Il 24 agosto saranno quattro anni dal terremoto del Centro Italia ma nessuna ricostruzione è ricominciata nei 138 comuni del cratere. I cittadini ora sognano, sulle parole del premier, il Modello Genova. Forse anche il commissario Legnini. Ma è solo dal basso che si può guarire la ferita di fiducia.
Quando lo scorso 28 aprile a Genova è stato posato l’ultimo tratto d’acciaio del nuovo ponte (ex) Morandi, probabilmente buona parte degli italiani avrà pensato che, forse, vivere in un Paese normale è possibile. Sono serviti seicentoventi giorni per passare dalla tragedia al futuro, non pochissimi ma nemmeno troppi, in fondo. Ai confini della realtà, in un territorio montuoso a cavallo tra le Marche, l’Umbria, il Lazio e l’Abruzzo, il 24 agosto saranno ufficialmente quattro anni dal giorno in cui è cominciata una serie di scosse sismiche che ha ridisegnato la storia di decine di migliaia di persone e la geografia di almeno 138 comuni. Da allora, sostanzialmente, non è accaduto nulla: cinque decreti, varie norme inserite in altri decreti non esclusivi, cento ordinanze partorite dai commissari alla ricostruzione (quattro in quattro anni), altre ordinanze stilate e diffuse da ciascun comune coinvolto, accordi tra istituzioni e associazioni professionali. Una montagna di carta – il sindaco di Norcia, Nicola Alemanno, arrivò a stimare che, uno sopra l’altro, i documenti raggiungono circa il metro di altezza – che non ha contribuito in alcun modo a risolvere la situazione. Attualmente le persone senza casa sono 30 mila, la ricostruzione privata è ferma a un pugno di edifici, quella pubblica arranca tra i idee strane, velleità pure e semplici, fughe in avanti senza sbocchi.
Ecco, quando i terremotati dell’Italia centrale hanno appreso quello che è successo a Genova, non sono stati felici più di tanto. Si è innescato un meccanismo vecchio come il mondo, sgradevole come solo il mondo a volte sa essere: l’invidia. Perché loro sì e noi no? La sensazione che la cosiddetta strategia dell’abbandono [1] non sia soltanto una bella espressione coniata da qualche militante troppo ideologico, ma una solida realtà, un’ipoteca che questo disgraziato presente ha messo sul futuro. Vale una variazione sul tema di una metafora molto di moda: non siamo tutti sulla stessa barca, ma siamo tutti nella stessa tempesta su barche diverse.
Chiaramente le cose sono più complesse: non esistono gare a chi è stato più sfortunato e un ponte non può essere in alcun modo equiparato a un territorio di quasi ottomila chilometri quadrati. Però il paragone esiste, è nella testa dei terremotati ed è nei pensieri di un’intera classe dirigente.
Come si risolve la questione, dunque? Con il Modello Genova, che domande.
Quando si è visto che piaceva, il governatore marchigiano, Luca Ceriscioli, l’ha detto esplicitamente: «Il Modello Genova servirebbe per tutta l’Italia». Pochi giorni dopo gli ha fatto da eco il presidente dell’Anci delle Marche, nonché sindaco di Senigallia e futuro candidato del centrosinistra alle elezioni regionali previste per l’autunno: «Se anche noi avessimo avuto le stesse regole di Genova, sono convinto che oggi non ci troveremmo a quattro anni da quella tragedia, con una ricostruzione sia pubblica sia privata praticamente ancora tutta da avviare».
Sabato 2 maggio, alla vigilia della fine della fase uno del lockdown per il coronavirus, il commissario alla ricostruzione, Giovanni Legnini, convoca una quarantina di giornalisti in una conferenza stampa virtuale per illustrare il contenuto di quattro ordinanze [2]. In una di queste, c’è quella che si ritiene possa essere la chiave per far partire la ricostruzione: il taglio dei tempi delle pratiche. Attualmente la media del tempo che passa dalla presentazione all’approvazione di un documento è di 337 giorni, con il nuovo metodo di Legnini si dovrebbe passare a un tempo compreso tra i 70 e i 130 giorni. Non serve certo prendere una calcolatrice per rendersi conto che sarebbe un mezzo miracolo, ma anche qui bisogna domandarsi come una cosa del genere potrà essere possibile. L’idea è semplice: dovrà essere il progettista ad attestare di persona – sotto la propria responsabilità – che tutto il suo lavoro è stato fatto a regola d’arte, senza sbavature. L’istruttoria, in questo modo, si accorcerà inevitabilmente, anche perché ci saranno molti meno controlli da fare. Legnini, che ha una certa esperienza politica, ha accompagnato l’annuncio di questo procedimento con una precisazione essenziale: «La legalità sarà comunque la cifra di questa ricostruzione». Già, perché anche lui sa perfettamente che il taglio dei controlli può facilmente diventare un bel favore verso i non pochissimi che si sfregano le mani ogni volta che capita una tragedia, fiutando le ottime opportunità che puntualmente si presentano in ogni fase di ricostruzione.
