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Salute e guerra, una lezione al contrario

La grande intuizione del dopoguerra fu l’assoluta centralità della salute di fronte a un’Europa grande ospedale da campo. Nel terzo anno del Covid-19 nel nostro paese sembra che la lezione non sia stata imparata, a vedere la legge lombarda che privilegia i privati. Mentre infuria una nuova emergenza guerra.

Esattamente tre anni fa, il nostro paese scopriva che il nuovo coronavirus aveva trovato la sua agile via di approdo in Italia, da Wuhan. Come, ancora non è dato sapere, visto che il paziente zero non è mai stato identificato. Abbiamo scoperto che SARS-CoV-2 già abitava fra noi il 21 febbraio a Codogno. Per caso, anzi no, piuttosto per ostinazione di una giovane anestesista di Cremona, Annalisa Malara, che in scienza e coscienza ha deciso di violare i protocolli ordinari per la gestione del paziente, ha firmato assumendosi tutte le responsabilità del caso di fronte alla amministrazione sanitaria, e ha ostinatamente eseguito il tampone a Mattia Maestri. Con questo gesto personale non scontato ha ufficialmente decretato il primo focolaio di Covid-19 in Lombardia. Un passaggio denso di significanze: alcuni giornali hanno parlato della “pazzia clinica” di Annalisa Malara. Iperboli giornalistiche a parte, la scoperta di SARS-CoV-2 in Italia allude, si può ragionevolmente dire, a una insostenibile forma di nemesi medica, tanto per ricorrere al saldo bagaglio analitico di Ivan Illich. Rimanda cioè a un’evidente disfunzione della scienza e del sistema sanitario, che mentre crea incessantemente nuovi bisogni terapeutici, non riesce più a rispondere – se non per eccezione, appunto – ai bisogni reali che sollecitano a riappropriarsi della salute. Il fatto che, come sostiene Illich, il cosiddetto progresso della medicina sia una variabile dipendente di trasformazioni che si riflettono in ciò che i medici fanno/non fanno e dicono/non dicono propone una chiave di lettura, ancora prima del tampone di Codogno, sulla storia di mancata sorveglianza relativa alle due morti di novembre 2019 a Milano, tra cui un bambino di 4 anni, cui era stato sommariamente diagnosticato il morbillo. 

Oggi noi sappiamo che il virus era già presente ben prima del 21 febbraio in Lombardia. Uno studio pubblicato lo scorso dicembre su Epidemics-The Journal of Infectious Disease Dynamics registra 527 casi di persone con sintomi di Covid-19 in età tra i 75 e i 78 anni in Lombardia, di cui 38 sanitari, prima della identificazione del focolaio di Codogno. Già nel 2019 il Covid-19 circolava silente e non intercettato in almeno 222 dei 1506 Comuni lombardi, dice lo studio coordinato da Danilo Cereda: una notizia che non risulta particolarmente rassicurante, e che forse sta all’origine della catastrofe che il patogeno invisibile e sconosciuto ha inferto poi a tutto il sistema sanitario italiano. Uno tsunami che allora seminò il panico nel mondo. Se soccombeva l’Italia, un paese dotato di uno dei migliori sistemi sanitari pubblici al mondo secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che cosa poteva accadere altrove? Che cosa avrebbe scatenato il nuovo coronavirus nei paesi del Sud globale, sguarniti di sistemi sanitari degni di questo nome, o con servizi fatiscenti e scarni di strumenti e risorse umane, malgrado le vagonate di miliardi di dollari investiti in salute globale negli ultimi venti anni? 

Il sociologo e filosofo francese Bruno Latour ha scritto che la pandemia ha assunto in questi anni il ruolo di Socrate, il quale effettivamente si paragonava a un tafano quando, mischiandosi alla gente nelle piazze di Atene, punzecchiava i suoi concittadini per svegliarli, persuaderli, rimproverarli. Il virus, con la cinetica delle sue varianti, è un avvertimento feroce ma inconfutabile che arriva dalla natura, il cui contrattacco continua a imporre un profondo ripensamento, anzi un cambio di civiltà. Dopo due anni, è arrivata l’ora di accorgersene. La posta in palio non riguarda solo il superamento della visione antropocentrica del rapporto fra esseri umani e natura – non sarà più abitabile il pianeta alle stesse condizioni di vita che abbiamo conosciuto nel mondo occidentale – ma anche la necessità di ripartire da una visione di diritto alla salute come pilastro per la costruzione della società e la definizione di politiche che mettano al centro la dignità della persona e la cura degli ecosistemi. Condividiamo lo stesso destino come esseri viventi, pandemia e crisi climatica sono oggi le matrici di un’unica pedagogia. 

