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Colombia, voto che fa storia, purtroppo

Una riflessione a posteriori chiesta a Francesco Bogliacino e Carlo Tognato, docenti a Bogotà presso la Universidad Nacional de Colombia, sui risultati del ballottaggio del 17 giugno in Colombia che ha vinto il candidato del centrodestra Duque.

Nel nostro articolo-intervista precedente – la prima parte del quale si trova in coda a questo pezzo – parlavamo di un voto storico. E così è stato. Ma non certo nel senso auspicabile. Sarebbe stato voto storico comunque per la Colombia: o per l’affermarsi di una coalizione di sinistra – quella guidata da Gustavo Petro – progressista e che avrebbe rappresentato (anche simbolicamente) una forte rottura col passato, sia quello più recente sia quello degli anni di Uribe, oppure per un ritorno indietro di 10 anni, ai tempi di Uribe medesimo tramite la vittoria del candidato Ivan Duque. Si è manifestato esattamente questo secondo scenario, come da pronostico, e con percentuali anche abbastanza in linea con quelle previste alla vigilia, nonostante il fronte più allargato con cui era riuscita a presentarsi la colazione di Petro – che aveva raccolto il sostegno di parte del Polo Democratico e del Partito Verde – avrebbe potuto lasciar sperare in un risultato migliore. Il distacco fra i due candidati è risultato alla fine di 12 punti percentuali.

Il futuro è difficile da prevedere: non è eccessivo dire che i trattati di pace con le FARC siano ora a rischio e che anche l’importante capitolo della redistribuzione delle terre sul territorio nazionale vedrà importanti contraccolpi. Lasciamo la parola ai nostri due esperti per cercare di fare un po’ di chiarezza.

Francesco Bogliacino
Facciamo due conti: rispetto al primo turno Duque cresce da 7 a 10.3 milioni e Petro da 4.5 a 8. La vittoria di Duque era scontata, il dato rilevante era la differenza. Avendo mantenuto la distanza (anzi leggermente ridotto) nonostante tutto l’establishment dei partiti tradizionali si fosse schierato con il vincitore, Petro ne esce sostanzialmente rafforzato. La distribuzione geografica del voto è abbastanza eloquente: Petro vince nella costa pacifica, in alcune regioni del Caribe e vince (importantissimo perché rappresenta il voto di opinione) Bogotá. Almeno a livello macro è la stessa mappa del voto nel plebiscito: Duque vince nella Colombia dura e pura, del No all’accordo. Sui flussi elettorali è presto per fare analisi, ma è evidente che il voto di Fajardo – candidato giunto terzo al primo turno ed espressione della sinistra moderata, del Partito Verde e del Polo Democratico, ndr – si è spaccato tra destra e sinistra, come previsto dall’analisi pre-elettorale. La posizione di Fajardo di puntare sul voto in bianco era chiaramente velleitaria, e conferma l’ingenuità politica del personaggio. Personalmente credo che Fajardo non si ricandiderà tra quattro anni.

Che succederà? Duque deve affrontare almeno tre problemi: il suo padrino (Uribe) spingerà per riforme della giustizia (per garantire protezione ai suoi familiari) e aggiustamenti simbolici all’accordo, ma per governare è fondamentale l’ appoggio dei partiti dell’ attuale maggioranza, che l’ accordo hanno sostenuto; l’entrata nell’OECD e la “tecnocrazia” spingeranno per riforme delle pensioni, riforma tributaria e limiti alle consultazioni comunitarie per minería e grandi opere (incompatibili con i partenariati di investimento firmati) e questo infiammerà la rivolta sociale. Il combinato disposto della crisi venezuelana (con immigrazione crescente) e della crescita dell’ insicurezza (penetrazione dei cartelli messicani e scontro tra dissidenza delle FARC, ELN e paramilitari) è una bomba a orologeria.

Prevedo una sostanziale linea di continuità dal punto di vista economico, ma per regalare un contentino alla destra radicale, infiammata nella campagna elettorale, sicuramente ci sarà campagna dura su temi come l’istruzione, i diritti civili (Viviane Morales, l’evangelica radicale sembrerebbe in pole position per il ministero dell’istruzione), l’immigrazione. Mi preoccupa che Duque sia una persona sostanzialmente senza esperienza, troppo succube di un Uribe che si sente accerchiato e non ci sia coscienza nel Paese, che il contesto macro e geopolitico internazionale è in subbuglio e dovrà affrontare shock pesanti nei prossimi anni.

