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Esportare il Modello Genova per far cosa?

Il premier Conte non deve ascoltare le sirene che reiterano la richiesta di duplicare il Modello Genova ovunque. Così si vuole solo mano libera, superare il codice appalti del 2016, con i conseguenti rischi di corruttela e infiltrazioni della criminalità già denunciate anche dall’Anac e dal procuratore antimafia.

Figuriamoci se non ha un alto significato simbolico la posa il 28 aprile scorso dell’ultimo tratto in acciaio dell’impalcato del nuovo ponte autostradale sul Polcevera a Genova,  dopo 620 giorni da quel 14 agosto 2019 in cui persero la vita 43 persone e nel bel mezzo di quella che è ancora la Fase 1 della pandemia da Covid 19. Da genovese d’adozione, da più di 30 anni residente in questa città di mare, una delle capitali industriali del Nord e secondo porto commerciale del Paese, condivido l’idea che questo sia un segnale potente di ritorno alla normalità. Detto questo, provo però anche un certo fastidio di fronte all’enfasi bipartisan usata nell’accompagnare questo passaggio, quando ci è si attardati a dire che aver completato quest’opera nell’arco di un anno sarebbe un’operazione miracolosa. Un miracolo che irradia la sua luce su tutta Italia – come detto dal premier Giuseppe Conte  – o quando si sente ripetere che il Modello Genova  (di progettazione, autorizzazione e realizzazione dell’opera) è ora esportabile in ogni dove e ad ogni scala di intervento.

In attesa che entro luglio il ponte sul torrente Polcevera possa essere riaperto agli autoveicoli e si ripristini, quindi, anche il collegamento veloce con l’aeroporto Cristoforo Colombo, chi ha detto, con inusuale sobrietà, la cosa giusta, in occasione della celebrazione istituzionale dello scorso 28 aprile, è stato il progettista dell’opera, l’architetto Renzo Piano. Piano ha dichiarato: Non deve più succedere che la parte migliore di questo Paese emerga partendo da una tragedia. Non è un miracolo, ma la normalità. Quando la gente è competente, le cose si fanno. E l’Italia è piena di persone competenti. Non abbiamo bisogno di miracoli. Questo ponte è l’esempio di come in Italia, se si vuole, le cose si possono fare bene”.

Appunto. Le cose si possono fare bene, soprattutto se servono, come sicuramente è il caso del ponte sul Polcevera. E dovrebbe essere una cosa normale in un Paese come il  nostro. Allora si tratta di partire dall’idea che costruire un ponte della lunghezza lineare di 1.067 metri di acciaio, ad unico impalcato, composto da 19 campate, poste a 40 metri di altezza, sorretto da 18 piloni, in un anno, nel pieno di un’area densamente urbanizzata, è un traguardo sicuramente ragguardevole, vista anche l’emergenza sanitaria. Ma non è un’impresa unica nel suo genere. Per capirci, per costruire il ponte e il tunnel sottomarino di Oresund, della lunghezza complessiva di circa 16 km – che collega la capitale danese, Copenaghen, alla città svedese di Malmo – ci sono voluti 4 anni. Ciò non vuole assolutamente sminuire l’intervento realizzato nel ponente genovese, in una situazione eccezionale, solo riportarlo alle sue giuste dimensioni.

Se passiamo, poi, a considerare le affermazioni sull’applicazione del Modello (autorizzativo e realizzativo) Genova a tutte le grandi opere per il rilancio del Paese nell’annunciata Fase 2, ci accorgiamo che c’è qualcosa che proprio non torna. Anche perché si accompagna al leit motiv di chi in realtà vuole di fatto una sospensione generalizzata del Codice degli appalti del 2016 – derivante dalla normativa comunitaria – che consente la legalità e la trasparenza delle decisioni e degli iter autorizzativi pubblici, nella tutela del mercato e dei lavoratori, nel caso specifico, del settore dell’edilizia.

