Il sistema fiscale disegnato dal governo è iniquo e strizza l’occhio agli evasori. Ricchi e poveri continuano a pagare le stesse aliquote, senza alcun tentativo di realizzare la progressività fiscale
Anche quest’anno nella manovra di bilancio il fisco la fa da padrone. La parte preponderante della manovra è, infatti, costituita da quattro interventi di natura fiscale.
Innanzitutto, la neutralizzazione della clausola di salvaguardia che avrebbe comportato l’aumento dell’Iva e delle accise a livelli difficilmente sostenibili, per la quale il Ddl di Stabilità 2016 stanzia risorse per 16,8 miliardi di euro nel 2016 e ulteriori 11,1 e 9,4 miliardi nel 2017 e 2018 (comunque insufficienti a eliminare definitivamente il problema); in secondo luogo l’abolizione di Tasi sulla prima casa, Imu imbullonati e Imu agricola, con una spesa di circa 4,7 miliardi nel 2016; ancora, la proroga, sia pure in misura ridotta rispetto al 2015, della decontribuzione sui nuovi assunti (800 milioni di spesa nel 2016, il doppio l’anno successivo); infine, la riduzione di tre punti dell’Ires sulle imprese, per una spesa di 3,5 miliardi nel 2016 (condizionata alla concessione di ulteriori margini di flessibilità da parte della Unione Europea, in mancanza dei quali la misura partirà dal 2017).
Altri interventi, di minore, ma non trascurabile, entità riguardano la possibilità di applicare una maggiorazione del 40% sugli ammortamenti (600 milioni di spesa nel 2016, 1 miliardo nel 2017), l’introduzione di un regime di tassazione separata sui premi di produttività (400 milioni di minori entrate nel 2016, poi 600 milioni), l’estensione del regime dei minimi per gli autonomi, fino all’abolizione dell’Irap in agricoltura.
La preoccupazione generata da tali misure è forte. Innanzitutto, perché il finanziamento delle predette misure avviene utilizzando tutti i margini che le regole europee possono concedere e, ciononostante, non si sono potute evitare clausole di salvaguardia su Iva e accise, che, anche dopo la manovra, valgono 2 miliardi di euro per il 2016, 15,1 miliardi per il 2017 e 19,6 miliardi per il 2018. In secondo luogo, perché, lungi dal semplificare e ricondurre a unità il sistema, si procede ancora con l’introduzione di regimi speciali e forme di tassazione separata, senza attenzione alla ricostruzione della capacità contributiva complessiva dell’individuo e al principio di progressività. Infine, perché altamente opinabile e rischiosa è la scelta di focalizzare tutti gli sforzi su queste riduzioni fiscali.
In effetti, come anche molti degli economisti più ortodossi hanno cercato di spiegare al Governo, in questo momento sarebbe più utile ridurre le imposte sul lavoro, su cui continua a scaricarsi una parte preponderante dell’onere fiscale, piuttosto che sulla proprietà. Inoltre, proprio l’esperienza degli ultimi anni ha evidenziato la correttezza delle conclusioni dei modelli di base macroeconomici, secondo cui i moltiplicatori della spesa pubblica sono superiori a quelli fiscali e i tanto decantati “effetti non keynesiani” del consolidamento fiscale (ovvero la possibilità che una stretta fiscale provochi un aumento della crescita economica) sono utili al più solo per conquistare una cattedra universitaria. Infine, perché appare palese, nei confronti delle imprese, il tentativo di incentivare crescita, occupazione e investimenti puntando solo sul basso costo del lavoro e sulla riduzione delle aliquote, senza definire una vera politica industriale.
Rimane poi il fatto che tutti gli interventi fiscali si muovono su un piano che si fa fatica a ricondurre al dettato costituzionale (articolo 53) che afferma che “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva” e che “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Continuano a dominare, come detto, forme di imposizione separata e proporzionale, in luogo di un’unica forma comprensiva di tutte le fonti di reddito e progressiva.
Lo stesso vale per il patrimonio, cosicché ricchi e poveri continuano a pagare le stesse aliquote, senza alcun tentativo di realizzare la progressività e realizzare una valutazione complessiva della capacità contributiva, né in termini di reddito né di ricchezza. Anche la tassazione dei consumi, sulla quale si è scaricata, anche su indicazione comunitaria, buona parta dell’aumento dell’imposizione fiscale negli ultimi anni, e che è stata fatta oggetto delle clausole di salvaguardia previste in bilancio, va bene al più per incamerare risorse, ma trascura completamente il dettato costituzionale, essendo regressiva e penalizzando i ceti più poveri.
Sembra poi assente qualunque azione decisa volta al contrasto dell’elusione e della competizione fiscale al ribasso fra paesi (anzi, da molte parti si sostiene che il Ddl di Stabilità strizzi più di un occhiolino agli evasori, ad esempio attraverso la liberalizzazione dell’uso del contante), come pure è assente un qualunque ripensamento dell’anomalia costituita dalla sostanziale assenza in Italia – salvo che per i patrimoni di grande dimensione, che riescono comunque generalmente a eludere l’imposizione – della tassa di successione.