Petro invece dovrà decidere cosa fare da grande. È un personaggio istrionico, oggettivamente con un consenso popolare enorme, ma è anche divisivo e capace di generare paure negli elettori della Colombia profonda e nell’elite. sarà senatore e sicuramente farà un’opposizione dura, ma non lo vedo in condizione di agglutinare il voto di centro sinistra per la relazione deteriorata sia con Claudia López dei Verdi, sia con Jorge Robledo del Polo. Onestamente prevedo otto anni di Duque, ma nel frattempo lo scenario internazionale sarà profondamente cambiato.

Carlo Tognato
Entrambe le coalizioni dovranno affrontare nel corso dei prossimi anni grandi sfide. In particolare, dovranno mostrare agli elettori di centro attraverso l’azione di governo e l’opposizione, rispettivamente, una volontà autentica di convergenza verso il centro basata in un rifiuto strategico degli estremismi più che di una loro mitigazione tattica per riuscire a strappare opportunisticamente più voti per vincere al secondo turno.

Per la coalizione di centro-destra questo implicherà, per esempio, percorrere un sentiero estremamente stretto e delicato di calibrazione dell’implementazione del processo di pace tra il governo e le FARC senza minare alla base gli accordi di pace firmati a novembre del 2016; significherà moderare certe visioni conservatrici della destra nei confronti delle minoranze, soprattutto LGBT; e richiederà una forte insistenza sul rispetto degli standard sociali ed ambientali nel settore estrattivo e più in generale sul rispetto dei diritti umani, nei confronti dei quali tradizionalmente la destra colombiana non é stata particolarmente sensibile.

Per la coalizione di centro-sinistra, sarà necessario mostrare che le azioni di lotta in parlamento e le mobilitazioni sociali promesse dal suo candidato nel suo discorso di concessione non ammiccheranno a repertori ben noti di corte populista conosciuti, per esempio, in Argentina, ma sapranno al contrario mostrare la moderazione che ha tradizionalmente caratterizzato le sinistre cilena e uruguayana. Il fatto che in tale discorso Petro non abbia neanche menzionato l’apporto fondamentale al suo successo da parte di importanti esponenti del Partito Verde di centro-sinistra potrebbe indicare la direzione in cui potrebbe muoversi la sua azione politica nei prossimi anni.

Articolo/intervista in seguito al primo turno

Le elezioni presidenziali in Colombia – primo turno domenica 27 maggio, secondo turno domenica 17 giugno – sono per vari motivi le più importanti dagli ultimi 30 anni: c’è in gioco la sopravvivenza dal trattato di pace con le FARC (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia), lo sviluppo della negoziazione con l’ELN (Esercito di Liberazione Nazionale), il futuro della politica economica, la necessità di arginare un notevole buco fiscale e di provvedere a un massiccio taglio della spesa pubblica.

Ne discutiamo con due docenti italiani – Francesco Bogliacino e Carlo Tognato – che da anni lavorano nella principale università del paese, la Universidad Nacional de Colombia, e le cui opinioni sono in certi casi anche piuttosto discordanti. Un brevissimo inquadramento storico è tuttavia opportuno per meglio comprendere la più stretta attualità politica.

La Colombia sta affrontando un processo che dovrebbe portarla a uscire da un conflitto interno che dura da più di 50 anni, strettamente collegato alla distribuzione della terra e alla mancanza di politiche sociali fuori delle regioni più importanti del paese. Anche queste ragioni hanno portato alla nascita di gruppi come FARC ed ELN, in grado di esercitare forte influenza lontano dai grandi centri urbani. Con gli anni Settanta inizia poi la stagione del narcotraffico: da quel momento, soggetti come il noto cartello di Medellin (guidato da Pablo Escobar) e quello di Cali assumono un rilevante peso economico. Successivamente nascono i gruppi paramilitari che già negli ultimi anni Ottanta si distanziano dai narcos: questa frattura porta all’instaurazione di una stretta relazione tra alcune fazioni del potere militare e del potere politico di area conservatrice, e al violento conflitto armato tra paramilitari e guerriglieri di estrema sinistra per il controllo di zone strategiche, estremamente ricche di risorse minerali e naturali, nonchè ottime per lo sviluppo di attività agro-industriali. È il periodo più noto anche fuori dai confini nazionali: stragi, guerra civile, e migrazione di massa dalla campagna alla città.