Inoltre c’è da aggiungere, a proposito delle celebrazioni del 28 aprile, che avremmo preferito di gran lunga che, nel momento in cui si approda a Genova per dare un segnale di ripartenza e onorare le vittime, si avesse avuto il tempo di spendere almeno una parola sulla questione delle concessioni autostradali (nello specifico di Atlantia) e sulle relative convenzioni, compiendo in questa particolare occasione, magari, anche una riflessione sui meccanismi che hanno portato negli anni all’aumento automatico dei pedaggi senza che a questo corrispondessero reali  investimenti. Una riflessione che rassicurasse l’opinione pubblica sul necessario salto di qualità dei controlli da parte dello Stato concedente, sull’effettiva realizzazione degli stessi investimenti per garantire effettivamente la nostra sicurezza.

Chi, invece, dice di voler esportare il Modello Genova si riferisce in particolare alla figura del Commissario straordinario, voluto proprio con il cosiddetto “Decreto Genova” (decreto legge n. 109/2019, convertito con la legge n. 130/2019), che può operare in deroga ad ogni disposizione diversa da quella penale, fatto salvo il rispetto delle disposizioni del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché dei vincoli inderogabili derivanti dall’appartenenza all’Unione europea.  

Il Commissario creato espressamente per gestire l’emergenza derivante dal crollo del ponte Morandi dura in carica 12 mesi (prorogata o rinnovata per non oltre un triennio dalla prima nomina) e ha lo scopo di provvedere, attraverso una struttura di supporto, alle attività di demolizione, rimozione, smaltimento e il conferimento in discarica dei materiali di risulta e alle attività per l’affidamento e la ricostruzione del ponte, avendo il potere anche di nominare sub-commissari.

Si tratta, come risulta chiaro, di commissario straordinario (identificato nel sindaco di Genova, Marco Bucci)  per gestire in un determinato tempo l’uscita da una specifica emergenza. L’agire in deroga a tutte le disposizioni vigenti è, quindi, a termine, e si riferisce ad una situazione da sanare, per la ricostruzione di un tratto autostradale in una realtà urbanizzata che già conviveva con il vecchio ponte Morandi in una situazione consolidata di compatibilità con le altre infrastrutture e con gli insediamenti civili e industriali esistenti.

Altra cosa è dire che le modalità decisionali e autorizzative in questo specifico caso e per questa specifica opera possano e debbano essere esportate tout-court per realizzare gli interventi di ogni dimensione, ad elevato impatto economico-finanziario, sociale e ambientale, in tutto il Paese, quindi in situazioni ben diverse da quelle di Genova.

D’altra parte, il cosiddetto decreto Sblocca Cantieri (d.l. n. 32/2019, convertito con la legge n. 140/2019) voluto dal governo giallo-verde Conte 1, ha già previsto la possibilità da parte del presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, di nominare commissari straordinari per gli interventi infrastrutturali ritenuti maggiormente rilevanti. Commissari che possono assumere la funzione di stazione appaltante e operare in deroga alle disposizioni vigenti in tema di contratti pubblici e a cui è consentito di procedere ad effettuare occupazioni d’urgenza ed espropriazioni. O l’approvazione di progetti, fatta eccezione per quelli relativi alla tutela di beni culturali e paesaggistici, per i quali il termine di conclusione del procedimento è stato fissato in misura comunque non superiore a sessanta giorni, decorso il quale però vale la regola del silenzio assenso. Particolarmente rischiosa nel caso di amministrazioni preposte alla tutela. 

Perché si sta insistendo su questo tasto del Modello Genova, pur in presenza delle forzature appena descritte?. Perché in realtà si vuole una disapplicazione generalizzata del Codice appalti e delle norme ambientali per tutte le grandi opere senza alcuna distinzione, andando addirittura oltre alla semplificazione e accelerazione delle procedure che già esiste per opere specificamente individuate. Come detto correttamente dai sindacati di categoria degli edili di Cgil, Cisl e Uil, in un loro documento del 6 maggio 2019 sul decreto Sblocca-Cantieri, “la nuova figura di commissario, sul modello di Genova, al quale è stata data la possibilità di operare in deroga al Codice degli appalti e solo con la definizione ‘non in violazione di norme comunitarie e penali’, significherebbe di fatto una non applicazione del codice”. 

