preoccuparsi dei risultati.

Di fronte al dilagare di fasce di povertà crescenti, fenomeni epocali inarrestabili come quello dei flussi migratori, la necessità di garantire stabilità e sicurezza al vecchio continente, l’Europa deve avere un sistema di risposta tanto comune quanto rapido. Accorciamo da subito, magari già dal 2018, anno di riprogrammazione dei fondi SIE, l’inutile, quanto dannosa, filiera gestionale delle risorse comunitarie. Trasformiamo risorse a rimborso in un modello sociale comune con misure di sostegno diretto al reddito, in particolare per giovani e anziani. E poi, perché piuttosto che briciole non concentrare parte dei finanziamenti diretti dell’Unione – fatte salve quelle che alimentano programmi come l’Erasmus, il Life o Horizon – su interventi a sostegno della cooperazione decentrata? Soprattutto chiediamoci se dopo quasi trent’anni di politiche di coesione possiamo permetterci il lusso che per i prossimi dieci3 schiere di anatomopatologi del fondostrutturalismo – élite del sistema della pubblica amministrazione – siano coscritti a lavorare al capezzale di un cadavere.

1 Secondo le regole previste per la chiusura dei programmi 2007-2013 i pagamenti effettuati dalle Amministrazioni titolari di programmi operativi entro il 31 dicembre 2015 potranno trasformarsi in certificazioni e richieste di rimborso fino al 31 marzo 2017.

2 Elaborazioni su dati OpenCoesione.

3 Per il settennio di programmazione 2014-2020 vale la cosiddetta regola “n+3” (art. 136 del Regolamento CE 1303/2013), (art. 136 del Regolamento CE 1303/2013), pertanto le certificazioni alla Commissione devono essere presentate entro il 31 dicembre del terzo anno successivo a quello dell’impegno nell’ambito del Programma.