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Una breve storia di lunghe guerre. E delle alternative

Dalla guerra in Palestina a quella in Ucraina, le lunghe e intricate radici dei conflitti, l’impegno di chi ha provato a uscirne, l’importanza di coesistere e cooperare per una sicurezza comune. Qualche lezione per la manifestazione del 5 novembre.

Ho letto su un giornale una cronaca del giorno d’oggi (il manifesto, 12 ottobre 2022, Michele Giorgio, “Israele a caccia di Tamimi, sigillato il campo profughi”). Si tratta di questo: Odai Tamimi, palestinese, è un cosiddetto ‘lupo solitario’, cioè un militante non connesso a organizzazioni politiche o combattenti maggiori. Egli avrebbe sparato a due ‘nemici’ al posto di blocco di Shuafat, presso Gerusalemme: una recluta israeliana e una guardia privata. Nell’articolo si spiega che mentre il mercenario (la parola è mia) è rimasto ferito, il soldato, colpito a morte, è a ben guardare una ragazza di leva di 18 anni, Noa Lazar. L’azione bellica di Tamimi sarebbe stata la risposta all’uccisione, tra il venerdì e il sabato precedenti, di quattro ragazzi palestinesi, tra i 14 e i 17 anni, e inoltre alla morte di un bambino palestinese di 12 anni, Muhammad Samundi, colpito a Jenin da un proiettile all’addome, il 28 settembre. Il giornale offre una visione dei fatti e degli antefatti. La soldata di 18 anni, lo scolaro di 12, l’esultanza della fossa dei leoni palestinese, il più contenuto compiacimento dell’omologo partito israeliano per la vendetta in seguito all’eccidio dell’anno scorso di una ventina di giovani a Tel Aviv.

1. Si tratta di effetti recenti di una guerra che ha avuto inizio oltre settanta anni fa e che forse non finirà mai. Yitzhak Rabin, gran vincitore di un capitolo di questa guerra, allora primo ministro in carica d’Israele, è ucciso da un estremista israeliano nel 1995 perché cerca proprio di trovare una soluzione di pace. Entrambi gli eserciti (quello regolare e l’altro) devono combattere e combattere senza requie in questa guerra e morire per essa, con ragioni importantissime: sicurezza e patria per gli uni, patria e libertà per gli altri. Rabin, quel dissennato, pensava che tali ragioni potessero coesistere. 

Lentamente, le cose cambiano; con ottimismo alcuni pensano che alla fine del primo secolo di guerra, una soluzione sarà trovata. Ciascuna delle due parti ritiene però che la soluzione finale sarà la sconfitta del nemico e ciò equivale ad allontanare ancora di anni una pace qualsiasi, poiché entrambe le parti la vorrebbero giusta e vittoriosa. 

In una recente manifestazione per la pace, presso l’ambasciata russa di Roma, in nome dell’Ucraina invasa, un politico italiano, Luigi Manconi, ha detto che una persona di pace – e non distingueva tra pacifisti e nonviolenti – dev’essere candida come una colomba e astuta come un serpente. Non sono parole originali; le aveva già dette Cristo (Matteo 10,16) in forma più semplice.

Pace di certo è una parola grossa: forse basterebbe dire: armistizio e provarci a farlo, o soltanto, tregua e metterla in atto senza finzioni, fidandosi per una volta dell’avversario. A Noa e al piccolo Muhammad sarebbe bastato ancora di meno, un breve giorno di “cessate il fuoco”, tanto per tornare a casa, entrambi, per passare un altro giorno a giocare con i compagni di scuola l’uno, a scherzare con i giovani amici dell’ultima gita l’altra, ad amoreggiare un pochino; e poi a tavola, a pranzo, con le amate famiglie. 

2. La guerra di Palestina, la guerra di Noa e Muhammad, è per noi, gente ricca dell’Europa forte, una guerra dimenticata (o, per essere più precisi, secondaria). Pensiamo, ci arrovelliamo, cerchiamo soluzioni soprattutto per un’altra guerra, quella d’Europa, quella della Russia che ha invaso l’Ucraina e dell’Ucraina che soffre per cinque milioni di profughi espatriati, molti altri milioni di sfollati, le città distrutte, centinaia di morti, migliaia di feriti. I più vecchi di noi ricordano la guerra di Mussolini, Armir compresa, la sconfitta, la resistenza, la fuga dei reali, le deportazioni, la caccia agli ebrei: tutto terribile, ma tutto simile quanto avviene oggi a Gerusalemme o nel Donbass. 

I russi, come ben sappiamo, preferiscono non parlare di guerra aperta, ma scelgono di riferirsi – quando lo fanno – a “operazione militare speciale”. Qualcun altro dice che la guerra è cominciata il 24 febbraio, otto mesi fa; i più attenti osservano che l’antefatto è di molti anni precedenti, addirittura del 2014, con la riconquista – i russi non dicono così – della Crimea. 

