Un rapporto di Greenpeace ha svelato che nel 2021 circa due terzi della spesa italiana per le missioni militari sono destinati a operazioni a tutela di gas e petrolio, quasi 800 milioni di euro. Dalla Guinea alla Libia, al Mozambico. Così si aggrava la crisi climatica con risorse pubbliche.
Con una mano il governo Draghi firma gli impegni sulla transizione ecologica, con l’altra invia i militari a difendere gli interessi delle fonti fossili all’estero. Un recente rapporto di Greenpeace ha svelato che nel 2021 circa due terzi della spesa italiana per le missioni militari sono destinati a operazioni a tutela di gas e petrolio, per un totale di quasi 800 milioni di euro. Due missioni militari, inoltre, hanno il compito di “proteggere gli asset estrattivi Eni”, azienda per il 70 per cento privata. Sommando tutte le operazioni “fossili” degli ultimi quattro anni, il ministero della Difesa ha speso circa 2,4 miliardi di euro. E il trend non accenna a diminuire. Anzi, quest’anno le missioni a tutela di fonti energetiche inquinanti sono aumentate. Sempre senza alcuna discussione pubblica sugli interessi che le Forze armate italiane sono chiamate a difendere. Ovviamente nessuna missione militare ha l’esclusivo obiettivo di proteggere le piattaforme Eni o la sicurezza energetica del Paese, ma in alcuni casi questo compito è addirittura al primo posto.
Uno dei casi più eclatanti è l’operazione Gabinia nel Golfo di Guinea: malgrado le acque in questione siano infestate dai pirati, il primo compito indicato nella scheda di missione inviata dal Governo al Parlamento è “proteggere gli asset estrattivi di Eni, operando in acque internazionali”. La necessità di difendere il naviglio mercantile nazionale dagli attacchi dei pirati compare solo al secondo posto: un compito di nuovo collegato al fattore energetico, dato che – come sottolinea la delibera che istituisce la missione – sul Golfo di Guinea “si affacciano due dei maggiori produttori di petrolio dell’Africa subsahariana, la Nigeria e l’Angola”. La sintesi ci arriva dal ministro della Difesa Lorenzo Guerini: audito il 25 giugno 2020 dalle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato, ha precisato che il Golfo di Guinea “è oggetto di un crescente interesse nazionale in materia di approvvigionamento di risorse energetiche. Rileva in tal senso la presenza strutturata di Eni, quale principale operatore del settore”. Insomma: l’Italia è là per tutelare le fonti fossili e le attività del Cane a sei zampe. Alla faccia dei cambiamenti climatici.
Non solo. Anche se il nome potrebbe evocare il salvataggio dei migranti, la prima attività dell’operazione Mare Sicuro al largo della costa libica è, di nuovo, la “sorveglianza e protezione delle piattaforme dell’Eni ubicate nelle acque internazionali prospicienti la costa libica”. La relazione governativa precisa che la missione svolge questa funzione “con continuità”. La centralità di Eni nell’approccio italiano in Libia emerge anche dalle dichiarazioni del ministro degli Esteri. Nel giugno 2020, illustrando l’impegno militare italiano nel Paese africano, Luigi Di Maio è andato diretto al punto: “Stiamo lavorando per proteggere i nostri asset geostrategici. Come lo facciamo? L’Eni è lì, l’Eni è in Libia”. Nel 2016, rispondendo a un’interrogazione del Movimento Cinquestelle sulle infrastrutture energetiche “poste sotto la protezione delle forze armate” e sui costi sostenuti dallo Stato, il sottosegretario alla Difesa Domenico Rossi precisò che nell’area “le piattaforme di interesse nazionale sono quattro” e che, “stanti le modalità operative proprie delle missioni aeronavali, è possibile fornire i costi programmatici complessivi”, non gli oneri finanziari dei singoli compiti. Ecco perché l’analisi di Greenpeace ha tenuto conto del costo totale di ogni missione.
