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Anticrisi, una manovra di classe

Perché in tempi di crisi il governo sceglie di ridurre la domanda aggregata invece di espanderla? Il paradosso di Tremonti si spiega guardando i veri contenuti della manovra: a sostegno del proprio serbatoio elettorale di riferimento

Perché il governo, di fronte ad una crisi sempre più grave, non realizza un vero intervento anti-ciclico? Come spiegare l’ostinazione del ministro Tremonti a negare la riduzione delle imposte sui redditi medi e bassi da lavoro e da pensione? La ragione ufficiale è nota: la necessità di evitare di essere puniti dai mercati, via aumento dei tassi di interesse sui titoli di Stato, dato il nostro pesantissimo debito pubblico. È una ragione in una certa misura fondata. Tuttavia, la spiegazione ufficiale non regge: in una prospettiva di prolungata recessione, di fronte al rischio di depressione, per rendere sostenibile il debito pubblico, puntellare il Pil è più importante che tentare, inutilmente, il controllo del deficit.

L’obiezione è conosciuta e condivisa dal ministro Tremonti. Allora, perché il ministro dell’Economia ha fatto approvare al Consiglio dei ministri in 10 minuti un decreto anti-crisi che, caso unico nella storia, riduce la domanda aggregata, invece di espanderla (ossia, ha un effetto migliorativo dei saldi di finanza pubblica invece di peggiorarli per sostenere i consumi e gli investimenti)?

La risposta è semplice: il decreto in corso di approvazione alla Camera ha effetti molto diversi da quelli “bollinati” dalla Ragioneria Generale dello Stato, come erano diversi gli effetti dei decreti di finanza pubblica convertiti in legge prima dell’estate. È, in realtà, anti-ciclico, in quanto riduce in modo significativo le tasse ad una parte dei contribuenti. Lo stimolo all’economia il ministro lo realizza attraverso due interventi complementari: il primo è l’invenzione di maggiori introiti da accertamento per i redditi da lavoro autonomo, impresa e professioni nel corso del 2009 per quasi 2 miliardi di euro. Un importo assolutamente irrealistico, come risulterà evidente a consuntivo (qualcuno si assumerà la responsabilità dei risultati?). Il secondo canale di stimolo dell’economia passa per lo smantellamento delle misure anti-evasione approvate nella scorsa legislatura, la revisione per via amministrativa degli studi di settore e l’introduzione di un paio di modifiche alle norme sull’accertamento che lasceranno alle imprese ed ai lavoratori autonomi la massima discrezionalità nella scelta delle imposte da pagare. Complessivamente, tra maggiori entrate da accertamento inventate e perdita di gettito da allargamento dell’evasione prodotta dall’insieme degli interventi da giugno ad oggi, la differenza tra manovre formali ed effettive è quasi 1 punto percentuale di Pil, in larghissima misura a beneficio dei lavoratori autonomi, delle imprese e dei professionisti. In chiave populista, i lavoratori dipendenti, i pensionati ed i precari poveri ricevono qualche briciola attraverso la social card, il bonus famiglie, qualche sussidio di disoccupazione in deroga. I redditi bassi e medi di lavoratori dipendenti e pensionati non hanno nulla.

L’operazione di Tremonti è indubbiamente abile sul piano politico: un intervento ufficialmente iper-rigorista, a imperitura prova delle capacità di statista del nostro ministro, coniugato con la tutela dei serbatoi elettorali di riferimento della destra. È un’operazione apprezzata dai diretti interessati, i quali per riconoscenza accettano di essere fuori, come categorie di contribuenti, dal bonus famiglia. Il patto implicito sottostante alle misure di Tremonti prevede, infatti, l’esclusione dei redditi da lavoro autonomo, di impresa e professionale dagli interventi di sostegno ai redditi in cambio della sostanziale legittimazione all’evasione.

Per quanto brillante in termini politici, la scelta di Tremonti è perdente in termini economici perché è fortemente regressiva sul piano della redistribuzione del reddito: certo, anche il piccolo commerciante, il piccolo artigiano ed il giovane professionista potranno autoridursi il conto con il fisco, ma la stragrande maggioranza delle risorse perse dal Bilancio dello Stato si concentrerà nelle mani di pochi (qualche centinaia di migliaia) medi e grandi evasori i quali non potranno che dare un contributo marginale alla domanda interna. In sintesi, tanti potranno nascondere al fisco una quota maggiore di redditi che, però, in un futuro prossimo si contrarranno più del risparmio di imposte autodeterminato, portando così anche per essi ad una diminuzione di risorse disponibili.

Il patto implicitamente stretto con il lavoro autonomo, la piccola impresa, i professionisti è soltanto una delle articolazioni della politica economica corporativa e populitsta portata avanti da Tremonti e accolta da interessi economici miopi. Le altre articolazioni fondamentali riguardano le grandi imprese bancarie e manifatturiere, sia private che pubbliche (con buona pace di Robin Hood), per le quali, in cambio di supporto politico e mediatico, si smantellano le riforme pro-concorrenza (dalla portabilità dei mutui alla class action, dal ridimensionamento delle authority di regolazione dei mercati alla protezione dalle Opa ostili, solo per fare qualche esempio) e si rimuovono i limitati argini posti al lavoro precario (dalla cancellazione del dispositivo per evitare la firma di lettere di dimissioni in bianco alla eliminazione della responsabilità solidale del committente e dell’appaltatore per il pagamento di contributi sociali ed imposte).

Un patto corporativo viene offerto anche ai sindacati confederali nella trattativa per la riforma del modello contrattuale, oltre che nel cosiddetto decreto anticrisi: rafforzamento dei poteri e dello status delle burocrazie sindacali nella gestione in esclusiva di funzioni pubbliche (dalla formazione all’indennità di disoccupazione) e aumento dei redditi dei lavoratori più protetti, in cambio dell’abbandono del terreno negoziale e dell’accettazione di una generalizzata compressione dei salari.

La politica economica corporativa, tipica della tradizione fatta propria da Tremonti (“Dio, Patria, Famiglia”), non funzionerà: le contraddizioni e le disuguaglianze diventeranno rapidamente insostenibili. Certo, come la storia insegna, dipenderà dalle forze riformiste (politiche, sociali, culturali) se la rottura del precario equilibrio corporativo instaurato porterà ad un ulteriore restringimento degli spazi di democrazia o ad una maggiore tutela dei diritti e delle libertà e ad una ripresa della crescita economica condivisa.

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