Qualcuno di noi ricorderà, sempre che abbia ripassato con attenzione la storia patria, una più lunga vicenda di Crimea. Senza prendersi carico dei fatti e dei misfatti di veneziani e genovesi che imperversarono a lungo da quelle parti, è quasi obbligatorio ammettere che subito prima della nostra seconda guerra d’indipendenza, Camillo Benso di Cavour mandò i bersaglieri a combattere i russi per riconquistare la Crimea in nome del Sultano dei Turchi e dei suoi alleati inglesi e francesi (pur essendo la vittoria del sultano argomento di scarso valore per gli interessi diretti di Torino) e assicurarsi così una poltroncina al Piemonte (all’Italia) al tavolo della Pace, utile premessa al premio: la guerra franco-piemontese contro l’impero austriaco, padrone della Lombardia. 

Sessanta anni dopo su per giù – saltiamo altri passaggi – ci fu la pace di Brest Litovsk, nell’allora Russia Bianca, nell’odierna Bielorussia: da un lato del tavolo della pace Lenin e Trotsky e dall’altro un pugno di arciduchi e feldmarescialli soprattutto tedeschi e austriaci, ma anche maggiorenti di Ucraina, Polonia, Stati baltici. Lenin e i suoi rinunciarono a tutti i domini occidentali per avere la pace a qualunque costo, rimandare a casa i soldati organizzati nei Consigli, quei soldati ormai restii a combattere e morire per qualche zar (e vincere all’interno: rivoluzione e guerra civile). Tutto quello che avevano dovuto cedere tornò ai loro successori con un bel margine di guadagno con la grande guerra patriottica (secondo la dizione russa corrente). Era il grande campo socialista mondiale in costruzione o era l’allargamento a ovest dell’impero zarista? Scoppia la guerra della “soluzione finale”. Milioni di morti; campi di sterminio, distruzioni immani. A Jalta , in Crimea, si rifecero i conti.

A Jalta, in Crimea, 25 anni dopo Brest Litovsk, tutto sembra in procinto di tornare come due guerre fa; Lenin e Trotski certo non ci sono più. C’è però ancora Stalin, il vincitore; con gli altri vincitori si spartisce il mondo. Altri 45 anni o poco più e la caduta del muro di Berlino fu per tutta Europa un segnale di un tempo nuovo. La spartizione è superata, stravolta. Tutto quello che era stato perduto ai tempi di Lenin e poi ripreso con la guerra patriottica, fu lasciato di nuovo, per volontà dei popoli: i polacchi, i romeni, i baltici, gli ucraini e molti altri. 

3. Passa il tempo, 44 anni per essere precisi e il mondo alla caduta del muro è tutto diverso. L’India è diventata indipendente e anche la Cina, libera e per di più comunista. Decine di altri paesi sono ormai indipendenti, finalmente liberi, non più colonie degli europei. Perfino l’Italia fa un esperimento tardivo e non propriamente riuscito per riaccompagnare la Somalia alla libertà. I diversi imperi di Francia, Belgio, Gran Bretagna, Portogallo tramontano, uno dopo l’altro. Resiste l’Urss che sembra non essersi del tutto accorta di quello che è avvenuto. Ci sono altrove i Beatles e la minigonna, la pillola e le libertà sessuali, il turismo di massa e i jet commerciali supersonici, la tv e il cinemascope, lo sbarco sulla luna e molto altro ancora. 

A Mosca è tutto invece lentissimo; l’unica modernità concessa è la 124, lento e ingombrante modello torinese di auto che diventa oggetto di desiderio per la borghesia in Urss con il nome di Zhigulì. La fabbrica è a Togliattigrad, sul Volga. Non tutti i russi, non tutti i sovietici, però si accontentano di ricopiare l’american way of life. C’è chi vuole di più: libertà politiche per esempio. Così nel 1989 trent’anni fa o poco più, si svolge un congresso risolutivo che affronta molti problemi e non riesce a risolverli. 

4. Il Congresso del Popolo si svolge tra il 25 maggio e l’8 giugno del 1989. In un’altra parte del mondo, in un continente lontano, però ai confini dell’Urss, sono proprio i giorni di Tienanmen, il tentativo di democrazia cinese. Qui, a Mosca, i temi sono glasnost e perestrojka, come dire, con parole rozze, chiarezza e riforme. C’è un altro tema, sottinteso, la democrazia. Si vota sul serio, una volta tanto e all’attenzione del pubblico. I delegati, più di duemila, per una volta credono fino in fondo in quel che fanno. 