A fine anni Novanta, sotto la presidenza del conservatore Andres Pastrana, inizia a essere discussa la possibilità di negoziare con le FARC. Nonostante vari tentativi, tuttavia, queste ultime consolidano il loro potere militare e continuano le azioni violente. Tale fallimento apre la strada della presidenza a Alvaro Uribe Velez, ai tempi “volto (relativamente) nuovo”: la sua svolta prevede tolleranza zero nei confronti delle forze sovversive, e una visione economica iper-liberista sostenuta da investimenti massicci di capitali esteri, dalla trasformazione di risorse naturali come e dallo sviluppo di grandi progetti agro-industriali.

Ma sarà proprio il “delfino” di Uribe, poi staccatosi per creare a una formazione politica di destra “più moderata” – l’attuale presidente Juan Manuel Santos – a riproporre una politica più conciliante con i guerriglieri, culminata con la firma dei trattati di pace e la vittoria nel 2016 del premio Nobel per la Pace da parte dello stesso Santos. Siamo ai giorni nostri, con la fine del secondo mandato di Santos e le fondamentali elezioni che al primo turno hanno confermato i sondaggi: davanti a tutti il “nuovo” uomo-forte di Uribe, Ivan Duque, che se la vedrà al ballottaggio con il candidato di sinistra, ex-sindaco di Bogotà nonché ex-membro del gruppo rivoluzionario M-19, Gustavo Petro. Quest’ultimo, da solo, non ha oggettivamente speranze di ribaltare il risultato, ma il gioco delle alleanze è in pieno svolgimento. Da qui partiamo per la discussione coi nostri due ospiti.

Dall’esterno si è avuta l’impressione di una campagna elettorale influenzata dai media e in particolare dalla rappresentazione di Petro come colui che avrebbe trascinato la Colombia in una situazione simile a quella del Venezuela. Credi che questa retorica abbia sortito l’effetto sperato?

Bogliacino: Sì. D’altra parte la destra aveva già messo in atto una strategia simile per il plebiscito sull’accordo di pace, e lo stesso termine “castrochavismo” fu coniato in quell’occasione. L’evoluzione drammatica della situazione venezuelana e l’esodo (in larga parte, in realtà, un ritorno) biblico dei migranti verso la Colombia, con tutte le tensioni che sta generando, ha ovviamente fornito “argomenti” retorici alla campagna. Per me una delle immagini più forti della campagna è quella di un cartello a Bucaramanga (nella regione Santander) proprio sopra una baraccopoli, che incitava a votare per Duque per non finire come in Venezuela. Surrealista e tragico.

Tognato: La polarizzazione del paese ha subito un processo di accelerazione in occasione del plebiscito sulla pace. In quell’occasione si è potuto constatare che la demonizzazione dell’avversario e il ricorso alle menzogne pagano – molto bene – in termini politici. L’hanno fatto con Brexit in Gran Bretagna, negli Stati Uniti con Trump e con la votazione sulla pace in Colombia. Nelle recenti elezioni queste pratiche si sono intensificate, su tutti i fronti. In quanto a una deriva venezuelana in Colombia, esistono possibilità in quel senso, perché le istituzioni sono deboli, la capacità d’esecuzione dello Stato è povera, gli elettori sono culturalmente disposti ad accettare l’intervento del messia di turno, e da un punto di vista strutturale c’è una situazione di disagio sociale profonda. Per di più, di fronte a un governo Petro la reazione da parte di certe istituzioni dello Stato, sociali e politiche potrebbe essere di resistenza passiva o attiva, cosa che spinse Chavez a radicalizzarsi ancora di più durante i suoi primi 2-3 anni di governo. Di fronte al rischio di una deriva populista, sarebbe stato importante che le forze più aperte nell’ambito dello spettro politico colombiano non si ritirassero in un Aventino, ma al contrario considerassero la possibilità di arrivare ad accordi per poter canalizzare e trasformare eventuali forze populiste in forze popolari. Purtroppo, questo non è successo né in Italia né in Colombia, perdendo così un’opportunità.