Anche una misura apparentemente redistributiva, come l’aumento, a partire dal 2017, della detrazione per redditi da pensione, sembra una provocazione, se si considera che la spesa prevista, pari a 147 e 190 milioni nel 2017 e 2018 rispettivamente, sarebbe di gran lunga inferiore ai risparmi che deriverebbero dall’ennesimo intervento sulla deindicizzazione degli stessi trattamenti pensionistici (da cui conseguirebbero risparmi per 335 milioni nel 2017 e 747 milioni nel 2018).
I principi delle proposte di Sbilanciamoci!
Le direzioni verso cui sta evolvendo il sistema fiscale appaiono inique, andando a pesare soprattutto sul lavoro e sui ceti medi e bassi e incidendo solo marginalmente sugli ultimi decili della distribuzione di reddito e ricchezza, in Italia particolarmente sperequata anche nel confronto internazionale. La giustizia fiscale andrebbe invece perseguita a partire dal dettato costituzionale, ovvero dai principi di capacità contributiva e progressività da essa esplicitamente indicati. In tal senso è necessario muoversi in almeno quattro direzioni:
- ricostruire la capacità contributiva complessiva dei soggetti, invertendo il processo di erosione della base imponibile Irpef e rivalutando il principio del comprehensive income (reddito entrata), ovvero reintroducendo progressivamente tutte le fonti di reddito attualmente escluse dall’imposizione personale, peraltro in un contesto nel quale ormai l’amministrazione fiscale dispone di tutte le informazioni necessarie, a cominciare dagli affitti e dalle rendite finanziarie;
- ridare progressività alla struttura delle aliquote dell’imposta sul reddito, appiattite nei decenni scorsi favorendo doppiamente i redditi alti, sia attraverso l’introduzione dei regimi di tassazione separata, sia mediante la riduzione delle aliquote marginali;
- affiancare alle imposte sul reddito imposte non proporzionali, bensì progressive, sulla ricchezza, che ricostruiscano il patrimonio complessivo dei singoli contribuenti; in tale contesto, reintrodurre una tassazione effettiva su successioni e donazioni;
- contrastare efficacemente non solo l’evasione, ma anche l’elusione fiscale e la speculazione finanziaria, anche facendosi carico del rilancio di iniziative internazionali volte a combattere la competizione fiscale al ribasso. In tal senso, l’azione di contrasto all’elusione, coordinata a livello europeo, dovrebbe recuperare come base imponibile fiscale anche quelle attività che attualmente sono riuscite a sfuggire a qualunque imposizione a causa dell’immaterialità del prodotto e dell’indeterminatezza della localizzazione geografica della prestazione (servizi forniti attraverso la rete): anche a livello di tassazione d’impresa, è ormai possibile, se vi fosse reale volontà, il perseguimento in tempi brevi di una riduzione delle aliquote finanziata operando una redistribuzione del carico fiscale a spese delle imprese che eludono o evadono.
Complessivamente, le proposte di Sbilanciamoci! in ambito fiscale per il 2016, coerenti con le direttrici di cui sopra, operano secondo il seguente schema:
- il prelievo fiscale non viene ridotto perché serve a finanziare i servizi pubblici, che versano in condizioni gravissime; i risparmi originati dall’efficientamento della spesa devono essere reinvestiti per migliorare ed espandere i servizi pubblici;
- va operata una grande redistribuzione del prelievo, a parità di gettito, mediante una triplice redistribuzione dell’imposizione: dai poveri ai ricchi, dai redditi da lavoro e di impresa a patrimoni e rendita, da chi continua a fare il proprio dovere fiscale a chi finora ha pagato poco o nulla, siano essi individui, famiglie o imprese.
In un contesto in cui la politica fiscale si è mossa in direzioni molto lontane dal dettato costituzionale, il perseguimento dei principi sopra enunciati richiederebbe l’emergere di condizioni per una significativa e complessiva inversione dell’attuale status quo. Laddove tutti i comparti di tassazione sopra richiamati presentano rilevanti criticità, di seguito si illustrano tre interventi esemplificativi, il primo riguardante l’imposta personale sul reddito, il secondo l’imposta patrimoniale, il terzo l’imposta sulle società. Coerentemente con la logica redistributiva sopra illustrata, si ipotizza di utilizzare la maggior parte del saldo positivo generato dai tre interventi (8 miliardi di euro) per due interventi di riduzione fiscale (riduzione dell’aliquota Iva e aumento delle detrazioni Irpef), per una spesa complessiva di 6,5 miliardi di euro, mentre la rimanente parte andrebbe a finanziare interventi di spesa. Inoltre, rispetto al Ddl di Stabilità, verrebbero meno interventi per 10,2 miliardi di euro nel 2016, risorse che potrebbero ben più utilmente essere utilizzate in altri ambiti.