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Cop21, secondo round

È molto probabile che resti ampio il divario tra le esigenze di politica climatica e i risultati che potranno essere ottenuti dalla COP21. Esiste il rischio, cioè, che a Parigi sarà celebrato un “successo” che potrà rendere un po’ più lenta la catastrofe climatica ma non rovesciarne la tendenza

È iniziata a Parigi la settimana conclusiva della COP21, ossia la ventunesima sessione della Conferenza delle nazioni che hanno sottoscritto la Convenzione ONU sui cambiamenti climatici, firmata a Rio de Janeiro nel 1992, e della CMP11, ossia la undicesima sessione della Conferenza tra le nazioni che hanno ratificato il Protocollo di Kyoto. La COP21 è il culmine di un processo di negoziazione lanciato a Durban, in Sud Africa, nel 2011 e ha l’obiettivo principale di sancire un nuovo accordo internazionale sul clima che entrerà in vigore nel 2020, quando scadrà il Protocollo di Kyoto.

Le questioni sul tavolo verso il documento finale

Dopo una settimana di colloqui, i Paesi hanno condiviso un documento di 42 pagine che sarà negoziato da oggi a venerdì prossimo, nella speranza di giungere a un accordo al termine della COP21, quando nella capitale francese convergeranno i ministri e i capi di stato e di governo. Il documento – che contiene sia la bozza dell’accordo sia una serie di decisione per una sua applicazione – rappresenta uno sforzo per smagrire il testo di 54 pagine che i negoziatori hanno trovato sui tavoli all’inizio della conferenza a fine novembre.

Sul tavolo della trattativa permangono le stesse questioni già aperte dal vertice sul clima a Copenaghen nel 2009: gli sforzi globali di mitigazione (così nel gergo dell’UNFCCC si esprime la riduzione delle emissioni di gas-serra) e la loro ripartizione tra i Paesi; l’adattamento alle conseguenze del cambiamento climatico; la conservazione delle foreste poiché la loro distruzione e il loro degrado causano il 15% delle emissioni globali; i trasferimenti finanziari verso i paesi in via di sviluppo; i partenariati tecnologici; lo sviluppo di competenze scientifiche e il rafforzamento istituzionale a livello nazionale e sovranazionale; gli accordi su strumenti transnazionali di protezione del clima. L’unica novità di rilievo riguarda il tema delle perdite e dei danni (loss and damage, nel gergo dei negoziati), dove vengono dibattute le modalità per la compensazione dei paesi poveri per i danni che questi subiscono a causa del cambiamento climatico.

Progressi, empasse e una grande differenza con le COP precedenti

Dal 2009 a oggi sono stati compiuti molti progressi a livello tecnico e scientifico in diverse di queste aree negoziali. Permangono tuttavia molte empasse sulle grandi questioni politiche, incluso l’obiettivo di lungo periodo di ridurre a zero le emissioni di gas-serra da fonti fossili di energia. Si giungerà a un accordo su questo punto? Con quali tempi? Quali saranno gli esiti per il diritto allo sviluppo e alla salute delle comunità globali e per la difesa dei migranti climatici? Cosa si deciderà per procedere verso l’energia rinnovabile al 100%? Si riuscirà a trovare un accordo su questo e molto di più?

C’è una differenza rilevante rispetto a Copenaghen. Fino ad allora il negoziato aveva avuto come riferimento un accordo top-down, con obiettivi vincolanti definito dall’alto e un’equa ripartizione tra le nazioni. Con il fallimento di Copenhagen, l’approccio top-down è stato abbandonato. La barra è stata considerevolmente abbassata e sono stati esplorati nuovi percorsi.

Il vertice di Parigi – contrariamente a quello che si sente dire – non sarà su come raggiungere un accordo su obiettivi di riduzione specifici per le emissioni di carbonio, con impegni differenziati per i singoli gruppi di Paesi. Viceversa, tutti i paesi sono chiamati a fare promesse individuali (nel gergo Intended Nationally Determined Contributions, o INDC) che diventeranno parte di un pacchetto. Un approccio, questo, che gli esperti definiscono bottom-up.

Obiettivo 2 °C fuori portata, l’accordo garantirà trasparenza sugli impegni

Un punto in comune è invece l’impegno di limitare il riscaldamento globale a un massimo di 2 °C rispetto ai livelli pre-industriali. È già chiaro però che la somma degli impegni che i Paesi hanno messo sul tavolo di Parigi cadrà ben al di sotto dell’obiettivo 2 °C. Dagli INDC presentati possiamo attenderci un riscaldamento di 3-4 °C (almeno 2,7 °C secondo la stima UNFCCC, ndr), che non potrà evitare le conseguenze catastrofiche previste dall’IPCC (il gruppo di scienziati dell’ONU chiamati a fornire indicazioni sulla scienza dei cambiamenti climatici e delle soluzioni per contrastarli) per questo scenario di riscaldamento a fine secolo.