D’altra parte, però, il problema delle tempistiche è reale: se il terremoto a L’Aquila è stato caratterizzato da un forte accentramento del potere, con ogni decisione importante che passava per l’allora capo della protezione civile Guido Bertolaso, per il sisma del Centro Italia si è preferito spargere il potere tra tutti gli enti, causando grande confusione sopra e sotto il cielo, senza tuttavia portare a situazioni eccellenti come vorrebbe il vecchio detto maoista. Né il Modello Bertolaso né il Modello 2016 hanno prodotto granché in termini di risultati concreti, ma si può tranquillamente dire che il secondo è figlio del primo, o meglio della paura di finire in mezzo a una selva di inchieste giudiziarie, come accaduto a molti di quelli che hanno avuto a che fare con L’Aquila. Il Modello Genova, non a caso nato in una città amministrata dal centrodestra, è di fatto una riproposizione di quanto fatto a L’Aquila, e in fondo l’odiatissimo (dai costruttori, soprattutto) Codice degli appalti del 2016 non era ancora nemmeno un’idea, quindi si ragionava sostanzialmente su basi diverse, alle quali si vorrebbe tornare per avere mano libera nella gestione delle varie faccende. Un discorso reso in maniera piuttosto chiara da Stefano Lenzi [3] su Sbilanciamoci!. E comunque, è bene ribadirlo una volta di più, ricostruire un ponte non è proprio la stessa cosa che ricostruire 138 comuni. Legnini sta così cercando un punto di mediazione, e anche lui si è trovato a citare testualmente il Modello Genova in conferenza stampa, salvo poi dire che si trattava di una battuta e che lui non è un fan «né dei modelli né dei pieni poteri». Fatto sta che il discorso, a suo dire, è già stato introdotto anche al presidente del Consiglio Giuseppe Conte. «Gli ho chiesto – sostiene Legnini – più poteri per il commissario limitatamente a una serie di situazioni». La risposta del governo non è ancora arrivata, ma i soliti bene informati parlano di ampi spiragli per un beneplacito finale, forse prima del prossimo mese di agosto, quando scoccherà il quarto anniversario del sisma che distrusse Amatrice, Accumoli e Arquata del Tronto.
Il problema principale dell’eventuale esportazione del Modello Genova nel cratere del terremoto è che, per l’ennesima volta, resterebbe inascoltata la voce del territorio. Posto che dall’alto non sono arrivate mai soluzioni convincenti, ormai è opinione diffusa che l’unica ripartenza possibile sia quella dal basso, ovvero a partire dai sindaci dei paesi, che di potere non ne hanno, ma sono i parafulmini per ogni situazione complessa che si viene periodicamente a creare. Il commissario Legnini, anche qui, ha trovato una soluzione mediana: creare un cratere nel cratere (una quarantina di comuni) che comprende i borghi più colpiti, i quali adesso avranno la possibilità di effettuare in house diverse pratiche che in precedenza dovevano passare per forza per le stanze degli Uffici speciali per la Ricostruzione. Una semplificazione, certo, ma manca un dettaglio: nessun comune del cratere ha le risorse umane per farsi carico di una tale mole di lavoro: parliamo di amministrazioni che hanno a disposizione uno o due impiegati al massimo, con segretari che spesso devono occuparsi di più municipi insieme, dunque già allo stato attuale sin troppo carichi di lavoro. Da qui la richiesta più importante fatta da Legnini al governo: assunzioni. Tante. Almeno duecento persone per l’ufficio del commissario, più altre da offrire ai vari comuni. E qui la disponibilità di Conte potrebbe essere molto minore rispetto al resto del discorso, anche perché si tratterebbe di non pochi pugni di dollari da mettere sul tavolo. Entrano in ballo, a questo punto, le responsabilità non leggerissime dei governatori regionali: nel caso marchigiano, ad esempio, Luca Ceriscioli ha alzato la voce in maniera violentissima contro il governo Conte quando a fine febbraio si trattava di fare ordinanze a tema coronavirus, ma non ha mai mostrato tanta veemenza quando si parlava di terremoto, governo dopo governo, commissario dopo commissario, svolta annunciata dopo svolta rinviata. È anche per questo che gli abitanti del territorio si sentono messi da parte: nessuno si è mai battuto davvero per loro, e questo in termini politici porta a un’inevitabile sfiducia verso le istituzioni (locali e non solo), oltre al dubbio che la ricostruzione non avverrà mai e che il futuro – se mai ci sarà – bisognerà costruirlo altrove, condannando un pezzo d’Italia alla scomparsa per abbandono della popolazione [4].
Al di là delle ordinanze più o meno futuribili e delle buone intenzioni sempre dichiarate in buona o in cattiva fede, l’unica maniera per affrontare davvero il problema della ricostruzione consiste nel recuperare la fiducia di chi vive nelle zone terremotate. Un’operazione difficilissima, ma non impossibile. I modelli di accentramento del potere possono ovviamente affascinare – perché mettono sul piatto la vera chimera di questa storia: l’efficienza – ma rischiano di allontanare definitivamente le decisioni che contano dalle persone che poi dovranno scontarle sulla propria pelle. Legnini chiede un’apertura di credito, dichiarandosi inoltre convinto che «saranno i fatti a riportare la fiducia». I primi segnali, a parere di cronista, sono positivi, anche perché stiamo parlando del primo commissario che ha deciso di incontrare i giornalisti, per quanto possa sembrare assurdo dirlo a questo punto. Sul futuro, però, non si possono mettere ipoteche e il vero confronto sarà necessariamente quello tra i vertici politici e le persone terremotate: è qui che manca l’anello di congiunzione. Il legame più importante di tutti, fatalmente rotto da una silenziosa attesa che dura ormai da 1.350 giorni.
NOTE
[1] http://hopassatolafrontiera.blogspot.com/2016/11/la-strategia-dellabbandono.html
[2] https://sisma2016.gov.it/2020/05/02/emanate-quattro-nuove-ordinanze-parte-una-nuova-fase/
[3] https://sbilanciamoci.info/esportare-il-modello-genova-per-far-cosa/
[4] http://www.lostatodellecose.com/scritture/lo-spettro-dello-spopolamento-terremoto-gruppo-ricerca-t3/