La mania dell’accelerazione, che in questi giorni sta raggiungendo il parossismo, è un vecchio vizio, un pretesto già abusato. Per 15 anni, a partire dal 2001 e sino al 2015, abbiamo avuto nel nostro Paese le procedure autorizzative accelerate e semplificate derivanti dalla “legge-obiettivo” e dal “primo programma delle infrastrutture strategiche”, che stavano portando al collasso i conti pubblici – come rilevato dalla Corte dei conti, dalla Banca d’Italia e da altri organismi di vigilanza. Procedure che sono entrate in crisi nel 2015 a causa di un’inchiesta della magistratura che ha portato, tra l’altro, alla rimozione dei vertici della “struttura di missione” per le infrastrutture strategiche del ministero delle Infrastrutture e Trasporti, a cui sono stati contestati i reati di corruzione, l’induzione indebita e altre violazioni relative alla pubblica amministrazione. È stato poi il  Codice degli appalti del 2016 a decretarne il superamento. Si trattava di norme che creavano un regime speciale e una corsia preferenziale per le grandi opere senza, di fatto, alcun criterio di selezione delle priorità. Il programma, infatti, era passato dalle 115 opere per 125,8 miliardi di euro del 2001 alle 419 opere, per un costo di 375,3 miliardi di euro del 2014 (come attestato dall’ultima rilevazione del Servizio studi della Camera dei deputati, risalente al dicembre 2014). L’importante era che lo Stato si impegnasse nei confronti dei giganti dell’edilizia, ad attuare un programma di opere pubbliche, peraltro fallimentare. Perché, a consuntivo, solo il 10% dei lotti delle opere è stato realizzato, ma gli interventi completati nella loro interezza sono solo il 4%.

Per certi versi ora con la richiesta di duplicare il Modello Genova si vuole di più: mano libera, senza regole, per qualsiasi intervento e dappertutto. Una tendenza che, proprio a partire dal decreto legge Sblocca Cantieri aveva visto i sindacati di categoria degli edili di Cgil, Cisl e Uil e gli ambientalisti (Kyoto Club, Legambiente e Wwf) puntare il dito, concordemente, su alcuni gravi aspetti delle modifiche peggiorative al Codice appalti del 2016, relative proprio all’eccesso di potere delle figure commissariali, all’assegnazione degli appalti sulla base del minor prezzo e non del prezzo migliore, all’opacità della catena dei subappalti. Tutti meccanismi questi – insieme a quello dell’appalto integrato, fortemente contestato dagli ambientalisti e dall’Autorità nazionale Anticorruzione, perché non garantisce l’indipendenza e l’autonomia della progettazione – che mettono a rischio la legalità e la trasparenza in un settore delicato come quello degli appalti pubblici. Un settore che ha visto, nella prima e seconda Repubblica, il susseguirsi di  scandali e l’accertata infiltrazione della criminalità organizzata.

L’allora procuratore nazionale antimafia, Pierluigi Vigna, definì la legge Obiettivo una norma crimonogena. Oggi, è il Procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho, a lanciare il suo monito. Proprio quando tutti dicono, almeno a parole, di temere in un momento di debolezza estrema debolezza economico-finanziaria dell’Italia – un aumento del potere di condizionamento della criminalità organizzata. 

In un’articolata intervista rilasciata all’agenzia di stampa ANSA lo scorso 23 aprile, De Raho dichiara:”Nessuno è al di fuori e al di là del rischio dell’infiltrazione delle mafie – le mafie vanno ad investire dove trovano maggiore opportunità. Molto spesso è all’estero e non in Italia. Le mafie hanno sempre tratto nei momenti di emergenza, momenti di grandissimo splendore e dal punto di vista dell’investimento delle ricchezze. Come nella costruzione post terremoto, quando la camorra ha provato ad intercettare i flussi della pubblica spesa, e in questo modo si è infiltrata in tutti i grandi appalti con le proprie imprese, e ha costituito imprese di costruzione, consorzi, etc.”,

È bene che questa consapevolezza sia condivisa dal governo Conte 2 nel momento in cui, con tanta leggerezza, molti chiedono di cancellare le regole di trasparenza e di legalità che garantiscono i cittadini e i lavoratori.