Era stata la grande intuizione del dopoguerra, al momento della costituzione delle Nazioni Unite, la assoluta centralità della salute. E non a caso: l’Europa era un ospedale da campo. Il diritto alla salute, quindi, nacque formalmente diversi mesi prima della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani: il 7 aprile 1948, con l’entrata in vigore dell’Oms. La comunità internazionale aveva ben chiara un’idea di futuro: per ricostruire vita sulle macerie ancora fumanti di due guerre mondiali era necessario cominciare dal diritto primigenio, quello in cui tutti si riconoscono a prescindere dalle appartenenze e ideologie, il diritto che in un certo senso prepara le condizioni di accesso e fruizione di tutti gli altri diritti. Il diritto alla salute poteva a ragione denotarsi come spazio privilegiato di sperimentazione per una agenda dei diritti tout court, a partire dal quale le nazioni sopravvissute alle devastazioni di due conflitti sarebbero state in grado di rimettere insieme i dolorosi frantumi delle rispettive società. La rigenerazione, allora, ebbe molto a che fare con visioni forti, e con il loro presidio. 

Nel 2022, dopo quattro decenni di una globalizzazione sfrenata – anch’essa, in fondo, una guerra – i due sconvolgenti anni di Covid-19 che ci lasciamo alle spalle portano alla luce i limiti della bufera che chiamiamo progresso, per dirla con Walter Benjamin, con tendenze di stratificazioni delle disuguaglianze destinate a incidere, anche geneticamente, nelle future generazioni. Allo stesso tempo, invocano la necessità di una nuova alleanza terapeutica, una nuova strategia della cura. Davanti a una malattia che continua a colpire l’intimità dei corpi, in modalità impreviste ancora da valutare appieno nelle diverse fasce della popolazione, noi non possiamo reagire limitandoci a consumare e produrre merci. 

Ma cosa sta succedendo, invece?  Il modello privatistico della salute in Lombardia, che in nome dell’efficienza non ha solo pervicacemente smantellato dagli anni ‛90 in poi la sanità pubblica sul territorio, ma ha anche depotenziato il sistema pubblico di laboratori di sorveglianza – nel 2021 si dava in Lombardia un solo laboratorio ogni 1,2 milioni di abitanti, contro un laboratorio ogni 500.000 abitanti in Veneto, secondo un rapporto internazionale – prosegue senza soluzione di continuità nello spirito e nella lettera della riforma Moratti, nuovo terreno di aspro confronto. Nella nuova legge sulla sanità della giunta regionale lombarda sono pervicacemente assenti la centralità della prevenzione, la programmazione socio-sanitaria territoriale, la tutela dell’ambiente, mentre si insiste sulla sanità privata, lasciata in piena libertà d’azione; ad essa viene attribuita la possibilità di “concorrere alla istituzione delle Case e Ospedali di Comunità” previste e finanziate dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). La stessa cosa avviene a livello nazionale: mentre si registra un grande attivismo per assicurare ai soggetti privati l’accesso ai finanziamenti europei del PNRR, malgrado il generale consenso politico generato da Covid-19 di rafforzare il servizio sanitario pubblico e universalista, nessuna buona notizia arriva dal fronte del personale del servizio sanitario nazionale (SSN), che nell’ultimo decennio ha subito un drastico ridimensionamento. Né si intravede alcun segnale di inversione di tendenza, dati i limiti imposti dal governo Monti alla spesa corrente che neppure l’impatto di Covid è riuscito a soppiantare, e data anche la mancata rimozione dei vincoli che limitano le assunzioni stabili.

Nessuna speranza. Le assunzioni di medici e infermieri, effettuate ancora in emergenza, restano a tempo molto determinato e spesso con contratti a cottimo. Le università, dal canto loro, non hanno ancora adeguato l’offerta formativa alle esigenze socio-sanitarie della popolazione, con una visione integrale della salute che comprenda l’ambiente e tutti i suoi determinanti. Restano invece appiattite a una estrema medicalizzazione, a una visione specialistica e biomedica che scientemente elude i fondamentali approcci di promozione della salute, oltre le mere prestazioni sanitarie sempre più tecnologiche.

Ha ragione David Quammen quando scrive che non eravamo preparati alla pandemia per mancanza di immaginazione. E pare proprio che non siamo guariti. Neppure se rivolgiamo lo sguardo al piano internazionale riusciamo a intravedere un ravvedimento. In una congiuntura di bassissima marea dell’azione multilaterale, l’Oms si appresta a negoziare da marzo un nuovo strumento vincolante per adeguare la governance globale della salute alla preparazione e risposta alle prossime pandemie, come se queste fossero ormai un destino. L’idea scaturisce dalla fantasia del presidente del Consiglio d’Europa Charles Michel, il quale ha lavorato sodo nel 2021 per incardinare la proposta a Ginevra e per conseguire in poche battute il sostegno incondizionato del direttore generale dell’Oms e la adesione globale – in parte forzata – a questa iniziativa europea. Sotto l’impalcatura retorica del consenso diplomatico si ravvisano tuttavia crepe di realismo non trascurabili.

