Recenti studi hanno mostrato che le principali analisi dell’Accordo sono sostanzialmente inaffidabili perché utilizzano modelli economici che in passato hanno portato a seri errori
In questi mesi l’Unione Europea e gli Stati Uniti stanno negoziando il Trattato di Partenariato Transatlantico su Commercio e Investimenti (TTIP), un importante accordo commerciale che dovrebbe portare ad una maggiore integrazione delle due (o ventinove) economie.
Come avviene solitamente quando si discutono trattati commerciali, anche nel caso del TTIP i negoziati sono accompagnati da una serie di studi econometrici secondo i quali l’accordo porterà vantaggi netti per tutti i paesi convolti. I sostenitori europei del TTIP citano normalmente quattro principali studi che prevedono vantaggi netti, anche se quantitativamente trascurabili e distanti nel tempo. Essi prevedono inoltre che l’aumento del commercio transatlantico avverrà al prezzo di una riduzione del commercio intra-europeo. La Commissione Europea, la più energica sostenitrice del TTIP in Europa, si trova così in una situazione paradossale: invece di favorire l’integrazione dell’Europa, la sua politica commerciale rischia di causarne la dis-integrazione.
Inoltre recenti studi hanno mostrato che le quattro principali analisi dell’Accordo sono sostanzialmente inaffidabili perché utilizzano modelli economici che hanno portato a seri errori quando in passato sono stati utilizzati per valutare le potenziali conseguenze di altre liberalizzazioni commerciali.
Alla luce di queste critiche e per capire meglio le conseguenze del TTIP, ho provato a fare delle proiezioni usando un modello economico diverso da quello degli studi ufficiali. Fra i vari modelli disponibili ho scelto il Global Policy Model delle Nazioni Unite (GPM), che incorpora ipotesi decisamente più realistiche rispetto ai modelli degli studi ufficiali. Ad esempio, nella maggior parte delle analisi ufficiali si esclude in partenza qualsiasi cambiamento del livello di occupazione assumendo che un eventuale calo della domanda possa causare solo una riduzione dei salari e di altri prezzi. Invece il GPM ammette che un calo della domanda, per esempio dovuto ad un maggiore afflusso di merci competitive provenienti dagli Stati Uniti, possa provocare una riduzione dell’occupazione.
Calcolati con il GPM, gli effetti del TTIP sono radicalmente diversi da quelli ufficiali (l’articolo in inglese con i risultati completi è disponibile sul sito del Global Development and Environment Institute). In primo luogo il TTIP appare causare, nel giro di dieci anni, una perdita in termini di esportazioni nette. Le economie nordeuropee registrerebbero le perdite più grosse (2,1% del PIL) seguite da Francia (1,9%), Germania (1,14%) e Regno Unito (0,95%). Conseguentemente il TTIP causerebbe una perdita netta in termini di PIL, anche in questo caso più alta per i paesi nordeuropei (-0,5%) che per la Francia (-0,48%) e la Germania (-0,29%).
I risultati più importanti però riguardano gli effetti sul lavoro. Il TTIP causerebbe una perdita di reddito da lavoro variablile da 3.400 Euro pro-capite annuali in Germania a 5.500 Euro in Francia. Quel che è peggio, si registrerebbe una riduzione netta dell’occupazione. Secondo i miei calcoli, l’Unione Europea perderebbe circa 600.000 posti di lavoro. I paesi nordeuropei sarebbero i più colpiti con una perdita di 223.000 posti di lavoro, seguiti da Germania (-134.000), Francia (-130.000) ed Europa meridionale (-90.000).
Con redditi più bassi e una disoccupazione più alta profitti e rendite aumenterebbero in proporzione al totale dei redditi rafforzando una tendenza alla concentrazione del reddito che ha contribuito a creare l’attuale fase recessiva. Questo significa che proporzionalmente avrebbe luogo un trasferimento di reddito dal lavoro al capitale, particolarmente alto nel Regno Unito (con il 7% del PIL che passerebbe dai salari ai profitti), in Francia (8%), in Germania e Nord Europa (4%).
Non mancherebbero le conseguenze sul gettito fiscale. In seguito alla riduzione del PIL e dei redditi personali le imposte indirette (come l’IVA) si ridurrebbero in tutti i paesi dell’Unione Europea, mentre i disavanzi fiscali aumenterebbero con buona pace dei parametri di Maastricht.
Infine, il TTIP rischierebbe di causare maggiore instabilità finanziaria e l’accumulazione di pericolosi squilibri. La riduzione di esportazioni nette, redditi da lavoro e gettito fiscale richiederebbe che la domanda aggregata sia sostenuta da profitti e investimenti. Tuttavia, il basso livello dei consumi realisticamente porterebbe a bassi ricavi e bassi profitti d’impresa. È allora più probabile che profitti ed investimenti siano sostenuti, invece che dalle vendite commerciali, da una crescita dei prezzi finanziari eventualmente facilitata da provvedimenti di deregolamentazione che incoraggiano prestiti rischiosi. Dopo la crisi finanziaria del 2008-2009, la potenziale instabilità macroeconomica che deriva da questa combinazione di fattori è tristemente nota.
Le proiezioni del GPM dipingono un quadro scoraggiante per le autorità di politica economica. A queste infatti rimarrebbero solo tre opzioni per stimolare l’economia: (1) favorire un aumento del credito privato, con il rischio di creare nuovi squilibri finanziari, (2) provare la strada di una svalutazione del cambio, con il rischio di provocare una guerra valutaria, oppure (3) una combinazione delle due.
In conclusione i calcoli fatti con il GPM suggeriscono due riflessioni. In primo luogo, le analisi ufficiali del TTIP non offrono una buona base per decidere su un cambiamento di politica economica così importante. In secondo luogo e più in generale, cercare di aumentare il volume del commercio internazionale non rappresenta un’efficace strategia di crescita economica per l’Unione Europea. Nell’attuale situazione di austerity, alta disoccupazione e bassa crescita aumentare ulteriormente la pressione sui redditi da lavoro non può che danneggiare l’economia.
Volendo sintetizzare tutto in una frase, interpreterei così i risultati dei miei calcoli: affinché una strategia di ripresa economica in Europa sia praticabile è necessario un impegno consapevole della politica economica in supporto dei redditi da lavoro.