Al di là della propaganda elettorale, qual è la situazione reale del processo di pace con le FARC, e quale credi che ne sarà l’evoluzione dopo il ballottaggio?

B: Innanzitutto mi prendo tutta la responsabilità del pronostico. Al secondo turno sarà un successo clamoroso di Duque, il candidato della destra. La situazione attuale del processo di pace è in chiaroscuro: da un lato si è creato un blindaggio istituzionale, per cui dubito che la dichiarazione della destra di “hacer trizas” (letteralmente, stracciare) l’accordo venga messa in atto (sebbene ci saranno aggiustamenti). Dall’altro, la messa in marcia dell’agenda politica che faceva parte dell’accordo è in parte lettera morta: la campagna elettorale è arrivata come un macigno e non si sono mantenuti gli impegni con le FARC per quanto riguarda i progetti produttivi nelle zone di concentrazione, nè si è messa in marcia la giustizia transizionale, nè si è garantita la penetrazione dello stato nelle zone “contese” (la frontiera agricola, i territori speciali, le zone in disputa tra attori illegali, le aree rurali disperse ecc), nè si sta garantendo l’agibilità politica nelle comunità (stiamo vivendo uno stillicidio di uccisioni mirate contro chi sta facendo lavoro comunitario). Credo che l’occasione di trasformare il “campo” si sia persa definitivamente, ma non mi aspetto nemmeno un cambio radicale del nuovo governo.

T: L’implementazione degli accordi é stata lenta e farraginosa, però non ho dubbi che il Presidente Santos abbia cercato di spingere al massimo con determinazione e lealtà. Dal lato della FARC, c’è un’ala più politica cosciente delle sfide che attendono l’organizzazione per riuscire ad essere accettati da parte di una cittadinanza che in buona parte li disprezza. C’è poi un’ala più militare che non ha avuto alcun problema a mostrare arroganza e spregiudicatezza durante il processo di pace. É in parte grazie alle dichiarazioni irresponsabili di questa parte che il Fronte del “no” ha potuto mobilizzare una buona parte dell’opinione pubblica contro gli accordi di pace. Se poi, membri di quest’ala si fanno beccare dalla DEA a negoziare un invio di cocaina al cartello di Sinaloa, allora siamo proprio alla frutta.

Oltre alla pace, su quali altri nodi tematici si è giocata la campagna elettorale?

B: La campagna non si è giocata sulla pace, perché il conflitto è un fenomeno rurale e oramai meno del 20% della popolazione vive in campagna. L’accordo con le FARC è stato il capitale di De la Calle, che lo aveva firmato, e lo ha usato in campagna elettorale, ma non ha pagato. La destra ha naturalmente fatto la campagna contro l’accordo, con la retorica del Venezuela e del consegnare il paese alle FARC (il cui bottino elettorale è stato ridicolo naturalmente). In realtà i temi sono stati quasi tutti economici: la strategia di rilancio dell’economia dopo la fine dell’auge delle materie prime, la riforma tributaria, la riforma dell’università, il diritto delle comunità di decidere sui grandi progetti per la generazioni di energia o di estrazione mineraria (tema caldo perché la Colombia si è imbottita di Trattati di partenariato internazionale). Un altro tema chiave è stato quello della sicurezza, per la penetrazione dei cartelli messicani in Colombia e gli omicidi di chi fa lavoro comunitario (una vergogna di cui non si parla internazionalmente).