A questo punto, possiamo ritenere che l’accordo che verrà fuori a Parigi, nella migliore delle ipotesi, sancirà le norme per garantire trasparenza e comparabilità delle attività di monitoraggio, rendicontazione e verifica ed evitare che gli impegni di ogni singola nazione rimangano sulla carta. Resterà purtroppo il divario ampio e minaccioso tra le esigenze di politica climatica e i risultati che potranno essere ottenuti dalla COP21. Esiste il rischio che a Parigi sarà celebrato un “successo” che potrà rendere un po’ più lenta la catastrofe climatica, ma non rovesciarne la tendenza.

Una visione riduttiva

D’altra parte cosa potevamo attenderci da un processo internazionale che guarda al problema del clima da una prospettiva che si concentra solo sulle emissioni di carbonio e sull’aumento della temperatura, ma non riesce a riconoscere la complessità della crisi climatica ed ecologica in cui i sistemi politici e sociali interagiscono con gli ecosistemi planetari?

Così facendo si restringe anche la ricerca di soluzioni strutturali e vie d’uscita dalla crisi climatica. I processi ONU di negoziazione sul clima e sulle grandi questioni ambientali, ormai a notevole grado di tecnicismo e complicazione, hanno imboccato un percorso che rispecchia una visione riduttiva del mondo e dell’ambiente, incapace di sviluppare una forza e un dinamismo tali da invertire realmente la tendenza.

Speranze dalle svolte di Cina e Usa

Vi è, tuttavia, qualche luce all’orizzonte. Gli Stati Uniti e la Cina, i due maggiori consumatori di energia ed emettitori di carbonio, hanno abbandonato la loro posizione di stallo. Entrambi vogliono un esito positivo della conferenza di Parigi. La cooperazione diplomatica, scientifica e tecnica tra Washington e Pechino nel settore del clima è uno degli sviluppi più incoraggianti dell’ultimo decennio.

Il presidente Obama sembra determinato a fare diventare la lotta ai cambiamenti climatici una traccia della sua eredità. Un certo numero di Stati USA stanno perseguendo obiettivi ambiziosi di aumento delle energie rinnovabili. Molte città americane sono all’avanguardia nello sviluppo verde dell’ambiente urbano.

In nessun luogo del mondo l’espansione delle energie rinnovabili è perseguita in modo così robusto come in Cina. Megalopoli come Pechino si rivolgono sempre più alla mobilità elettrica. Nel 2014, il consumo e le emissioni di carbonio legate alla produzione di energia è sceso per la prima volta da decenni. A scala globale, stiamo vivendo un boom dell’energia solare ed eolica.

Crescita economica e taglio delle emissioni

Negli ultimi anni, il ritmo di crescita delle energie rinnovabili nei paesi in via di sviluppo e di recente industrializzazione è stato superiore a quello dei paesi industrializzati. Ciò è dovuto principalmente al forte calo del costo di energia solare ed eolica. I prezzi dei moduli solari, per esempio, sono diminuiti del 70% negli ultimi dieci anni.

In generale, la dipendenza dalle rinnovabili sta diventando una proposta economicamente attraente per le imprese, da ogni punto di vista. Negli ultimi dieci anni, le economie dei paesi OCSE sono cresciute di oltre il 10%, nonostante varie crisi, mentre le emissioni di carbonio legate all’energia sono diminuite del 7%. Questo invia un segnale chiaro ai paesi in via di sviluppo: è possibile abbinare protezione del clima e innalzamento del tenore di vita di miliardi di persone che vivono ancora in condizioni di povertà.

Serve un segnale dalla società civile

Un segnale forte deve arrivare dalla società civile. Ed è un gran peccato che la grande marcia per il clima all’apertura della COP21 sia stata cancellata. La società civile deve far sentire la propria voce per esigere che i governi attuino le misure e gli obiettivi prefissati e indicati dalla scienza, e incalzarli quando corteggiano le imprese che vogliono un rinascimento del carbone, del petrolio e del gas, o corrono in soccorso di un’agricoltura industriale, obsoleta e insostenibile.

Il giro di vite in tutto il mondo su parti della società civile che si distinguono per la tutela dell’ambiente, i diritti umani e la democrazia, la crescita verde, l’inclusione e la giustizia sociale, è quindi molto preoccupante. È auspicabile che il vertice sul clima di Parigi dia alla fine un chiaro segnale che la protezione del clima e la trasformazione ecologica sono possibili solo in cooperazione con la società civile. Ciò vale in particolare per i Paesi in via di sviluppo, in cui le questioni ambientali e sociali sono strettamente intrecciate.

Articolo pubblicato da qualenergia.it