In molti preferirebbero discutere prima ed eleggere poi i massimi dirigenti, compreso il segretario del partito (o presidente dell’Urss che sia). Nelle organizzazioni umane, quando regna il disaccordo, si discute sempre di ordini del giorno e di regolamenti. Così si vota e prevale il sistema solito. In parte, in modo imprevisto, irrituale, si ottiene qualcosa. Il voto è libero, almeno un po’ e in modo sorprendente l’uomo forte della Repubblica russa è fatto fuori. Si tratta di Eltsin che è poi recuperato con la rinuncia di un eletto siberiano. Detto tra parentesi, Eltsin se la lega al dito. Gorbaciov è rieletto segretario generale e presidente dell’Urss, anche se sono in molti a chiedere che le cariche siano sdoppiate. A occhio, la novità non sta tanto nella richiesta in sé, ma che la si affermi in modo alto e forte. 

Tutta la discussione è di tipo nuovo. Nella ricostruzione che si legge in un libro edito dall’Unità poco dopo, L’ottantanove di Gorbaciov, emergono entrambi i temi centrali, chiarezza e riforme, riproposte sotto forma di problemi mai risolti: le nazionalità, i rapporti con Mosca, chi comanda e se e i suoi poteri siano esclusivi. Tutto questo emerge nei casi del Nagorno Karabakh e cioè il dissidio tra due repubbliche, quella degli azeri e quella dagli armeni per una terra contesa e soprattutto negli avvenimenti di Tbilisi. Nella capitale della Georgia l’esercito aveva soffocato, solo pochi mesi prima, una manifestazione di massa con decine di vittime e centinaia di feriti. Il primo a parlare al Congresso del Popolo è V. P. Tolpezhnikov, direttore di sezione del I° ospedale di pronto soccorso, Riga e inizia così: “Prima di dare inizio alla seduta chiedo che si onori la memoria dei caduti di Tbilisi”. (Tutti si alzano in piedi e osservano un minuto di silenzio). In un certo senso, il dado è tratto. I fatti di Tbilisi diventano un argomento centrale del congresso.

5. Gorbaciov (il nostro Gorby, che qui vogliamo ricordare, a poche settimane dalla dipartita) in un suo intervento riportato dal libretto edito dall’Unità, è aperto e conciliante. Tocca soprattutto due temi: unità dell’Urss e libertà delle repubbliche e dei cittadini.  “Ora io vorrei rispondere alle domande, senza andare nei dettagli (….) Si può porre il problema in questo modo: (se) l’esercito debba essere impiegato per il ripristino dell’ordine e possa compiere azioni come quella di Tbilisi? (…) Dobbiamo fare di tutto perché ad azioni come quella di Tbilisi non si arrivi mai (…) Ci chiedono come sono arrivate le truppe. Sapete, credo che quando chiamiamo le truppe in aiuto della milizia è perché non avvenga quello che è successo a Sumgait, per mantenere l’ordine in qualche modo”. Sumgait – va spiegato – è una città industriale non lontana da Baku, capitale dell’Azerbaigian. Vi era stato un pogrom di armeni che vi abitavano in maggioranza, con decine o forse centinaia di vittime, fino all’arrivo risolutore e a suo modo pacificatore dell’esercito, nell’aprile del 1988, un anno prima del Congresso del Popolo.

Gorbaciov prosegue:  “Dobbiamo trovare meccanismi giusti perché a nessuno venga in mente che c’è chi pensa di muovere l’esercito per imbrigliare il popolo. No. Ma per mantenere la stabilità, quando è necessario, facciamo ricorso a tutte le nostre forze, politiche e organizzative, alla milizia all’attivo, al popolo, a tutti” (….) Dobbiamo far sì, compagni, che qualsiasi persona, quale che sia la sua nazionalità e il suo luogo di residenza, si senta a suo agio dappertutto: in Russia, nelle repubbliche baltiche, nel Caucaso, e così via.  Se avremo un approccio diverso, se adesso cominceremo a dividere i nostri popoli e le nazionalità, a fissare delle frontiere, se cominceremo a tracciare dei solchi nel nostro paese, intraprenderemo una via disastrosa, ve lo assicuro”. 

6. La via disastrosa, temuta da Gorbaciov, è diventata un’autostrada, percorsa da febbraio di quest’anno da centinaia di carri armati, sorvolata da missili e droni. 

Non ci fu invece alcuna risposta all’altro suggerimento gorbacioviano: “Tutto potrà essere risolto soltanto attraverso il rispetto, l’uguaglianza, una maggiore sovranità, l’interrelazione, l’ampio sviluppo e lo scambio delle culture, delle lingue, la collaborazione e la cooperazione”. Un suggerimento per Mosca, per Kiev e Leopoli, per Gerusalemme.

Ora, passati altri vent’anni, altri trenta, Putin – un nome per tutti – vuole giocare una nuova guerra, per riprendere quell’impero che crede sia stato dei suoi.