T: Da parte della coalizione di destra si promettono passi indietro sul riconoscimento dei diritti di minoranze come i gruppi LGBT. Sul fronte produttivo, si è posta molta enfasi sullo sviluppo del settore petrolifero e minerario, aprendo al fracking, e senza enfatizzare con la dovuta insistenza l’introduzione e rafforzamento di standard sociali e ambientali esigenti, che invece le imprese di punta in questi settori a livello internazionale hanno introdotto. Il rischio è che di fronte al lassismo di una certa base, i lanzichenecchi decidano di discendere sul paese! In relazione al settore agro, dato che i grandi latifondi hanno sostenuto questa coalizione, sul tema della distribuzione delle terre non penso che ci saranno grandi innovazioni. Dal punto di vista delle relazioni internazionali, continueranno le buone relazioni con gli USA, mentre è immaginabile che la luna di miele di questi anni tra il resto della comunità internazionale e la Colombia entri in una fase un po’ più tellurica, soprattutto nel caso in cui si inizino a smontare gli accordi di pace.

Purtroppo in alcuni ambienti e con spiacevole leggerezza, un certo stereotipo abbina ancora automaticamente Colombia e narcotraffico. È vero tuttavia che alcuni “attori paralleli” (non solo narcos, ma anche i paramilitari ad esempio) continuano a portare avanti le loro attività. Che peso hanno avuto in queste elezioni?

B: Considerevole. Anche se la stigmatizzazione è fastidiosa, oggettivamente il narcotraffico è in auge, e l’estensione degli ettari messi a produzione di coca, marijuana e affini è ai massimi secolari, se consideriamo i dati dal 2001. Dall’accademia abbiamo sottolineato dal 2012 che lo Stato avrebbe dovuto compiere uno sforzo di presidiare i territori sotto controllo fariano, entrando con la forza pubblica e con investimenti per colmare il ritardo storico, tanto infrastrutturale come di accesso ai diritti sociali (istruzione, sanità, casa ecc). Non lo ha fatto e queste zone sono adesso terra di scontro fra “messicani” che si comprano eserciti privati, dissidenza delle FARC, ELN, Autodefensas Gaitanistas (ex paramilitari). Un disastro.

T: Le bande criminali, che sono riuscite a saldare ex paramilitari, membri di guerriglie fuoriusciti dalle loro organizzazioni e narcotrafficanti puri, esercitano un certo potere territoriale, particolarmente in certe regioni del paese. Non ho dati puntuali sotto mano, tuttavia, per poter quantificare fino a che punto abbiano influito certi gruppo illegali in quest’occasione. Tuttavia, certi messaggi scambiati nei social media tra membri delle basi in relazione a certe campagne usano un discorso che ha chiare parentele con una certa cultura paramilitare, da un lato, o che fa eco ai movimenti guerriglieri, dall’altro.

La situazione degli equilibri politici in Colombia è delicata, così come quella italiana. Senza eccedere in paragoni evidentemente forzati, uno dei temi comuni (sia in campagna elettorale, sia ora che si tratterà di fare dei governi) sarà relativo a tagli e gestione della spesa pubblica. In che direzioni credi che andrà il nuovo governo?

B: Sulle linee generali, dipende da cosa succede al prezzo del petrolio, dal livello delle turbolenze sui mercati finanziari internazionali, e dal mantenimento degli impegni degli organismi internazionali sul finanziamento del post-conflitto. Tuttavia, sui tre fronti sono moderatamente ottimista. Una strategia di austerità sarebbe suicida perché le proteste sociali saranno in aumento per i prossimi anni, quindi prevedo che seguiranno il solito libretto pro-investitori internazionali, con un contenimento del tasso di crescita della spesa, cercando di seguire la “regla fiscal”. Nello specifico, faranno una riforma delle pensioni e una nuova riforma tributaria, per alleggerire il carico fiscale alle imprese, aumentare le imposte indirette e introdurre una tassazione progressiva sulle persone. Parte della pressione verrà dall’adesione recente all’OECD.

T: Ad oggi, sembrerebbe che la vittoria della destra sia imminente. Anche se nominalmente il candidato della destra è un candidato pro-mercato, non penso, tuttavia, che con il nuovo governo si riescano a scalfire le posizioni di privilegio sul mercato interno e mi sembra complicato che si riescano a fare passi in avanti nella costruzione di un welfare state in tutte le regioni del paese, data l’attuale situazione fiscale. Per concludere, il panorama si complica per la simpatia di una certa destra per le promesse di una certa trickle-down economics, note promesse da marinaio.