Per quanto riguarda il capitolo iracheno, non è necessario scomodare i cospirazionisti per collegare l’intervento italiano al petrolio. A sancire inequivocabilmente il legame è stato lo stesso ministro della Difesa quando ha illustrato le missioni militari alle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato: “Il crollo dell’Iraq, dal punto di vista securitario, avrebbe il potenziale di coinvolgere e travolgere l’intero Medio Oriente”, ha spiegato Guerini nel giugno 2020. “Per l’Italia, questo scenario metterebbe a repentaglio la nostra sicurezza energetica essendo l’Iraq, infatti, il nostro primo fornitore di greggio”. Anche nel 2021, il ministro ha presentato l’impegno italiano in Iraq con argomentazioni esplicitamente energetiche: “Nel quadrante mediorientale è confermato il nostro impegno in Iraq, Paese di elevata priorità strategica, sia sul piano degli equilibri regionali, sia a tutela dei nostri interessi nazionali, a partire dal tema prioritario degli approvvigionamenti energetici”. Oltre a partecipare alla missione Nato, l’Italia fa parte della “Coalizione globale anti-Daesh/Isis” che, tra i suoi compiti, vede anche il contrasto al finanziamento di Daesh, compresi i proventi relativi al traffico di petrolio.
Particolarmente connessa alla centralità energetica del Medio Oriente è la missione europea European Maritime Awareness in the Strait of Hormuz (EMASoH), volta a tutelare la sicurezza dello Stretto di Hormuz. Cosa ci sia in gioco in quel braccio di mare, lo esplicita la relazione governativa quando definisce lo Stretto una “importante arteria marittima di transito del petrolio”, nella quale l’attuale “situazione di insicurezza e instabilità” ha messo “a repentaglio l’approvvigionamento commerciale ed energetico”. Lo stesso ministro degli Esteri, del resto, ha dichiarato che “un terzo del nostro fabbisogno di energia passa per lo Stretto”. Da qui, il legame tra la tutela delle fonti fossili e la partecipazione italiana alla missione lanciata dalla Francia.
C’è poi la partita nel “Mediterraneo orientale”, il nuovo eldorado del gas. Già nel 2019, il ministro Lorenzo Guerini esprimeva preoccupazione per lo “sfruttamento delle risorse energetiche” in quella zona di mare a causa del contenzioso in corso tra Cipro e Turchia, e sottolineava l’esigenza di tutelare “gli interessi nazionali nell’area”. Interessi che hanno un nome e cognome preciso: “Nello specifico, d’accordo con Eni, il governo segue con attenzione costante l’attività di esplorazione”. Nel 2020 il titolare della Difesa ha ribadito l’esigenza di rafforzare la presenza italiana “in risposta alla crescente proiezione di attori vecchi e nuovi, che minacciano, tra le altre, le prerogative legittime di sfruttamento delle risorse energetiche”.
Dopo aver ricordato le “cospicue risorse energetiche presenti” nel Mediterraneo orientale, questa estate Guerini è entrato nei dettagli delle motivazioni che hanno spinto l’Italia a candidarsi a partecipare al Maritime Task Force di Unifil, la missione Onu in Libano: “Abbiamo offerto un’unità navale per la sua aggregazione al dispositivo marittimo della missione, contributo che ci consentirebbe di rafforzare la presenza nazionale nel bacino del Mediterraneo orientale, oggetto di una sempre più marcata competizione per lo sfruttamento delle risorse presenti nell’area e dove risiedono rilevanti interessi nazionali a voi noti”. Già nel novembre 2019, del resto, rispondendo a chi sollevava dubbi sulla necessità di riconfermare l’ormai quarantennale partecipazione italiana alla missione Unifil in Libano, Guerini sottolineava che “adesso e più che mai è importante restare nel Paese, sia in supporto alle istituzioni che in aiuto alla popolazione, senza perdere di vista, ad ogni buon conto, i nostri interessi strategici in quell’area, soprattutto energetici e industriali”. Ovviamente, non si sostiene che l’Onu abbia indetto la missione (o che l’Italia vi abbia a suo tempo aderito) per motivi energetici. Si dice solo che le recenti scoperte di gas hanno un ruolo decisivo nella decisione italiana di restare in Libano e di candidarsi alla task force marittima. Una delle operazioni che ha recentemente registrato un incremento nell’area del Mediterraneo orientale è la missione Nato Sea Guardian, che “svolge essenzialmente attività di sorveglianza degli spazi marittimi di interesse nel Mar Mediterraneo”, ma anche compiti di “protezione delle infrastrutture sensibili”.