Alcuni governi del Sud globale denunciano le sfide irrisolte nella loro gestione di COVID-19, difficoltà che rimandano alla annosa questione della loro impossibilità di finanziamento dei sistemi sanitari pubblici – il solo realistico baluardo contro il contagio. In Nigeria, ad esempio, la spesa sanitaria pro-capite è aumentata da meno di un dollaro a 7 dollari nel 2021, ma le condizionalità dei presiti della Banca Mondiale impediscono al governo nigeriano di programmare un rilancio dell’ancora fragile servizio pubblico. La lotta al virus deve invece passare per la ricetta che la comunità internazionale dello sviluppo si ostina a somministrare, il private sector leveraging, cioè la facilitazione agli attori della sanità privata, sulle spalle dell’accresciuto debito pubblico. L’evidenza empirica lo dimostra senza equivoci: i sistemi sanitari più deboli sono nei paesi costretti a pagare il servizio del debito ai paesi ricchi. Nel 2019 si contavano 64 governi ingabbiati nella morsa debitoria e vincolati a spendere più in servizio del debito che per investimenti in salute pubblica. Il debito è il loro virus incurabile. Più pagano, più il debito incalza: un peso cresciuto dal 35% al 65% nell’ultimo decennio, secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale (FMI, 2019). 

La cancellazione del debito sarebbe il loro vero vaccino. Se si estinguessero i pagamenti di 76 paesi a basso reddito dovuti nel solo 2020 – primo anno pandemico – si libererebbero 40 miliardi di dollari, 300 miliardi se si contasse anche il 2021. E invece che succede? In un rapporto di inizio 2021 il FMI ha previsto l’introduzione di misure di austerity in 159 paesi entro la fine del 2022: l’equivalente di una pandemia finanziaria che si abbatte su 6,6 miliardi di persone, ovvero l’85% della popolazione mondiale. Un’iterazione che lascia senza respiro, destinata com’è a stratificare vecchie e nuove disuguaglianze. E poi c’è la questione del mancato accesso ai vaccini e il persistere dell’apartheid sanitario, una ferita profonda di questo tempo, nonché l’espressione più abrasiva del disfacimento di ogni vera cooperazione internazionale tra gli Stati.

La caparbia resistenza di un manipolo di paesi – Unione Europea, Svizzera, USA e Gran Bretagna – contro la moratoria dei diritti di proprietà intellettuale (non solo brevetti, ma anche know-how, dati clinici e segreti industriali) per ampliare l’accesso alla conoscenza scientifica e permettere la decentralizzazione della produzione dei rimedi contro il Covid paralizza da un anno e mezzo ogni negoziato all’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc). La possibilità di sospendere i monopoli della conoscenza è prevista dallo stesso trattato fondativo dell’Omc, ma risulta impossibile utilizzare questo dispositivo del diritto internazionale nel contesto pandemico perché secondo l’Occidente l’oligopolio farmaceutico non può essere messo in discussione, anche se – stando ai rapporti più accreditati – il pubblico finanzia la ricerca in campo farmaceutico in larghissima misura, anche prima di SARS-CoV-2, non solo direttamente ma tramite agevolazioni fiscali e incentivi di varia natura. Non è quindi un azzardo intellettuale parlare di appropriazione privata della ricerca pubblica favorita dai governi, ai quali invece spetterebbe negoziare le migliori condizioni per difendere la salute delle loro società. Ne danno evidenza due notizie di questi giorni. La prima riguarda l’indagine a Bruxelles sull’eccessiva familiarità della presidente della Commissione con il CEO della Pfizer Albert Bourla, a fronte della persistente opacità sulle clausole contrattuali che l’Europa ha stipulato con le aziende farmaceutiche per l’acquisto dei vaccini (solo l’Italia ha speso 24 miliardi di dollari!). La seconda notizia ci porta in Sudafrica, dalla azienda Afrigen Biologics and Vaccines, che con il supporto della Oms è riuscita, a replicare il vaccino mRNA di Moderna con un processo di ingegneria inversa. La società civile sudafricana sta in allerta; sarà da vedere se Moderna avrà davvero la faccia tosta di sfidare il paese africano per rivendicare diritti esclusivi su un vaccino totalmente finanziato dall’operazione Warp Speed dall’amministrazione Trump (anche se omette di esplicitarlo nelle documentazioni brevettuali ufficiali in USA). 

Su questa geopolitica sanitaria si combatte con multiformi vicende una guerra strutturale sulla gestione della conoscenza che da decenni semina morti, una patologia dalla quale neppure Covid-19 è riuscito a immunizzare il mondo. Si tratta di un crinale di tensione del tutto speculare alla roboante minaccia del ricorso alle armi che si traduce nella stessa desolante iterazione di violenza e morte. Quella che registriamo oggi in Ucraina, a pochi giorni dall’invasione russa. Nel tempo di una pandemia non ancora risolta, in mezzo allo scriteriato agitarsi di una comunità internazionale allo sbando, ci mancava solo il sibilo delle armi per dissipare e uccidere ogni speranza di uscirne migliori.