Bogotà è rinomatamente il motore del Paese, e in qualche modo fa caso a sé. Mi hanno molto colpito, tuttavia, alcuni risultati “locali”: mi riferisco in particolare alla vittoria di Duque a Medellin, arrivato davanti a un antioqueno doc come Fajardo. Si tratta di un “immobilismo” legato al potere ancora gestito dall’ex presidente Uribe, oppure ne dai una lettura diversa?

B: La vittoria di Duque a Medellin e Antioquia (la regione) era ampiamente prevista. Duque è il candidato di Uribe, e Antioquia è un feudo storico dell’uribismo. Fajardo era forte nella regione, infatti ha preso 500 mila voti in più di Petro (731 mila contro 238). La lettura da fare è diversa: innanzitutto la vittoria di Fajardo a Bogotá è estremamente rilevante e si deve al buon lavoro del partito Verde, tuttavia la mappa del voto a Bogotá riflette la segregazione urbana, con il sud povero a votare per Petro e il Nord Est ricco per Duque, mentre l’Occidente ha votato Fajardo. Infine, la sconfitta di Fajardo (che per 230 mila voti non passa al secondo turno) si deve all’ingenuità politica: Fajardo era debolissimo nella regione Caribe, dove si sono decise le ultime elezioni, rispetto a Petro. La strategia corretta sarebbe stata mettere un politico della Costa come vicepresidente, invece optarono per Claudia Lopez, che è molto “bogotana”, in un paese dove le recriminazioni storiche contro il centralismo ha portato a un disprezzo verso i “rolos” (bogotani). Questo ha permesso a Petro di passare al secondo turno.

T: A Bogotá hanno vinto i Verdi con il loro voto di opinione e Petro ha perso nella sua propria città. Fajardo, d’altra parte, ha perso nella sua, città molto più conservatrice e scettica nei confronti del processo di pace. Non penso che il problema sia un certo immobilismo politico. Penso che il problema sia la cultura politica in certe regioni del paese. Ero in un taxi a Medellín giusto prima del plebiscito. Il taxista stava ascoltando la radio e diceva peste e corna dei guerriglieri che si stavano smobilizzando. Mi sono permesso di dirgli che anche i paramilitari avevano commesso un sacco di orrori e si accertò un processo di smobilitazione nei loro confronti. Il tassista si girò, mi guardò e disse: “Ha ragione. All’inizio i paramilitari eliminavano solamente drogati, prostitute, senzatetto e comunisti. Poi, si sono messi nel narcotraffico e da lí in avanti hanno perso la retta via.” No comment!

Da ultimo, il ruolo di giovani e donne. Di queste ultime si è percepita una certa mancanza nella corsa presidenziale, in un Paese ancora evidentemente a forte dominio maschile. Per quanto concerne i giovani, invece, si è parlato di una loro specificità e voglia di cambiamento che li avrebbe portati ad appoggiare “in massa” Gustavo Petro: sei d’accordo? E in che direzione pensi che vadano i giovani e il Paese rispetto alla classica dicotomia conservatorismo/progressismo?

Dissento. A parte Vargas Lleras (uno dei grandi sconfitti), tutti avevano un ticket “donna” come vicepresidente. Si tratta di un passo avanti significativo. I giovani non hanno appoggiato in massa Petro, si sono divisi equamente tra Petro e Fajardo, con una guerra aperta per tutta la campagna elettorale che in ultima istanza ha beneficiato la destra. I giovani sono moderatamente progressisti, ma in realtà la dinamica riflette molto le specificità territoriali: molto di sinistra a Bogotá, molto di destra a Medellin. In generale, ragionare in termini generazionali in politica è una sciocchezza, in Colombia come in tutto il mondo. Poteva avere un senso nel ’68, ma siamo nel 2018.

T: Non ho dati esatti, però ho l’impressione che il voto giovanile sia stato determinante per il voto a Fajardo, candidato del Partito Verde. É possibile che in centri urbani come Bogotá, i giovani siano molto più progressisti, però questa non é necessariamente una costante nazionale. Ci sono per di più variazioni tra i differenti strati sociali e gli strati più bassi non necessariamente optano per un populismo di sinistra se hanno l’opzione di un populismo di destra.