L’impressione è che ancora una volta si guardi al dito invece che alla luna. Le  sezioni riunite in sede di controllo degli atti della Pubblica amministrazione della Procura generale della Corte dei conti nel maggio 2019, sempre nell’ambito del confronto sulle norme sblocca cantieri osservavano che: “Appare limitata la riflessione in ordine alla valutazione ex ante delle finalità cui mira l’opera pubblica ed i bisogni che si intendono soddisfare attraverso di essa, al controllo concomitante e al controllo ex post dell’avvenuto.” La Corte dei conti (CdC) aggiungeva: “Scarsa attenzione, invece, appare dedicata al procedimento interno attraverso il quale l’amministrazione perviene alla decisione di realizzare l’opera pubblica non essendo previsto che la stessa motivi nell’ante tale determinazione, anche comparandola con altre possibili ipotesi diverse”. La sezione di controllo della CdC sulla Pa in sostanza metteva i piedi nel piatto denunciando – e non è la prima volta – il modo con cui vengono programmate e progettate le grandi opere pubbliche. Categoria di opere che vengono portate alle valutazioni ambientali, nella stragrande generalità dei casi, senza piani economico finanziari, analisi costi-benefici, che dimostrino non solo la redditività e ma l’utilità sociale e ambientale dell’intervento. E la valutazione ambientale strategica su piani e programmi e la valutazione di impatto ambientale sui progetti dovrebbero servire virtuosamente proprio a compiere le scelte migliori a minore impatto, consentendo anche di costruire, contestualmente, il consenso a ché queste vengano realizzate.

Chi chiede, quindi, di cancellare o di derogare dalle valutazioni ambientali, concepite per aiutare a compiere le scelte migliori nell’interesse della comunità, in realtà vuole negare il controllo sociale, rendere più arbitrario e oscuro il criterio di selezione delle grandi opere pubbliche, mettere in difficoltà la pubblica amministrazione, far prevalere gli interessi privati su quelli collettivi.

Questo non significa che non si possano trovare casi specifici, ben selezionati,  individuati e motivati in maniera trasparente dove si possa procedere – nel caso di riconosciuta e condivisa necessità e urgenza –  accelerando le procedure, senza che però siano elusi i passaggi fondamentali che tutelano i beni comuni. Nel contempo, come ha detto l’11 aprile scorso Raffaele Cantone – in un suo condivisibile intervento sulle pagine del Corriere della Sera – c’è bisogno anche di “un progetto urgente e ampiamente condiviso sul piano politico di riscrittura dei criteri dell’azione amministrativa, che valgano però per tutti, senza creare corsie preferenziali.” Nel suo articolo Cantone (che è stato dal marzo 2014 all’ottobre 2019 presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione – ANAC) ritiene che siano da scongiurare innanzitutto soluzioni nell’ambito degli appalti pubblici che abbiano come obiettivo: la sospensione generalizzata delle regole esistenti dell’azione amministrativa perché si correrebbe il rischio di “…infiltrazioni criminali di derive corruttive, di gestione neoclientelari e soprattutto perché darebbe un colpo durissimo ai principi di concorrenza tra imprese …”.

Ma l’ex presidente di ANAC mette in guardia anche dal generalizzare il Modello Genova che ritiene sia di non minore gravità della sospensione generalizzata perché “…si creerebbe un doppio livello dell’azione amministrativa, con regole speciali di favore per pochi …”. Se davvero si vogliono creare le condizioni per rendere più efficiente la nostra burocrazia gli strumenti ci sono, basta però che non si usi questa scusa per forzare le regole condivise mettendo a rischio i conti pubblici, la sicurezza di noi tutti/e e i nostri beni culturali, archeologici, paesaggistici e ambientali che fanno parte della ricchezza nazionale.