Tra le missioni militari che Greenpeace ha etichettato come “fossili” compare anche Atalanta, l’operazione antipirateria dell’Unione europea al largo della Somalia, nel Golfo di Aden e l’Oceano indiano: uno dei luoghi più pericolosi al mondo fino a qualche anno fa, l’area è ancora considerata rischiosa. Uno studio sulla pirateria somala del Centro Militare di Studi Strategici (2009), pubblicato sul sito del ministero della Difesa, evidenziava che il settore “dei beni energetici risulta essere proprio uno dei settori colpiti in misura sempre crescente dagli attacchi dei pirati”. La stessa NATO, del resto, ha dichiarato che le missioni antipirateria, “proteggendo importanti rotte marittime”, contribuiscono “alla sicurezza energetica”.
L’impegno “fossile” delle Forze armate italiane potrebbe non finire qui. Questa estate, il ministro Guerini ha dato mandato allo Stato Maggiore della Difesa di “avviare una valutazione su possibili contributi italiani” alla missione di addestramento militare in Mozambico, istituita il 12 luglio 2021 dal Consiglio dell’Unione europea per formare e sostenere le forze armate locali nella protezione della popolazione civile e per ripristinare la sicurezza nella provincia più settentrionale del Paese, Cabo Delgado. Parlando della istituenda missione davanti alle commissioni riunite, il titolare della Difesa aveva precisato che la provincia in questione è “un’area caratterizzata anche dalla presenza di risorse energetiche”. Aveva poi aggiunto che “gli scontri tra la locale insorgenza, infiltrata dai movimenti jihadisti, e le forze di sicurezza locali hanno causato una immediata crisi umanitaria e le interruzioni dell’attività estrattiva”. La scheda ufficiale di EUTM Mozambique, resa pubblica dal Consiglio dell’Unione europea nell’ottobre 2021, elenca l’Italia tra le dieci “nazioni che contribuiscono alle truppe”. Nel suo sito web, Eni definisce il Mozambico “uno tra i Paesi più promettenti del continente africano nel settore energetico”.
I contribuenti italiani si trovano, di fatto, a pagare una quota della sicurezza delle infrastrutture Eni, nonostante la stessa compagnia dichiari ai suoi azionisti che “la tutela della sicurezza di persone e asset è responsabilità aziendale”. Sommando tutte le missioni militari con compiti “fossili” – più i costi di supporto – si arriva a un totale di 797 milioni per il 2021, 560 milioni per il 2020, 525 milioni per il 2019 e 568 milioni per il 2018.
Si tratta di un impegno militare ed economico importante, deliberato anno dopo anno senza un vero dibattito pubblico sugli interessi che il nostro Paese dovrebbe tutelare. Tutto questo mentre il connubio tra la Difesa ed Eni è sempre più forte. Nel luglio 2021 la Marina militare e il colosso energetico hanno firmato un Protocollo d’intesa per garantire la “sicurezza marittima” e potenziare la “sicurezza energetica a protezione degli interessi nazionali in campo marittimo”. Impossibile, però, sapere cosa preveda, visto che il documento è sottratto all’accesso pubblico: la richiesta di accesso agli atti di Greenpeace è stata infatti bocciata. Rimane così il dubbio che l’obiettivo ultimo di tutte queste missioni sia più assicurare contratti e protezione ad Eni, che non la sicurezza energetica degli italiani. Ormai sempre più minacciati dagli sconvolgimenti climatici, causati proprio dall’uso delle fonti fossili.
* Unità investigativa Greenpeace